Il nostro viaggio virtuale volto alla scoperta dell’Italia del vino prodotto da donne raggiunge la Campania, regione che offre un panorama di rara bellezza: dal golfo di Napoli ai siti archeologici di Paestum, Ercolano e Pompei, espressioni artistiche senza tempo, da Capri, Ischia e Procida sino a Positano, Amalfi e Sorrento, vere e proprie gemme incastonate nella roccia a strapiombo sul mare.
In questa cornice naturale si distingue il monumento più affascinante tra tutti, il Vesuvio, che campeggia alle spalle di Napoli, città-cardine della Magna Grecia e più recentemente dell’Occidente, centro dell’Umanesimo e dell’Illuminismo, sede della più antica università statale d’Europa e di un’accademia militare di primaria importanza, culla delle arti figurative, musicali, teatrali e manuali, da quella dei presepi viventi ‒ su tutti si distingue quello di San Gregorio Armeno ‒ a quella dei maestri liutai, fino all’antico borgo degli Orefici. I numerosi e variegati elementi architettonici ‒ il duomo di San Gennaro, pullulante di affreschi, piazza del Plebiscito, il Maschio Angioino, risalente al XIII secolo, per non citarne che alcuni ‒ hanno contribuito a rendere il centro storico partenopeo un vero e proprio museo a cielo aperto, tanto da essere dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco, nel 1995. Città pittoresca per eccellenza, nel visitarla sembra di vivere un’esperienza sensoriale: colpisce per i suoi colori vivaci che ricordano l’abito di Arlecchino, i profumi di arance, limoni e zagare, la musica classica e l’opera, il tangibile spirito d’accoglienza, non ultime le specialità che si possono gustare con gli occhi e con il palato, dalla pizza margherita alla pastiera, dalle sfogliatelle alle rinomate zeppole di San Giuseppe.
Per comprendere i tratti magici di questa città si possono utilizzare le parole di Anna Maria Ortese, scrittrice di origine romana che nel corso della sua esistenza ha vissuto a più riprese nella città partenopea. Rimase legata a essa per tutta la vita, rendendola il correlativo oggettivo della sua ispirazione, come testimonia la sua opera più nota, Il porto di Toledo (1975), ma già la raccolta di racconti titolata L’Infanta sepolta, edita nel 1950, in cui ricorda:
“Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione”.
Se per un verso l’eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C. ha distrutto Pompei, Ercolano e Torre Annunziata, per un altro ha favorito la conservazione dell’intera area archeologica, riscoperta in epoca preromantica e attualmente sotto la tutela dell’Unesco. Archeologia e natura s’intersecano anche nel Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, con Paestum, che custodisce tre templi greci, Elea, antico nome di Velia, città fondata nel V secolo dai Focei, nota per aver ospitato Parmenide, fondatore della scuola presocratica, e non ultima la certosa di Padula, uno dei monasteri più grandi al mondo.
Insomma, la Campania possiede un patrimonio d’ineguagliabile ricchezza in ogni ambito della cultura, del sapere e dei costumi. Anche la tradizione vinicola vanta una storia secolare: a partire dal secolo VIII a. C. i greci introdussero varietà oggi denominate autoctone, avviando una produzione che sarebbe culminata in epoca romana, come testimoniano alcuni autori latini, tra i quali Orazio, che celebrava il profilo qualitativo dei vini prodotti in questa regione, conosciuti allora con il nome di Falerno e Cecubo. Dopo la crisi che ha investito il settore agricolo in epoca medievale, nel XVI secolo si è tornati a produrre e consumare vino campano, molto apprezzato per altro da papa Paolo III; per assistere a una regressione dovuta alle devastazioni provocate dalla fillossera – un insetto che attacca le radici della vite europea e la pianta di quella americana – evento che ha diffuso la coltivazione del tabacco. Se a seguito dell’emigrazione negli Stati Uniti si favorì la produzione di uve meno rappresentative del territorio ma dalla resa maggiore in termini quantitativi, bisognerà attendere la fine degli anni Settanta perché l’attenzione ricadesse su una rivalutazione dei vitigni autoctoni.

Il territorio è estremamente variegato, fra aree montuose, collinari e tratti pianeggianti con trame del terreno di diversa struttura e composizione che favoriscono la produzione di numerosi e particolari vini: l’Aglianico, il principale vitigno a bacca rossa; la varietà denominata Lacryma Christi, coltivata sulle pendici del Vesuvio, molto popolare negli Stati Uniti a seguito dell’emigrazione e della costituzione di numerose comunità campane all’estero, con cui si possono realizzare vini bianchi, rosati, rossi e spumanti da non confondere con l’omonimo vino bianco liquoroso; il Fiano, con cui si produce il noto vino di Avellino, e che va a costituire insieme al primo una delle tre Docg (Denominazione di origine controllata e garantita) della regione; il Greco, con cui si produce il Greco di Tufo, coltivato in tutta la regione; poi ancora la Falanghina, con cui si realizza un vino bianco di grande sapidità e bevibilità; l’Asprinio di Aversa, che conferma le lettere del suo nome e si distingue per un’acidità marcata; non ultimo il Piedirosso, coltivato principalmente nella penisola sorrentina, a Capri e Ischia, così chiamato a causa della colorazione del rachide che ricorda le zampe dei colombi.
Esemplificativa di questa iniziativa volta alla ripresa dei vitigni autoctoni è l’azienda Marisa Cuomo, situata nella Costiera Amalfitana, precisamente a Furore, uno dei borghi abbarbicati alla montagna, a cinquecento metri di altezza sul mare.

