Vi sono aspetti più intimi del vissuto delle donne nella Grande Guerra che sono stati ignorati. Non ci si è mai chiesto abbastanza cosa abbiano realmente provato le donne in questi lunghi anni di conflitto, come abbiano sopportato angosce, paure, sofferenze, perdite. Rappresentate come donne lavoratrici, infermiere, mogli e madri, sono state viste spesso solamente dall’esterno. Alla ricerca della soggettività femminile nel dramma della guerra mondiale del 1914, Käthe Schmidt risulta l’artista tedesca che più di ogni altra ha documentato, sperimentandole sulla propria pelle, le atrocità di quella guerra e la disumanità di ogni guerra.
Käthe nasce nel 1867 a Königsberg, Prussia orientale (ora Kaliningrad, Russia), quinta di otto figli, da una famiglia della borghesia progressista. Fin dalla sua adolescenza si dedica agli studi artistici e a quattordici anni già pratica l’acquaforte. Aderendo agli ideali socialisti tramite il fratello, comincia a descrivere nelle prime opere le difficili condizioni di vita di operai, marinai e contadini. A Berlino frequenta una scuola d’arte aperta alle ragazze, dove si interessa più al disegno che alla pittura. Nel 1891 sposa Karl Kollowitz, medico socialista, da cui avrà due figli, Hans nel 1892 e Peter nel 1896.
L’arte grafica diviene il suo mezzo espressivo preferito, e le tematiche sociali l’argomento con il quale documentare ingiustizie ed emarginazione. Per questo non ha vita facile ed è considerata una sovversiva. A Parigi conosce Rodin e impara a scolpire; nel 1907 vince un premio artistico che le garantisce la permanenza a Firenze per un anno. Nel 1919 entra all’Accademia delle Arti di Prussia, prima donna a far parte di questa istituzione, e riceve il titolo di Professore. Più tardi, nel 1928 otterrà la direzione della specializzazione in grafica. All’inizio sostiene la guerra, che considera un mezzo necessario per raggiungere un bene comune, e si impegna nella Commissione ausiliaria delle donne: «Non posso stare senza far niente, mentre i giovani vanno a morire», scrive nel suo diario il 6 agosto 1914, riconoscendo la dedizione dei giovani alla patria e la forza e il coraggio delle mamme che alla guerra sacrificano il loro bene più prezioso. Il suo secondo figlio Peter parte volontario per il fronte a diciotto anni, in aperto contrasto con i genitori, soprattutto col padre. Pochi mesi dopo la sua partenza muore in guerra e per Käthe comincia un periodo di profonda depressione e inattività. Rivede allora la sua posizione nei riguardi della guerra, dove riconosce ora solo «follia omicida», distruzione e disumanizzazione.
La guerra finita, vinta o persa, si rivela comunque una catastrofe per tutti, combattenti e non. Vittime non ne sono stati soltanto i giovani mandati al fronte, ma anche quanti la guerra ha reso orfani, vedove, affamati e senza lavoro. Solo nel 1920 Käthe trova la forza di riaccostarsi all’arte e di esprimere tutta la sofferenza sua e di quanti, donne, bambini, sopravvissuti, ne sopportano le conseguenze.
«Io devo esprimere il dolore degli uomini, un dolore che non ha mai fine e che ora è enorme. Questo è il mio compito, anche se non è facile assolverlo. Queste incisioni devono girare in tutto il mondo e devono dire in maniera concisa a tutti gli uomini: Così è stato – questo abbiamo noi tutti sofferto in questi anni indicibilmente dolorosi».
A sette anni di distanza dalla morte di Peter, nel 1921-22, esegue un ciclo di sette xilografie, La guerra, pubblicate l’anno dopo. Ora lei sente non solo il dolore suo, ma quello di tutte le mamme che hanno perso i loro figli.
Si tratta di stampe da legno inciso, una tecnica espressiva essenziale, che più dell’acquaforte lascia un segno sintetico, duro, drammatico, e riesce a rendere il dolore nel contrasto del vuoto e del pieno, del bianco e del nero.
Il sacrificio (immagine sottostante, a sinistra) mostra una madre, a seno scoperto, che offre il proprio figlio, tendendolo in alto. I volontari (a destra) rappresenta la generazione di chi si è votato alla guerra e alla morte; Peter è al centro, preso dalla morte che sta a sinistra.
