Per un nuovo calendario civile. 22 dicembre 1947. L’approvazione della Costituzione (parte prima)

Se potessi proporre alla classe politica le date delle festività civili accanto alle numerose festività religiose del mese di dicembre, non avrei dubbio alcuno: il 22 dicembre, in cui si ricorda l’approvazione della nostra Costituzione, il 27 dicembre, in cui ci fu la sua promulgazione, e un giorno di gennaio: il primo, in cui la Costituzione entra in vigore. Sono poche, infatti, le festività nazionali dell’Italia democratica, laica e repubblicana: il 25 aprile, che ricorda la liberazione dal nazifascismo, il primo maggio, Festa del lavoro, e il 2 giugno, Festa della Repubblica e dell’elezione dell’Assemblea Costituente. Anche attraverso le ricorrenze civili si costruisce il senso di appartenenza alla comunità e allo Stato, tanto caro ai regimi totalitari di destra e di sinistra, e così poco coltivato nelle democrazie. Non si insegna la democrazia, non esiste una pedagogia della democrazia. Quella che Winston Churchill definì “il peggiore dei governi possibili, ad eccezione di tutti gli altri”, oggi fortemente in crisi, ha bisogno di cura e sostegno, che non si possono dare per scontati, come più volte ci ha ricordato Zagrebelsky nei suoi libri.
Per una volta, però, voglio immaginare di trovarmi in un’Italia diversa da quella in cui vivo, un’Italia in cui si decida di festeggiare qualche ricorrenza religiosa in meno e si stili un calendario laico che ricordi tre date importanti per la storia della nostra Bibbia civile (Ciampi).
La Costituzione della Repubblica italiana, più citata che effettivamente conosciuta e purtroppo poco insegnata nelle scuole della Repubblica, merita davvero molta più attenzione di quanta gliene sia stata mai riservata. Fu scritta in poco meno di due anni, in una prosa semplice e chiara. Nell’epoca delle ideologie contrapposte, persone appartenenti a schieramenti che si erano fieramente combattuti senza esclusione di colpi e che avevano visioni del mondo completamente diverse, concordarono su un testo comune da consegnare alle generazioni future. Fu un compromesso, non nell’accezione deteriore in cui siamo abituati ad interpretare questa parola, ma un cum-promittere, un promettere e un impegnarsi insieme a consegnare alle generazioni future una società diversa da quella precedente, facendo in modo che non potessero più ripetersi gli errori del passato. Compromesso quindi come capacità di comprendere le ragioni degli altri per raggiungere un obiettivo comune, che modifica in meglio una data situazione.
In questo articolo mi soffermerò solo sui principi fondamentali; nelle altre due ricorrenze del nuovo Calendario civile mi occuperò di altri aspetti e parti della Carta di identità del popolo italiano.
Il 2 giugno 1946 il popolo italiano, costituito, per la prima volta in elezioni politiche, anche dalle donne, scelse la Repubblica al posto della Monarchia ed elesse i suoi e le sue rappresentanti all’Assemblea Costituente. Al popolo, alle cittadine elettrici e ai cittadini elettori dello Stato, dobbiamo la Repubblica e la Costituente. Non dimentichiamocelo, in questa fase storica in cui la parola popolo sembra prerogativa delle sole forze sovraniste, snobbata dalle élite dei  salotti e dei talk show, sempre meno votate dai ceti che dovrebbero rappresentare. Popolo rimane una bellissima parola: l’insieme dei cittadini e delle cittadine di una comunità, la civitas.
In Assemblea Costituente erano presenti tre generazioni: i veterani, tra cui Einaudi, Croce, Orlando, Nitti, Sforza, gli antifascisti, che avevano pagato la loro scelta a volte con il carcere e l’esilio, come Pertini, Togliatti, Nenni, Di Vittorio, Dossetti e i giovani e le giovani Costituenti, come Moro, Iotti, Mattei ed altre, purtroppo solo 21 donne.
Il partito che aveva ottenuto il maggior numero di voti era la Democrazia cristiana, seguivano il Partito socialista e il Partito comunista e molte formazioni che si ispiravano, pur con alcune differenze tra loro, all’ideologia liberale prefascista. Tra i tanti partiti interessanti spiccavano, da un lato, il Partito d’azione, che tra le sue fila vantava personaggi illustri come Enrico Calamandrei e Ferruccio Parri, e il Partito dell’Uomo Qualunque.
