«La donna, per vieto costume esclusa dai consigli delle nazioni, ha sempre subito la legge senza concorrere a farla, ha sempre con la sua proprietà e col suo lavoro contribuito al pubblico bisogno, e sempre senza compenso. Per lei le imposte, ma non per lei l’istruzione; per lei i sacrifici, ma non per lei gli onori; per lei la concorrenza alle spesa della famiglia, ma non per lei neppure il possesso di se medesima; per lei la capacità che la fa punire, ma non per lei la capacità che la fa indipendente; forte abbastanza per essere oppressa sotto un cumulo di penosi doveri, abbastanza debole per non poter reggersi da se stessa». Anna Maria Mozzoni, autrice del volume La donna e i suoi rapporti sociali, dato alle stampe nel 1864, è la prima intellettuale italiana a rivendicare con tenacia, per tutta la vita, il diritto di voto per le donne: è l’inizio di un lungo percorso che prende il via l’anno stesso della costituzione del Regno d’Italia, il 1861 – quando un gruppo di donne lombarde, che si definiscono significativamente «cittadine italiane», presenta una prima petizione per il voto alla Camera dei deputati – e che si conclude il 1° febbraio 1945, con il decreto legislativo luogotenenziale (ovvero a firma del Luogotenente del Regno, Umberto II di Savoia) n. 23 – Estensione alle donne del diritto di voto – emanato dal secondo governo Bonomi.
Un lungo percorso, segnato da elementi contraddittori, aperture e arretramenti – ricostruito con acume e rigore da Anna Rossi-Doria nel suo saggio Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, edito nel 1996 -, che a più riprese ho affrontato e ripreso nella mia vita di insegnante a giovani donne, affiancando l’amica e compagna di avventure didattiche Danila Baldo.
Impossibile dimenticare il progetto di legge mai posto in votazione, presentato nel 1867 da Salvatore Morelli (unico uomo in questa prima parte del dibattito): Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna accordando alle donne i diritti civili e politici, ripresentato dieci anni più tardi, in quello stesso 1877 in cui Anna Maria Mozzoni tiene la conferenza Del voto alle donne e una nuova petizione è presentata in Parlamento. Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento, i governi Depretis, Crispi, Giolitti rifiutano di prendere in seria considerazione il tema, per ragioni di ‘opportunità’. Si è costituito, intanto, il Comitato nazionale pro suffragio femminile, che nel 1906 presenta al Parlamento una nuova petizione per il voto amministrativo e politico, redatta ancora una volta da Anna Maria Mozzoni e sostenuta, tra le altre, da Maria Montessori; e nel 1910 Anna Kuliscioff, in tre contributi apparsi sulla rivista “Critica sociale”, stigmatizza con durezza l’indifferenza dimostrata in materia dal Partito socialista italiano.
Nel 1919 pare proprio che le donne ce l’abbiano fatta: la Grande Guerra si è appena conclusa, gli uomini maggiori di ventun anni hanno ottenuto il suffragio universale, senza condizioni (nel dicembre 1918), e le donne italiane hanno dato un contributo fondamentale alla nazione sostituendo nelle fabbriche i soldati al fronte: è dunque votata a grande maggioranza la proposta di legge Martini-Gasparotto, che tuttavia non è convertita a causa della fine anticipata della legislatura. Le complesse vicende politiche dei primi anni Venti, le sopraffazioni delle squadre fasciste nei confronti di socialisti e popolari, infine la marcia su Roma e l’ascesa al potere di Benito Mussolini segnano una quasi inevitabile battuta di arresto. E dire che Mussolini sansepolcrista (che personalmente ho qualche difficoltà a definire ‘rivoluzionario’), nel 1919 aveva inserito il voto alle donne nei punti programmatici del Movimento dei Fasci italiani di combattimento, promettendo poi teatralmente la concessione del voto, una volta divenuto capo del governo, in occasione del congresso dell’Alleanza internazionale pro suffragio tenuto a Roma nel maggio 1923. Dopo le elezioni del 6 aprile 1924, contrassegnate dalle intimidazioni e dalle violenze denunciate da Giacomo Matteotti, nessuno in Italia, né uomo né donna, potrà più votare in libere elezioni per oltre vent’anni, ovvero fino al 1946, quando in primavera (e successivamente in autunno), in diverse tornate, si vota per le elezioni amministrative comunali, e soprattutto quando, il 2 giugno, si vota per il referendum istituzionale e per le elezioni politiche.
Fondamentale per l’acquisizione del diritto di voto è il ruolo svolto nella Resistenza e nella guerra di Liberazione dalle donne che, per la prima volta, in una contingenza storica eccezionale, imbracciano le armi, occupando «posti di direzione e di massima responsabilità» al fianco degli uomini: «Quando vediamo compagne che non temono di condividere i rischi dei Combattenti della libertà, quando sappiamo di detenute che nelle prigioni nemiche sopportano ogni tortura senza lasciarsi strappare una sola parola che possa nuocere al movimento insurrezionale, ci convinciamo della necessità di una immissione della donna nella vita sociale», si legge nell’appassionato articolo Il voto alle donne, stampato sul numero del maggio 1944 (in piena guerra partigiana) di “Noi Donne”, organo dei gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà. Il contributo decisivo nella direzione del voto alle donne (non manca chi ancora paventa la «pretesa immaturità politica femminile») è dato dai due partiti di massa presenti nel governo Bonomi, il Partito comunista e la Democrazia cristiana, con i dirigenti Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, che sul tema assumono una posizione netta già dall’estate 1944: le donne hanno conquistato il diritto al voto sul campo (il valore della resistenza non violenta, che vede per protagoniste molte donne, è riconosciuto soltanto in anni recenti): dunque il diritto a partecipare alla vita politica, a prendere parte attiva «non è un regalo», scrive “L’Unità” in un editoriale del 27 dicembre 1944 (il 24 e lo stesso 27 dicembre il governo Bonomi già si è pronunciato a favore dell’estensione).
‘Estensione’ del diritto di voto, che tuttavia non significa diritto all’eleggibilità, sancito soltanto il 10 marzo 1946 (lo stesso giorno in cui si tiene la prima tornata delle elezioni amministrative) dal decreto legislativo luogotenenziale n. 74: «Sono eleggibili alla Assemblea costituente i cittadini e le cittadine italiane che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il 25° anno di età». E infatti nella Costituente saranno elette 21 donne, su un totale di 556 deputati.

La conquista del voto alle donne è accolta sostanzialmente in silenzio, con diffidente paternalismo che deriva «dall’arretratezza e dalla vanità degli uomini» (e a dirlo è un uomo, Umberto Calosso, pure eletto alla Costituente). Ottenuto il voto, il percorso per la conquista dei diritti civili sarà ancora lungo, lunghissimo. «Nel momento in cui arriva il voto – scrive Anna Rossi-Doria – l’idea della donna come cittadina è invece debolissima. Lina Merlin, per esempio, ricorda che quando propose alla Costituente l’emendamento al testo dell’art. 3 della Costituzione con l’aggiunta delle parole “di sesso”, alcuni colleghi osservarono “che con le parole ‘tutti i cittadini’ si indicavano uomini e donne, il mio emendamento era dunque superfluo”, e lei replicò: “Cittadino è considerato solo l’uomo con i calzoni, e non le donne, anche se oggi la moda consente loro di portare i calzoni”».
In copertina: Rita Montagnana, una delle ventuno donne elette nell’Assemblea costituente, vota per le elezioni comunali a Roma il 10 marzo 1946.
Articolo di Laura Coci
Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.