L’azzurro intenso, assieme al verde della macchia mediterranea, ai vitigni arrampicati sui pendii a picco sul mare, fa da cornice a un panorama mozzafiato, spesso ritratto nei tipici acquerelli del Golfo di Napoli, chiamati “guasce”, di moda a partire dal Settecento. La cantina si estende su dieci ettari di terreno, di cui tre e mezzo di proprietà, su una zona impervia ‒ il nome Furore rievoca infatti la forza del mare che come una furia si frange sulla scogliera ‒ trasformata in una serie di terrazzamenti digradanti verso i fiordi, attraverso tecniche di sperimentazione volte a sottrarre terreno alla roccia, per costruire pergolati ove adagiare le viti, selezionando solamente i vitigni adatti a crescere su questo singolare terroir. In queste lingue di spazio apparentemente arido si realizzano prodotti di qualità, grazie all’esposizione, che consente alla vite di beneficiare dell’azione del sole e dello iodio, e alla vendemmia manuale, che favorisce una selezione accurata delle migliori uve (foto di copertina).
Di antiche origini è la cantina, scavata nella roccia calcarea, all’interno della quale sono riposte le barrique in legno di rovere francese. La vinificazione è seguita dall’enologo Luigi Moio ‒ anch’egli produttore di vino e proprietario dell’azienda Quintodecimo, che conduce assieme alle figlie Rosa e Chiara ‒ e si avvale delle più moderne tecniche, sempre nel rispetto del territorio.

Marisa Cuomo, assieme al marito Andrea Ferraioli, svolge un lavoro unico nel territorio, tanto bello quanto difficile a gestirsi, da poter essere definito eroico, termine tecnico utilizzato per designare la viticoltura realizzata in zone di montagna impervie e ostiche, spesso dimenticate. Ed è proprio un vino estremo a rappresentare l’essenza dell’azienda: vero e proprio fiore all’occhiello, come il suo nome, il Fiorduva è considerato «un vino eroico che sa di mare e di roccia, ha il colore dell’oro e profuma di sole». Sa di mare, perché caratterizzato da una decisa mineralità e da una nota iodata; è di colore giallo dorato; profuma di frutta maturata al sole ‒ albicocca, pesca e pera ‒ suggellata da un corredo aromatico di erbe officinali, su tutte mirto, lentisco ed elicriso, che rievocano la macchia mediterranea, per poi cedere il passo a note più profonde di spezie e miele conferitegli dal passaggio in legno. All’assaggio la traccia calorica, figlia del sole che ha maturato le uve, è raccordata da una presa sapida che si prolunga nel finale fruttato. Insignito dell’Oscar come migliore vino bianco d’Italia dall’Associazione Italiana Sommelier, nel 2006, costituisce un unicum nel panorama vinicolo del sud Italia, rendendo famosa la cantina Cuomo in tutto il mondo
L’azienda si distingue per l’utilizzo dei vitigni autoctoni: dall’Aglianico al Piedirosso, in eguali quantità, con cui si realizza il Furore Rosso Riserva, che riposa per un anno nelle botti di rovere, il Ravello Rosso e il Furore Rosso, anche la versione rosata, denominata Costa d’Amalfi rosato; dalla Falanghina e Biancolella, che in diverse percentuali costituiscono il Ravello Bianco, vinificato esclusivamente in acciaio, e il Furore Bianco.
Oltre all’ineccepibile qualità, in questi vini vi è un valore aggiunto: è l’anima a fare la differenza. L’anima autentica di Marisa Cuomo, una donna che, nonostante il successo e la fama, è rimasta umile e dedita alla sua passione. Una donna con le mani sporche di terra, un po’ come la vocazione di Anna Maria Ortese, che ha mantenuto intatta la propria tessitura, nonostante l’ostracismo dei suoi detrattori e la lontananza forzata dalla sua amata Napoli, dovuta alle sue posizioni critiche nei confronti del mondo intellettuale e culturale dell’Italia dell’epoca.

Amo guardare il mondo alla luce delle letture che mi hanno accompagnata nel corso della vita. In questo caso, i vini di Marisa Cuomo mi fanno pensare a uno scritto di Virginia Woolf in cui afferma: «Mi piacciono le frasi che non si sposterebbero di un millimetro nemmeno se ci si passasse sopra con un esercito». Allo stesso modo a me piacciono i vini che sono interi, integri, anche a fronte dello scorrere del tempo, che anzi in virtù dello stesso acquisiscono un quid in più, perché sono fedeli alla nobile semplicità che li contraddistingue. Anime vere, genuine, autentiche, come quella di Marisa Cuomo e di tante altre donne che quando si dedicano a una cosa, riescono solo a migliorarla.
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Articolo di Eleonora Camilli
Eleonora Camilli è nata a Terni e vive ad Amelia. Nel 2015 consegue la Laurea Magistrale in Italianistica presso l’Università Roma Tre, con una tesi in Letteratura Italiana dedicata a Grazia Deledda. Dedita allo studio della letteratura e della critica a firma di donne, sommelière e degustatrice AIS ‒ Associazione Italiana Sommelier ‒ conduce anche ricerche e progetti volti a coniugare i due settori.
L’articolo rende il fascino del luogo, ne valorizza la bellezza, la qualità dei prodotti, l’intensa passione dei produttori e sopratutto delle produttrici per la loro attività, suscita il desiderio di conoscere i luoghi e la loro storia, di godere delle bellezze artistiche, ma soprattutto di gustarne i vini sapidi di terra e di mare, descritti con attenzione, commentati con cura, preziosi per il lavoro loro dedicato da imprenditrici e da imprenditori di valore, tra i quali emerge Marisa Cuomo. Il nome delle loro cantine è una garanzia.
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