I genitori sono un blocco di dolore, lei piegata e sorretta da lui che si nasconde il viso con una mano.
Vedova 1 e Vedova 2 raffigurano entrambe giovani donne, una incinta con il viso reclinato e le braccia incrociate sul ventre a difendere il nascituro, l’altra distesa sulla nuda terra mentre stringe sul petto il figlioletto; dalla sua lunga e spoglia veste spuntano solo un volto scavato col capo dolorosamente reclinato indietro e i piedi ossuti.
Madri (immagine sottostante, a sinistra), rappresenta un gruppo di donne, chiuse a cerchio, decise a proteggere i loro figli; spaurite, si stringono una all’altra, formando una fortezza, un nero ammasso sferzato da colpi di luce bianca, e ai lati due giovani donne gravide, una delle quali – quella a sinistra – compie un gesto di allontanamento. I figli sono una ricchezza da proteggere e aiutare, l’unica speranza del futuro, ma nello stesso tempo è una ricchezza precaria e fragile, bisognosa di protezione.
Nella settima xilografia, Il popolo (a destra), ancora madri, sole, disperate e rassegnate, assieme ai loro figli. Emergono dal nero, il colore del dolore, che invade tutto il campo, solo volti scheletrici e mani ossute.
E ancora il manifesto litografico I sopravvissuti (immagine sottostante, a sinistra), del 1922, dove una madre, dalle orbite incavate e nere, è circondata a sinistra da anziani, a destra da mutilati e in basso da bambini che cerca di proteggere. Ancora la figura femminile è protagonista nel ciclo della guerra.
Nel 1924 il manifesto Mai più guerra! (a destra) è una protesta contro il militarismo, resa dal giuramento di un giovane con un braccio alzato e una mano sul cuore.
Il gruppo scultoreo I genitori addolorati, iniziato nel 1919 e terminato nel 1932, posto nel cimitero di Roggevelde (Belgio) e successivamente spostato nel cimitero di guerra tedesco di Vladslo, consiste in due enormi statue di granito, rappresentanti un padre e una madre chiusi nella loro disperazione.
Ciò che accomuna tutti questi lavori è la volontà di rappresentare il dolore patito, ma anche quella di condividerlo, nella speranza che possa trasformarsi in un’aspirazione alla pace che renda possibile un mondo migliore. Ma così non sarà. Nel 1939, la Germania è nuovamente in guerra, Käthe è vecchia e stanca, ma ancora lavora. Nel 1942 ancora un’altra litografia, ultima sua opera a stampa, ha per titolo una frase di Goethe che per lunghi anni si è portata dentro, Non macinate le sementi: rappresenta una madre, probabilmente un’operaia, viste le sue possenti braccia, che, con uno sguardo deciso e un’aria di sfida, tiene al riparo i tre figlioletti, appunto le sementi. I “semi” di casa Kollwitz (il figlio e il nipote omonimo che morirà nel secondo conflitto), furono invece macinati in battaglia. Ancora una volta Käthe insiste sulle mani, mani che abbracciano, mani che offrono, tolgono, talvolta cercano di trattenere, spesso invano.
Appena dopo la nomina di Hitler a cancelliere del Reich, Käthe è costretta a lasciare l’Accademia delle Arti di Prussia e a subire le prime persecuzioni, anche se non era né ebrea, né esponente dell’arte cosiddetta “degenerata”. Viene lasciata lavorare purché le sue opere non siano esposte. Sarà esclusa allora da tutte le manifestazioni culturali e i suoi lavori rimossi dalle gallerie. Rimane a Berlino fino al 1943, quando la popolazione fugge per via dei bombardamenti. Ripara nei pressi di Dresda, dove muore due settimane prima della resa tedesca, il 22 aprile del 1945.
Kollwitz fa parte del movimento artistico denominato Secessione di Berlino, un movimento espressionista che rappresentò la realtà tragica dell’Europa attraverso segni incisivi e violenti, e nello stesso tempo sintetici, su tele animate da una forza centrifuga esplosiva, rinunciando a ogni forma di eleganza e chiarezza.
Le sono stati dedicati due musei – a Colonia nel 1985 (in alto a sinistra) e a Berlino l’anno successivo (a destra) – e il suo volto compare su un francobollo nel 1991, nella serie Donne della storia tedesca.
Articolo di Livia Capasso
Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.