L’Assemblea Costituente si insediò il 25 giugno del 1946, provvisoriamente presieduta da Vittorio Emanuele Orlando, rappresentante del pensiero liberale prefascista. Fu poi eletto Presidente  Giuseppe Saragat, del Psiup, che si dimise dopo la scissione e la nascita del Partito Socialdemocratico. Lo sostituì il comunista Umberto Terracini.
Una Commissione di 75, suddivisa in tre Sottocommissioni, fu incaricata di stilare il Progetto di Costituzione che sarebbe stato discusso in Assemblea dal marzo del 1947 a partire da un testo preparato da un apposito Comitato di redazione, il Comitato dei Diciotto. Il dibattito in Assemblea Costituente si concluse solo nel dicembre del 1947, mentre, fuori dall’aula parlamentare, il clima politico nel Paese era profondamente cambiato. Non più Gabinetti di cui facevano parte i partiti del Cln sotto la guida di De Gasperi ma, dal maggio 1947, l’allontanamento delle sinistre dal Governo, in seguito al mutamento degli equilibri internazionali. Quello che colpisce di più è vedere quanto il clima politico acceso e l’inizio di una feroce campagna elettorale nel Paese non ebbero alcuna conseguenza sul testo costituzionale: l’approvazione avvenne quasi all’unanimità, con il 90 per cento dei voti favorevoli ( 62 voti contrari su 515 votanti). Un risultato sorprendente, che dimostra quanto i/le Costituenti vollero tenere separata dalle vicende  politiche contingenti una Carta che avrebbe dovuto valere per tutte e tutti i cittadini del futuro.
Ma che cosa andarono a votare quel 22 dicembre del  1947 i nostri e le nostre rappresentanti?
In primo luogo il sogno di chi si era opposto alla dittatura e aveva creduto nella democrazia. Calamandrei, avvocato, giurista, laico, che si definiva “un ingenuo in un Paese di furbi”, ebbe a dire, il 4 marzo 1947, in un discorso memorabile alla Costituente: «Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigioni, l’esilio e la morte. Da questa Costituzione è nata davvero una nuova storia (I posteri) immagineranno che seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri, di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria Enriques e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità».
Quello che si votò fu un progetto di società nuova, punto di incontro tra culture e tradizioni diverse.
Sempre Calamandrei in quel discorso disse che «il progetto di Costituzione non era l’epilogo di una Rivoluzione già fatta, ma il preludio, l’introduzione, l’annuncio, di una Rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da fare». Una Rivoluzione per l’Italia, ma attraverso le leggi, una rivoluzione della mitezza. E Moro ribadì questo concetto quando affermò che «scrivere una Costituzione significava cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, esprimere una forma di convivenza, fissare i principi orientatori della futura attività dello Stato». Ma la definizione più convincente dello spirito della Costituente, a parere di chi scrive, fu quella espressa da Dossetti, cristiano sociale dalle idee veramente rivoluzionarie, che poi si fece monaco ma che nel 1994 avrebbe sentito  la necessità di impegnarsi nuovamente creando i Comitati per la difesa della Costituzione, in una delle più grigie stagioni del nostro Paese.
Proprio all’Abbazia di Monteveglio, nel 1994 Dossetti si sarebbe chiesto: «Donde è nata la Costituzione? Qual è la sua radice profonda? Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato da risentimenti faziosi del passato. Altri che essa nasca da un’ideologia antifascista coltivata da certe minoranze.
In realtà la Costituzione è nata da un grande fatto globale, cioè dai sei anni della Seconda guerra mondiale. Anche il più ideologizzato dei Costituenti non poteva dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le Nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra.
Perciò la Costituzione più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del post-fascismo, più che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo trans-temporale».
Nel 1994 c’era stato uno degli attacchi più forti alla Carta fondamentale della Repubblica italiana, sferrato dall’ideologo della Lega Nord, Gianfranco Miglio. «La Costituzione è come le belle donne, la sottoporremo alle nostre voglie», andava dicendo in giro per l’Italia per conferenze e tavole rotonde, rivelando un maschilismo di fondo ed una considerazione della donna che ci fanno provare grande pena per la sua consorte.
