Maria Panfillii, poesie dalla Moldova

Ho incontrato Maria Panfilii in un bar romano, vicino all’abitazione dell’anziano signore di cui al momento dell’intervista si occupava come badante. Dimostrava verso di lui l’amore e la dedizione che, durante il racconto, mi ha detto di aver avuto per ciascuna e ciascuno di loro. Maria ha curato le sue anziane e i suoi anziani come fossero la sua famiglia. Si è comportata così anche quando non erano più tra i vivi portando loro un fiore e andando in visita, come può fare una cara parente. L’incontro è stato pieno di emozione e commozione.
Maria Panfilii, nonostante il nome e cognome sembrino praticamente italiani, è una signora di origini moldave che vive qui da noi da più di quindici anni. Il suo dolore lo ha sempre espresso in versi. Quando da ragazzina, appena dodicenne, si era sentita concretamente avvilita per l’assenza nella sua vita della figura del padre morto quando lei aveva appena cinque anni, Maria aveva iniziato a scrivere poesie e si era sentita come consolata da questo gesto. La prima poesia Maria Panfilii l’ha dedicata, infatti, proprio al padre, paragonando la mancanza del genitore all’autunno che si spegne e non ritorna indietro, non riuscendo a voltarsi verso la stagione più calda dell’anno. Da allora Maria ha messo sempre nei versi il suo pianto: per la  vita, per un “suo” anziano che muore, per le sofferenze di un’amica. E ha pubblicato in Moldavia già due libri che sogna di far tradurre in italiano.    

