Di Anna Corona ho trovato le prime tracce alcuni anni fa, nell’inevitabile Facebook, mentre cercavo pagine di persone che condividessero la mia mania delle chitarre e della loro costruzione. I suoi post erano sempre garbati e interessanti, e lei mi sembrava una gentile cacciatrice/dispensatrice di informazioni e di confronti. Io, sballottato da altre vicende, restavo fermo ai miei tentativi appassionati ma sbilenchi, mentre Anna progrediva a vista d’occhio. Le brillano gli occhi mentre mi racconta: «Pochi giorni fa è venuto un mio cliente, collezionista di strumenti d’epoca, con una vecchia chitarra malmessa e mi ha chiesto se avrei potuto rimettergliela in sesto. “Certo”, gli ho risposto, “me la lasci pure, tornerà nuova”. Lui ha sorriso: “Gliel’avevo portata già cinque anni fa e allora mi disse che non avrebbe potuto far nulla”. Be’, si cresce, e sono soddisfazioni».
Il laboratorio di Anna è nella sua Palermo, in una via residenziale a due passi da casa. È grande il giusto, pieno di strumenti e di attrezzi ma non ingombro, e dà l’idea di un posto in cui si lavora sodo ma in comodità e pulizia. Non assomiglia alla vetusta botteguccia in stile Mastro Ciliegia cui la fantasia popolare associa la figura di chi scolpisce strumenti di legno, ma nemmeno a un capannone industriale. Anna è giovane, lavora da sola, non ha una tradizione artigianale alle spalle e fa strumenti bellissimi. Le chiedo come mai una non figlia d’arte si sia avviata a un lavoro così poco comune.
«Da bambina ho sempre avuto giocattoli musicali. Avrei voluto studiare pianoforte ma per una serie di vicissitudini non è mai successo, però la passione per gli strumenti è rimasta e così, arrivata all’università, ho voluto coniugare la musica a uno studio possibile e ho studiato Discipline della musica e Musicologia all’Accademia musicale di Palermo. E ho conseguito due lauree nell’ambito della filosofia della musica contemporanea. Pensavo che avrei potuto continuare gli studi accademici ma poi, non so come, ho sentito che la cosa non faceva per me. La storia e la filosofia mi appassionano, però un giorno mi è venuto in mente di costruire una chitarra. È stata una scintilla, una rivelazione di qualcosa nascosta dentro di me, e mi è presa la febbre di fare. Ho cominciato a non dormire la notte pensando a cosa e come costruire, e la mattina mi mettevo subito al lavoro. Per molto tempo ho avuto il mio laboratorio, in qualunque stagione, nel balcone di casa dei miei genitori e ho addirittura chiesto, come regalo di laurea, una sega a nastro. Ho comprato scatole di montaggio di chitarre elettriche, ho divorato libri di liuteria e siti internet, ho chiesto consigli e ho finalmente iniziato a lavorare con la materia, cosa per me nuova perché mi ero sempre dedicata allo studio teorico: storia, filosofia, estetica, restauro, organologia, fisica acustica. Ho compiuto insomma un percorso musicale aperto verso infiniti ambiti e spazi di approfondimento. E poi mi è presa questa malattia del fare, da cui non sono più guarita. Ma la tanta teoria mi ha avvantaggiata».
«E i tuoi come l’hanno presa?». «I miei non pensavano che la musica potesse essere altro che un hobby, ma mi hanno lasciata fare. Quindi, senza progetti particolari, ho cercato un posto dove lavorare e ho affittato un box auto, l’unica cosa che potevo permettermi. Ho investito tutti i risparmi, derivati da borse di studio e da svariati lavoretti, per comprare l’attrezzatura e pagare l’affitto del box. Ho iniziato a lavorare. Ho scoperto che a Palermo c’era richiesta di un’attività del genere e molti musicisti hanno cominciato a darmi fiducia. Sono loro molto grata perché quando ho iniziato ero inesperta, mi stavo formando ed è stato uno scambio reciproco. In questi ultimi dieci anni ho lavorato ininterrottamente, talvolta troppo, sacrificando tutto. Aprire una bottega mi sembrava un sogno lontano».