Proprio dall’interpretazione di Dossetti dobbiamo partire per capire in quale stato di grazia si trovarono i Padri e le Madri Costituenti. Persone che si erano combattute e che appartenevano a ideologie che sembravano inconciliabili, dopo il bagno di sangue della guerra, che aveva fatto 55 milioni di morti, 6 milioni di ebrei sterminati nei lager, migliaia di perseguitati per motivi religiosi, etnici e politici, intere città rase al suolo come Coventry e Dresda, rappresaglie e stragi di innocenti e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, proprio quelle persone cercarono più quello che le univa di quello che le divideva, con la consapevolezza che stavano per scrivere una delle più importanti pagine della nostra storia. Succede così anche nella nostra vita quotidiana: se qualcuno a cui teniamo ci ferisce, ci allontaniamo e interrompiamo ogni rapporto con lui/lei, pensando che le differenze siano troppo forti, ma se poi ci succede qualcosa di molto grave, come un lutto familiare, un incidente, una malattia, o se questo capita all’altra persona, ecco che tutto si relativizza e le ragioni delle nostre incomprensioni svaniscono. Riprendiamo a parlarci e a costruire relazioni feconde.
Questi uomini e queste donne stilarono un testo che, nei Principi fondamentali e nella parte relativa ai diritti e doveri dei cittadini, era un disegno bellissimo che prefigurava una comunità fondata sulla dignità di ogni essere umano, sul riconoscimento dei diritti umani a tutti e tutte, per il solo fatto di essere nate, sul valore della persona, contrapposto alla subordinazione della stessa allo Stato di matrice fascista, sulle comunità intermedie, sull’uguaglianza non solo formale, in primis tra uomini e donne, ma sostanziale, chiave di volta della trasformazione della società fondata sulle pari opportunità e sulla mobilità sociale, sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, la giusta retribuzione, il diritto alle ferie e il diritto di sciopero, sui diritti sociali, come l’istruzione, la sanità, la previdenza e l’assistenza, sulle libertà di riunione e associazione, represse dallo Stato fascista, sulla libertà di religione, ma anche sulla libertà di iniziativa economica privata, vincolata indissolubilmente al rispetto della dignità, della libertà e della sicurezza della persona.
I princìpi fondamentali con cui si apre la Costituzione sono i pilastri della nostra convivenza. Sono talmente importanti che non possono essere cambiati neppure con una legge di revisione costituzionale, se non in senso ampliativo. A settant’anni dalla loro approvazione, sono ancora quasi tutti attuali, anche se potrebbero aggiungersene altri, significativamente quelli che dovrebbero prevedere i diritti delle generazioni future e lo sviluppo sostenibile. Ricordiamoli brevemente: il principio democratico, che dovrà informare anche l’azione dei partiti politici, cerniera tra società civile ed organi costituzionali, la Repubblica fondata sul lavoro, che finalmente inserisce questo valore all’interno di una Costituzione (La Pira), il diritto – dovere al lavoro, l’unità e indissolubilità della nazione accompagnata, però, per impedire il risorgere del nazionalismo che tanto male aveva fatto all’Europa, dall’autonomia regionale e dal decentramento amministrativo, la tutela delle minoranze linguistiche, considerate un valore in contrapposizione all’omologazione e all’italianizzazione forzata voluta dal fascismo, il rapporti tra lo Stato e le Chiese, la felice e pionieristica intuizione della tutela del paesaggio, che tanto avrebbe potuto fare contro il consumo di suolo degli anni futuri, i diritti dello straniero, il ripudio della guerra e il principio internazionalista, nella consapevolezza che l’Italia può essere operatrice di pace e che per realizzare la pace ha bisogno della collaborazione degli altri Stati. I rapporti Stato e Chiesa cattolica e la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi nell’articolo 7  sono il frutto del pragmatismo di alcune forze politiche in Costituente, in particolare del Partito comunista di Togliatti, e sono forse la parte più discutibile, anche se inevitabile, della Legge fondamentale dello Stato.
L’attuazione della Costituzione spetta alle istituzioni della Repubblica e al legislatore e significa innanzitutto la realizzazione dei principi e dei diritti fondamentali, sottratti al gioco delle mutevoli maggioranze parlamentari e impossibili da cancellare e depotenziare. «Questi principi continuano a dettare le condizioni della nostra convivenza nella misura in cui vengono interpellati, interpretati e applicati dagli esponenti delle istituzioni e dai cittadini tutti» (Costa e Salvati).
