«Sembrerà banale, ma quello che mi colpisce di più di Ada Negri è che era lodigiana come me e i suoi posti sono anche i miei, la sento vicina», queste sono state le parole di un mio studente dopo aver fatto alcune lezioni su quella che fu la più grande poeta lodigiana, forse una delle scrittrici più importanti del Novecento, che Lodi, la sua città natale, si appresta a celebrare dato che quest’anno ricorrono i 150 anni dalla sua nascita avvenuta il 3 febbraio 1870.

«Io non ho nome» così esordisce in una delle prime poesie inserite nella raccolta d’esordio, Fatalità, del 1892, perché essere figlia di quella che lei stessa definisce come «plebe triste e dannata» significava essere privi di identità, di diritti, essere invisibili. La famiglia di Ada Negri faceva proprio parte di essa: il padre Giuseppe era vetturino a Milano e lei avrebbe dovuto nascere nel capoluogo lombardo, ma la madre, Vittoria Cornalba, decise di tornare a Lodi, la sua città, per partorire nelle misere stanze della portineria del palazzo del conte Barni, dove la nonna della poeta era portinaia. La neonata rimase orfana di padre molto presto, aveva poco più di un anno, e Vittoria Cornalba fu costretta ad affidare il suo primo figlio, Annibale, ad un parente perché impossibilitata a mantenere entrambi. I rapporti fra Ada e suo fratello furono sempre piuttosto freddi e distaccati tanto da indurla a definirlo come «l’altro figlio di mia madre».
L’infanzia e l’adolescenza di Ada Negri furono lodigiane come i suoi luoghi del cuore, quelli che le rimasero impressi nella memoria e che ritornano spesso nella sua poesia. La portineria di Palazzo Barni e l’annesso giardino ricco di fiori e profumi accompagnarono la piccola Dinin, come veniva soprannominata, verso una sempre maggiore consapevolezza di «quell’indomita fiamma» che bruciava dentro di lei e che l’avrebbe resa una donna appassionata e impegnata nella denuncia dell’ingiustizia sociale, subita dalle classi subalterne, di cui anche la madre era vittima. Vittoria Cornalba, infatti, per mantenere sé stessa e la figlia fu costretta a lavorare come operaia presso una delle più importanti realtà produttive locali: «Nel lanificio dove aspro clamore / Cupamente la vôlta ampia percote, / E fra stridenti rôte / Di mille donne sfruttasi il vigore», come recita la poesia Madre Operaia.

La storia di Ada è una storia di donne: innanzitutto quella della nonna Peppina, portinaia nella vecchiaia, ma in gioventù cameriera personale della moglie del conte Barni, che era stata una famosa cantante lirica; l’anziana donna, dimessa e rassegnata alla sua condizione, era solita dire alla nipote «quell che Dio voeur». Poi c’era la madre per la quale Ada provava un affetto profondo e sincero, una donna mite e sorridente che non si lamentava mai nonostante le tredici ore di lavoro, fu per la figlia un grande conforto averla accanto tanto da rimpiangerne la voce nei momenti di lontananza come scrive nell’intensa Nenia Materna oppure cercarne in sogno i lineamenti del volto pallido per la vecchiaia e sbiadito per la lontananza come in A mia madre lontana. Questo affresco femminile dei primi anni di vita di Dinin è contenuto in una delle sue prime prose, Stella Mattutina, pubblicato nel 1921 e che riscosse notevole successo. La «casta sobrietà» delle due donne è sinonimo di leggerezza e rassegnazione, atteggiamento che non appartiene ad Ada perché in lei vi è una passione, una forza che la spinge a sentire più degli altri e a provare un misto di rabbia e di vergogna nei confronti della sua condizione di subalternità che si manifesta soprattutto in un gesto che quotidianamente è costretta a compiere: aprire il cancello del palazzo, al posto della nonna ormai claudicante, e fare la riverenza alla carrozza del padrone o dei suoi ospiti. Un po’ di conforto lo trovò nella lettura a cui si appassionò sempre grazie alla madre che di sera, per divertire la nonna, leggeva i romanzi d’appendice, ben presto però la fanciulla non si accontentò e passò ai grandi scrittori contemporanei come Alexandre Dumas, per poi dedicarsi a letture più impegnate come i romanzi di Emile Zola. Il conforto datole dai libri rappresentò una costante della vita della poeta che dimostrò di essere sempre un’avida lettrice cosmopolita amando molto anche la poesia d’Oltreoceano e il suo massimo rappresentante dell’epoca Walt Whitman.