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Il padre era stato deportato, ancora giovane, dai russi quando erano arrivati in Moldova, e condotto in Siberia dove era rimasto per ben dieci anni, probabilmente con la sola colpa di avere comprato molto terreno, nel quale aveva lavorato come un pazzo dalla mattina alla sera. In prigionia si era ammalato di un male che non lo avrebbe lasciato più e avrebbe finito per minarne la salute fino a farlo morire, lasciando Maria e la sua sorellina, più piccola di un anno, da sole con la mamma: orfane e vedova di un uomo buono che nessuna di loro riesce a dimenticare. La mamma, alla morte dell’amato marito, raccomanda alle figlie di essere discrete a scuola, sul loro stato, di non parlare di quel lutto del cuore. Maria è obbediente. Un  compagno, nominato responsabile della classe, le chiede un giorno di chi sono quei versi così belli e tristi riportati da lei su un cartellone approntato da tutti i ragazzini ed esposto alla parete dell’aula. Maria, schiva, risponde di averli trascritti da un giornale, dicendo di essere stata colpita, come lo era stato lui, dalla loro bellezza. Nasconde il suo dolore nel cuore e mette a tacere qualsiasi altra possibilità. La scuola piace molto a Maria, è innamorata della storia, adora la poesia ed è svelta con i numeri della matematica. Ma a casa servono i soldi e la piccola sente anche in questo senso ancora di più l’ingiustizia della morte del padre. Non può opporsi al destino, comincia a lavorare di mattina in una fabbrica, ma riesce a studiare la sera, seppure stanca.
A ventidue anni si sposa. Il matrimonio dura pochissimo e le lascia tra le braccia un figlio che curerà con l’aiuto della mamma e della sorella, ritornando, disperata, alla sua casa d’origine. Il marito non le aveva dato nulla che non fosse amarezza, né aveva mantenuto la promessa di permetterle di continuare a studiare. Con il divorzio, di nuovo per Maria si presenta il bisogno di guadagnare di più: per il figlio, che vuole far crescere bene e che deve studiare, e poi per aiutare la sorella, amatissima, di salute tanto cagionevole da essere costretta ad affrontare cure difficili e ben quattro operazioni chirurgiche. I soldi erano indispensabili.
Così Maria pensa di partire, nonostante il parere negativo della mamma. Una notte aspetta che tutti si siano addormentati, e scappa via, con le lacrime agli occhi,  lacrime che ancora le sorgono incontrollate durante il racconto, senza una valigia, ma solo con i soldi in borsa: i 2.400 euro necessari perché i trafficanti permettessero di passare i confini, a lei e a tante altre donne piene della sua stessa speranza di migliorare la vita propria e soprattutto dei familiari rimasti nella terra di origine. Maria parte e si avvia verso una vita completamente sconosciuta. Il viaggio dura nove giorni. Somiglia, è importante ripeterlo, a quelli di tante altre sue connazionali, tutte donne, tutte partite da sole, quasi tutte madri. Cambiano i confini delle terre da passare (Maria e il suo gruppo transitano per l’Ungheria), ma le modalità sono le stesse, con le tappe obbligate, gli alberghi dall’aspetto equivoco, la segregazione in stanze chiuse a chiave, prigionie sciolte solo al momento della consegna del denaro, sempre frazionato secondo un determinato programma: prima cinquecento, poi settecento euro e così via…fino al saldo.                       Arrivata a Roma, Maria non sa la lingua, non sa nulla o quasi del posto in cui ora si trova e deve provare a vivere come può. Per un mese non lavora, poi un’amica moldava le presenta una signora, la prima dei “suoi “ anziani che lei ha curato, uno dopo l’altro, con amore filiale, come se fossero i suoi genitori, i suoi parenti stretti, con tutta l’umanità e il rispetto che le era stato insegnato dalla madre e, attraverso lei, dal padre. Di loro racconta con affetto il percorso fatto insieme. Ricorda i momenti trascorsi in casa, persino qualche piccola vittoria su certe loro manìe. Racconta del disguido nato con la signora ottantottenne che una sera dopo cena le chiede un tovagliolo e lei, ancora troppo poco abituata alla nuova lingua, le porta un piccolo tavolino tolto a quello della cucina, facendo finire tutto in una sonora risata. Ricorda della signora che spesso la graffiava perché non voleva lavarsi e che poi, puntualmente, finiva per scusarsi tanto, ma tanto con lei, consolandola di compassione e di affetto. Maria ricorda e racconta delle quindici parole in italiano trascritte ogni giorno su un foglio che metteva in tasca imparandole e ripetendole mentre andava a fare la spesa o riordinava casa per poi riferirle, come in un esame settimanale, il sabato all’amica moldava, improvvisata sua insegnante visto che era già da tanto tempo in Italia.
Racconta Maria Panfilii (porta ancora il cognome del marito ormai lasciato da tempo) della poesia scritta per la sua conterranea che vive e lavora a Padova. Gliela aveva chiesta da tempo per dedicarla al figlio, Maria pensa e ripensa e poi una notte, alle quattro, in un silenzio insonne, le vengono i primi versi, si alza e la scrive di getto. La mattina legge la poesia all’amica al telefono e ha ancora nel cuore il pianto dirotto e improvviso scoppiato dall’altra parte del filo, tanto la donna si era commossa per la bellezza delle sue parole.
Ripete, intenerita, i ricordi sull’anziano negoziante dell’Esquilino, di religione ebraica, contento di essere stato tra i pochi riusciti a sopravvivere ad Auschwitz. Ricorda la signora che, nei tre anni del suo accudimento, aveva ricevuto una sola visita dal figlio; era un po’ arrabbiata e molto triste per questo ingiusto abbandono. Maria sentiva lo sguardo di ammirazione e di malinconia quando lei telefonava alla mamma rimasta in Moldova, ad ogni fine settimana, come un appuntamento con il sacro. Quattro volte al mese, impegnandoci, insieme al cuore, una buona parte del suo stipendio.
Per lei, per questa anziana dimenticata dal proprio figlio, Maria scriverà una poesia in cui la descrive come un uccello che implora i suoi pulcini, una volta volati via da lei, di ritornare a trovarla. Lei, invece, come una figlia acquisita, tutti i “suoi” anziani li ha pianti e non li dimentica: li va a trovare nella loro ultima dimora, non scordando mai di portare un fiore.
Nonostante, dunque, quel suo iniziale totale spaesamento, Maria Panfilii in Italia si è sentita accolta e protetta. E per l’Italia le è venuta la voglia di mettere in versi anche la sua gioia. Scrive poesie di gratitudine verso la terra che la sta ospitando, che vede bella, piena del suo cielo assolato, accogliente. Verso gli italiani si ripete il suo amore. Racconta che non l’hanno rifiutata, che le hanno dato i vestiti. Perché Maria quella notte che aveva deciso di partire non aveva preparato nessuna valigia. Aveva voluto andare via in silenzio, come se nulla fosse, in modo che i suoi cari si accorgessero della decisione ormai presa, per non farli soffrire troppo.

 

 

 

Articolo di Giusi Sammartino

aFQ14hduLaureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

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