Ma è il combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione a farci capire quale grande eredità ci abbiano lasciato i nostri e le nostre Costituenti. La Repubblica riconosce, cioè non ha bisogno di affermarli, perché li trova già, i diritti inviolabili della persona e li tutela anche nelle formazioni sociali: la famiglia, la scuola, le associazioni, gli ospedali, le carceri, i centri di accoglienza, le comunità. I diritti umani saranno la premessa di una Rivoluzione mite. Tutti i diritti umani per tutti, in ogni luogo. Un progetto ambizioso, quasi un sogno. Una garanzia nei confronti dello strapotere dello Stato, espressa dalla parola inviolabilità. Affinché questo progetto non resti un’utopia, però, viene in soccorso la seconda parte dell’articolo 2 e ci offre la chiave per realizzarlo: l’impegno e la responsabilità di ciascuno e ciascuna di noi, nel luogo e nella formazione sociale in cui si trova, ad agire per metterlo in atto, attraverso i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo è il messaggio: se vogliamo che questo progetto si realizzi, dobbiamo cominciare da noi. Dobbiamo essere gli attivisti e le attiviste della Costituzione.
La solidarietà non è, nella visione dei nostri e delle nostre Costituenti, una opzione ma una necessità, che contribuisce a realizzare la forma politica democratica. La Repubblica non solo riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona, ma promuove e coltiva la cultura e la pratica della solidarietà. Senza la Repubblica dei doveri vien meno anche la Repubblica dei diritti inviolabili. (Fioravanti)
Con l’articolo 3 si compie la rivoluzione attraverso le leggi: è la dignità, parola bellissima che ricorre in altri articoli della Costituzione, che accomuna tutte le persone nella società, considerate uguali davanti alla legge. Corollario di ciò sarà l’eliminazione di tutti i titoli nobiliari in una Disposizione transitoria e finale. La prima differenza da eliminare sarà quella tra uomini e donne, perché è stata la prima a manifestarsi nella storia e dura ancora e saranno le nostre Costituenti a richiederlo, ma non ci dovranno essere discriminazioni nemmeno per ragioni di lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, razza. Questa parola oggi ci disturba, ma fu indispensabile inserirla in Costituzione come monito dopo la persecuzione e il genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Anche in questo articolo, se ci fossimo limitati a dire che eravamo tutti uguali, avremmo fatto una bella dichiarazione di principio. Ma al primo comma, che afferma l’uguaglianza formale, già riconosciuta da tutte le Costituzioni liberali, i e le Costituenti hanno avuto cura di aggiungere l’uguaglianza sostanziale, lo strumento per realizzare quella mobilità sociale che avrebbe caratterizzato una vera trasformazione della società. «È compito della Repubblica, rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Per sviluppare pienamente la nostra personalità abbiamo bisogno di accedere allo studio, alla salute, al lavoro in condizioni di parità effettiva ed è compito della Repubblica eliminare ogni ostacolo sul nostro cammino. Solo così potremo sviluppare tutte le nostre potenzialità e dare il nostro contributo all’organizzazione della vita pubblica, nelle nostre scuole, nelle nostre città, nella nostra nazione, nei luoghi di lavoro, con quella libertà che è la premessa della partecipazione.
Le Assemblee Costituenti sono quasi sempre momenti magici, irripetibili. Le persone che contribuiscono a scriverle vogliono liberarsi di un passato doloroso e triste e costruire società accoglienti, inclusive, in cui le generazioni che verranno possano avere uguali opportunità e anche essere felici. In fondo che cos’è la felicità se non il pieno sviluppo della persona umana di cui parla l’articolo 3? (Bettinelli)
Il 22 dicembre 1947, con un linguaggio chiaro e senza fronzoli, l’Assemblea Costituente indicò la via verso una società inclusiva e giusta, ispirata al pluralismo, con uno spirito cosmopolita. La strada era tracciata. Adesso toccava alle leggi e alla politica fare il resto
(continua).

 

Articolo di Sara Marsico

Sara Marsico.400x400.jpgAbilitata all’esercizio della professione forense dal 1990, è docente di discipline giuridiche ed economiche. Si è perfezionata per l’insegnamento delle relazioni e del diritto internazionale in modalità CLILÈ stata Presidente del Comitato Pertini per la difesa della Costituzione e dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano. I suoi interessi sono la Costituzione , la storia delle mafie, il linguaggio sessuato, i diritti delle donneÈ appassionata di corsa e montagna. 

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