Terminate le scuole elementari, la sua acuta e sensibile intelligenza le consentì di proseguire gli studi presso la Scuola Normale Femminile di Lodi dove ebbe come “maestro” il professor Paolo Tedeschi, un docente triestino emigrato in Lombardia per odio nei confronti dell’Austria e per il suo profondo desiderio di libertà. Grazie al suo insegnamento fervido e appassionato e alla voce ricca di tonalità e vibrazioni nascoste e profonde, la giovane Ada imparò ad amare la poesia al punto da rimanerne intensamente coinvolta e tra i ricordi della scrittrice c’è anche una frase pronunciata dal suo professore che preannunciava il suo ineluttabile destino: «Come sei pallida…, – le disse infatti alla fine di una lezione sulla Commedia dantesca, – Ti fa così male la poesia?…Se ti fa così male vuol dire che l’ami troppo. C’è tanta inquietudine anche ne’ tuoi componimenti…Soffrirai, soffrirai, bambina mia».

Conseguita la patente per l’insegnamento, Ada Negri cominciò la sua carriera prima presso il Collegio femminile di Codogno e poi presso la scuola elementare di Motta Visconti. Lasciò a Lodi quella sé stessa bambina e fanciulla e i luoghi che tanto amava: la Chiesa del Carmine dove si recava con la madre per la celebrazione della Messa e dove usciva inebriata dal suono dell’organo e dall’atmosfera soffusa per le luci delle candele; i bastioni, oggi Giardini Barbarossa, dove madre e figlia mangiavano in estate l’anguria; e ancora la tanto amata Piazza San Francesco, che ispirò la lirica Piazza San Francesco in Lodi, del 1904, in cui la poeta parla di quello che considera come «il mio San Francesco», un tempio di preghiera che ospitava «la mia Madonna» definita come «bianca imperatrice al divin Figlio serva» e nel quale, nel 1976, è stata traslata la salma della scrittrice, in un primo momento sepolta presso il Famedio del Cimitero Monumentale di Milano.


Anche il lungo Adda era un luogo frequentato e amato da Ada che scrisse di quel Ponte (Ponte di Lodi, 1914) maestoso in mezzo al fiume su cui lei, «scarna adolescente, livida di superbia, impaziente di vivere», passeggiava per «mirar nuvole d’argento specchiate in acqua, e d’esse saziarmi».
Gli anni trascorsi a Motta Visconti furono quelli in cui Ada Negri si sentì forse più serena e appagata; furono quelli in cui si dedicò all’insegnamento, ma si avvicinò anche alla poesia pubblicando i suoi primi componimenti su vari giornali e periodici, facendoli poi confluire nella raccolta d’esordio, Fatalità, pubblicata da Treves nel 1892 e accolta favorevolmente dalla critica e, in particolare, da Giosuè Carducci. È una voce audace, aggressiva, spregiudicata quella che emerge da questa prima raccolta in cui non manca la denuncia sociale per le condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne tanto che ciò le valse il titolo di “vergine rossa”, ma è presente anche un’attenta ed approfondita indagine di sé e della propria non comune sensibilità, fardello doloroso e segno ineluttabile di un destino che la condusse verso la poesia intesa come arte capace di scavare nel profondo alla ricerca di quelle parole necessarie per definire l’indicibilità dell’esistenza.