Anna abbraccia la bottega con gli occhi. A una parete sono appese chitarre vecchie e particolari, talvolta preziose, che ha comprato per studiarle e restaurarle. Penso alle tante facce che la musica ha qui in Sicilia, a personaggi popolari come Vincenzo Bellini e Rosa Balistreri, Carmen Consoli e Thony, e alle band emergenti che qui non mancano. Penso al santo protettore di Palermo insieme a santa Rosalia, san Benedetto il Moro, un nero figlio di schiavi africani, che mi fa spontaneamente accomunare Palermo all’America e la musica siciliana, che tanto deve a quelle greca, araba e normanna, al blues e al jazz. Non deve sorprendere che uno dei più entusiasti clienti di Anna sia Lionel Loueke, beninese che suona un jazz intriso di riferimenti africani. E così, in questa commistione, non mi sorprendono le apparenti contraddizioni del lavoro di Anna, come quella, evidentissima, che la vede umanista e insieme costruttrice di strumenti non classici. Quando glielo chiedo mi risponde: «Il mio approccio è stato quello popolare: tastiere e chitarre elettriche, che ho suonato fin da piccola. Non sono una musicista: strimpello la chitarra da autodidatta, però suono tutti i giorni per provare quelle che costruisco e riparo. Capisco che ci sia una dicotomia fra lo studio umanistico-accademico e questo tipo di liuteria, ma la chitarra è lo strumento che mi appartiene di più e secondo me rappresenta al meglio la contemporaneità. Sono molto delusa dall’aspetto odierno della musica “colta”, perché non riesce a trovare espressione nella realtà pur volendo – utopisticamente – essere aperta. Mi viene in mente Adorno, quando diceva che l’arte è morta. La chitarra elettrica è lo strumento più popolare che esista: è come il mandolino di fine Ottocento. Bisogna trovare un punto di incontro fra il popolare e la ricerca di nuovi spazi compositivi. La mia produzione personale, al di là di quella che mi viene spesso chiesta di modelli già noti, è tesa alla ricerca di possibilità compositive nuove, che possano spingere i musicisti a cercare altri piani di interesse pur partendo dal più tradizionale degli strumenti pop».

La chitarra elettrica è davvero il simbolo musicale della nostra epoca. Guardando la bottega di Anna e pensando al suo vecchio box mi viene in mente Joe’s Garage di Frank Zappa, una canzone del 1979 su una band di adolescenti che suona sempre la stessa canzone, in un garage in prestito e pieno di cianfrusaglie, con vecchi strumenti rimediati e malconci, mentre i vicini si lamentano del baccano. La chitarra elettrica, per quella e per altre generazioni, rappresenta un sogno realizzato faticosamente e in perenne evoluzione, dai primi strumenti di seconda o terza mano fino – se e quando è possibile – all’esemplare pregiato. Oggi la qualità della fascia economica è decente ed è possibile comprare per pochi soldi una chitarra passabile fatta in Cina, sigillata in una brillante finitura colorata di plastica e nitrocellulosa che nasconde i difetti del legno (ma ne imbalsama le vibrazioni). Basta accontentarsi del suo suono e conoscere i suoi limiti. Tutto sommato la musica di alto livello non è necessariamente prodotta da strumenti aristocratici: per esempio Keith Richards, autore di alcune delle canzoni più straordinarie dell’ultimo mezzo secolo, racconta nella sua autobiografia di non aver avuto, agli esordi, neppure i soldi per comprarsi le corde e che ha ottenuto il suono di suoi brani celeberrimi sperimentando pessime condizioni sonore e attrezzatura scadente. Ma ciò non significa che una chitarra valga l’altra e che chiunque possa comporre brani come Street Fighting Man con qualunque cosa: se l’artista ha a cuore il risultato sceglie il meglio che può permettersi. Poche persone arrivano a possedere uno strumento artigianale, controllato fino al minimo dettaglio e su misura come un abito di sartoria. Ma, a differenza dell’abito, a chi richiede una chitarra artigianale è sempre necessaria la consapevolezza di sé, del proprio modo di suonare, del suono da raggiungere.