La fine del secolo rappresentò per Ada una svolta in quanto il successo conseguito con la sua prima raccolta le permise di ottenere il titolo di docente ad honorem presso la Scuola Normale “Gaetana Agnesi” di Milano, dove si trasferì con la madre, avvicinandosi al vivace ambiente culturale socialista milanese. Frequentò Filippo Turati e strinse un legame di profonda sorellanza femminile con Anna Kuliscioff, impegnandosi attivamente anche nel campo dell’emancipazione femminile, dando il proprio contributo alla fondazione dell’Unione femminile e al periodico ad essa associato sul quale pubblicò alcune poesie fra cui quelle in ricordo di Mariuccia Majno, fondatrice dell’Asilo, detto appunto Mariuccia in suo onore, come luogo di ricovero e di riscatto per le bambine e le adolescenti vittime di povertà, violenza sessuale e prostituzione. Questo attivismo in campo sociale ed assistenziale avvicinò Ada Negri anche al giornalismo; in occasione dell’eruzione del Vesuvio del 1906, infatti, divenne inviata speciale del “Corriere della Sera” recandosi personalmente sui luoghi colpiti. Questa passione le fu trasmessa anche dal suo primo grande amore e cioè Ettore Patrizi, un ingegnere socialista, amico di Turati e attivo negli ambienti socialisti milanesi, a cui sono dedicate molte liriche della seconda raccolta della poeta, Tempeste (1895). Fu un rapporto appassionato e burrascoso, che durò dal 1893 al 1896 e che si concluse con un doloroso distacco: a Ettore Patrizi venne offerta la direzione del giornale “L’Italia” a San Francisco e lui partì lasciando Ada in attesa o di un suo ritorno o di un invito a raggiungerlo, entrambe illusioni che non si realizzarono. Ci rimangono poesie come Tu pur verrai, Ti vidi in sogno e Non tornare, per citarne solo alcune, in cui convivono il forte sentimento provato, la speranza del ritrovarsi, ma anche la rabbia di un’amante che si sente abbandonata e, infine, l’odio verso chi è accusato di aver tradito una promessa, tutto questo riassunto in poche e lapidarie parole: «Tu m’eri lontano e vicino / A un tempo». Cosa restò in Ada di quest’esperienza? Sicuramente una grande amarezza e delusione, ma anche quello che dice in questi versi tratti da Ego sum:«quando tutto fugge e si disperde, / Pur resta in noi qualcosa / Di fido e vivo, un sogno, un filo verde, / Una foglia di rosa, / Un germe che s’allarga e si feconda / Entro l’anima oscura». Ci rimane anche un’ultima lettera di Ada ad Ettore del 17 febbraio 1896 in cui la chiusura è netta nelle parole glaciali della poeta: «la mia vita consacrata all’Arte sarà più dignitosa e calma di un amore trascinato così fra le amarezze, le ribellioni e la sfiducia».
Seguì improvviso e alquanto enigmatico il matrimonio che Ada Negri contrasse con l’industriale biellese Giovanni Garlanda: lui lesse le sue poesie e se ne innamorò, le scrisse, si incontrarono e dopo poco lei acconsentì a sposarlo. C’è chi ha visto in questo gesto una sorta di ripicca nei confronti di Patrizi, chi invece ha sostenuto che la scrittrice fosse innamorata dell’amore che Garlanda le dichiarò e avesse creduto a sua volta di amarlo. Al di là delle congetture, quest’unione non mancò di momenti di affetto profondo e tenerezza come in Dolcezze, un sonetto dedicato al marito, in cui la poeta descrive, in un’atmosfera invernale, il senso di sicurezza provato nel novello nido d’amore e loda l’uomo che le sta accanto soprattutto nell’ultima terzina: «Cerco il tuo labbro che non sa mentire, / mi stringo al cor che non conosce oblìo, / m’abbandono tremante al petto fido». La lirica fa parte della terza raccolta di Ada Negri, Maternità, pubblicata nel 1904 e che esprime in versi quella rivoluzionaria esperienza che per lei fu la maternità: dal marito, infatti, Ada ebbe due figlie, Bianca e Vittoria, che morì dopo un mese dalla nascita. L’essere madre permise alla scrittrice di utilizzare la sua profonda sensibilità per analizzarsi e per allargare lo sguardo da una condizione individuale ad una universale. In questo senso, la raccolta si configura proprio come un inno rivolto alle madri come si evince in Maternità in cui è racchiusa un po’ l’essenza di tale esperienza: «Tu sei l’Ignoto», dice Ada definendo ciò che ha dentro di sé e che è parte di lei, ma è anche l’Altro a lei estraneo. Ciò che accomuna le donne in quanto madri è il fatto di essere «urne d’amore, in alto su l’uomo e la fredda scïenza, / come su altar, le pone del germe l’inconscia potenza». L’atto di generare pone la donna in una condizione di superiorità rispetto all’uomo, ma anche alla scienza, di cui però non è consapevole. La condizione femminile fu sempre per Ada Negri un tema molto caro a cui dedicò anche la sua produzione in prosa tra cui le raccolte Le solitarie del 1918 e Sorelle del 1930. Nel primo libro si tratteggiano figure femminili che trovano compimento nel fatto di essere sole per scelta o per destino sopportando il peso delle proprie decisioni e responsabilità in modo eroico; mentre in Sorelle vengono proposti ritratti di donne che, pur vivendo la loro femminilità in modo differente, si riconoscono nel tentativo di farlo in modo autonomo. Molto intenso e assolutamente da riscoprire il racconto dal titolo Il crimine, tratto da Le solitarie, in cui la scrittrice lodigiana descrive la storia di Cristiana che vive il dramma silenzioso di una gravidanza indesiderata dopo aver scelto di vivere pienamente un amore adultero.
La fine della relazione con Garlanda si consumò nel 1913 quando Ada Negri decise di seguire Bianca a Zurigo, dove la figlia si trasferì per motivi di studio. Da quell’esperienza trasse ispirazione per la raccolta Esilio del 1914 in cui ai ricordi dei luoghi lontani della sua infanzia, la poeta affianca una sempre viva ricerca della propria Libertà, che dà il titolo ad una lirica in cui afferma in modo direi imperioso: «Io non fui d’altri e non sarò mai tua, / io son di me». Durante la guerra, tornò in Italia dove si prodigò nell’attività di assistenza ai combattenti, intanto affiancò alla poesia anche la prosa con le raccolte di cui si già è parlato, a cui si possono aggiungere Finestre alte e Le strade degli anni Venti. Molte furono poi le raccolte in versi che si unirono ai suoi primi successi, da I canti dell’isola (1924), ispirati da un soggiorno a Capri, a Vesperina (1930) e Di giorno in giorno (1933) fino a Il dono (1936).
L’arte poetica di Ada Negri, oltre ad essere apprezzata, le valse molti riconoscimenti a partire dal premio letterario “Giannina Milli” del 1894, alla candidatura al Nobel per la Letteratura del 1926 che però andò a Grazia Deledda, ai riconoscimenti durante il fascismo: il Premio Mussolini ricevuto in Campidoglio nel 1931 e il titolo di Accademica d’Italia nel 1940, primo caso di donna ammessa come membro di tale istituzione.
Trascorse gli ultimi anni in modo privato e appartato nella sua casa in Viale dei Mille a Milano e morì nella notte tra il 10 e l’11 gennaio 1945. Su di lei caddero il silenzio e l’oblio, scomparve dalle antologie italiane della seconda metà del Novecento per ragioni piuttosto misteriose, forse ideologiche per il suo legame d’amicizia con Benito Mussolini o forse dovute alla tendenza a inserire nei canoni scolastici solo “qualche” figura femminile insignita del Premio Nobel magari.
È doveroso riscoprire Ada Negri e la ricorrenza dei 150 anni dalla sua nascita è un’occasione importante per restituirle il valore e il significato di cui è stata spogliata lei che per me è donna, lodigiana, poeta, solitaria e soprattutto sorella.

A lei sono state dedicate vie in varie città lombarde e non solo, a Lodi c’è una scuola secondaria di primo grado che porta il suo nome e varie opere che la raffigurano. In particolare, lungo il viale che collega la stazione al centro cittadino, Ada Negri è stata rappresentata su una stele in ceramica con blu cobalto, come si usava nell’antica tradizione settecentesca della ceramica Vecchia Lodi, realizzata dall’artista lodigiana Loredana De Lorenzi.
Articolo di Alice Vergnaghi
Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.
Bellissimo articolo, ho apprezzato molto il legame tra la vita di e l’opera della Negri e i luoghi lodigiani, anche per la scelta delle foto. Risultato: un articolo altamente utilizzabile in classe come approfondimento della poeta! Grazie!
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