Capisco bene quello che Anna dice quando parla di fallimento della musica colta contemporanea e le confido che anch’io preferisco Frank Zappa a John Cage. «Sì, Cage è la metafora dell’incapacità a comunicare, è la musica svuotata della musica. Se nel passato la musica colta era fruita dai più ampi livelli dalla società perché parlava la stessa lingua di quella del popolo e un’aria d’opera era cantata da tutti, oggi si è sgretolata fino alla morte. Si è creato un vuoto che viene purtroppo riempito dal pop più becero. E questo è un guaio. Sul piano culturale, le chitarre elettriche mi rappresentano più dei violini. Non si è trattato di una ricerca teorica: il discorso a tavolino è venuto dopo. Prima la passione, poi la teoria. E non solo la bellezza: l’estetica dello strumento è un falso mito. L’estetica è la rappresentazione della tecnica. Uno strumento buono è necessariamente bello».
Continuo a pensare a quei primi tempi in cui smontava e rimontava per capire. «Come autodidatta hai dovuto superare problemi tecnici enormi. Hai fatto molti errori?». «Si impara quasi soltanto dagli errori. L’errore è quello che non ti fa dormire la notte pensando a come risolvere il problema. Il lavoro artigianale è costellato da una serie di imprevisti perché niente è mai uguale: non esiste un set-up di una chitarra che vada bene per tutte le chitarre, esiste lo strumento e il tuo sguardo sullo strumento. E per quanti problemi si affrontino, il prossimo sarà diverso».
«Frank Zappa ha detto che non si può parlare di musica come non si può danzare di architettura. Come fa un musicista a dirti che suono vuole?». «Ci sono anche altri fattori. Dipende tutto dalla sua tecnica personale. Le sue mani lo sanno di che strumento ha bisogno. Nella progettazione si può indirizzare lo strumento verso il corpo di chi lo suona».
Gli argomenti che affronta sono affascinanti, ma non posso trattenere una domanda fin troppo ovvia. «Il tuo mestiere è in genere appannaggio degli uomini. Hai avuto problemi in tal senso? Ti hanno mai detto che “gli scalpelli non si addicono a una ragazza”?». «Quasi nessuna delle persone che ho conosciuto me l’ha mai detto, c’è semmai stata qualche reazione sorpresa, tipo “che bello, una donna che fa questo mestiere”. Alcuni cadono nello stereotipo sessista apparentemente benevolo: “una donna liutaia è meglio perché è più precisa, più attenta”. Io non ho mai visto alcuna relazione fra il genere e il lavoro. I miei clienti vengono da me perché si fidano. I pochi commenti davvero sessisti li ho ricevuti da uomini di fascia sociale elevata: una volta tre signori molto eleganti si sono affacciati alla bottega dopo aver letto l’insegna che dice a chiare lettere “Anna Corona Liuteria”, e hanno chiesto se “il titolare” dell’attività fosse mio marito, mio padre o simili, come se il nome della bottega fosse un gentile omaggio alla signora. Ho chiesto: “In che senso? Non ha visto l’insegna? L’attività la gestisco io”. Mi sono sentita molto umiliata. Io ho sempre fatto tutto da sola. Non so se ci siano persone che non vengono da me perché sono donna, e neppure mi interessa. Affari loro».
«Tu hai lavorato in balcone, in un box, in casa. Com’è cambiata la tua vita?». «Per molto tempo, dopo che ho avuto una casa mia, vi ho lavorato senza fare alcuna differenza fra tempo e luogo di lavoro e di vita. Avevo chitarre sopra il frigo e verniciavo in giardino. Per anni ho lavorato tantissimo, dieci-dodici ore al giorno, e sono cresciuta molto. Poi, però, ho sentito l’esigenza di distinguere e ho aperto questo laboratorio molto vicino a casa ma separato. Sono molto pignola nel rispettare gli orari, ma la bottega ora è un’apertura al mondo e a casa ho recuperato la mia tranquillità. Prima non mi ero accorta di avere una vita distinta dalla liuteria. Nella vita mi pare giusto avere un periodo di sacrificio – le conquiste non cadono dagli alberi – ma ora, quando chiudo bottega, mi sento serena».
Articolo di Mauro Zennaro
Mauro Zennaro è grafico e insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e la chitarra in una blues band.
Viene voglia di conoscerla questa liutaia!!!
"Mi piace""Mi piace"