Il 20 marzo di ogni anno si celebra in tutto il mondo la Giornata Internazionale della Felicità, istituita dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 28 giugno 2012.
La data del 20 marzo, equinozio di primavera, fu proposta dal consigliere speciale dell’Onu Jayme Illien, orfano salvato sulle strade di Calcutta dalle suore missionarie della carità di Madre Teresa, poi divenuto fondatore di Happytalism, un nuovo sistema economico e paradigma di sviluppo globale che pone il primato della felicità e del benessere al centro dello sviluppo economico. L’Assemblea, con la risoluzione A/RES/66/281, «[…] consapevole di come la ricerca della felicità sia uno scopo fondamentale dell’umanità, […] riconoscendo inoltre la necessità di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone, decide di proclamare il 20 marzo la Giornata Internazionale della Felicità, invita tutti gli stati membri, le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite, e altri organismi internazionali e regionali, così come la società civile, incluse le organizzazioni non governative e i singoli individui, a celebrare la ricorrenza della Giornata Internazionale della Felicità in maniera appropriata, anche attraverso attività educative di crescita della consapevolezza pubblica […]». La risoluzione, dunque, riconosce come scopo fondamentale dell’umanità, dell’intera umanità, la ricerca della felicità, che non rientra, dunque, negli optional della nostra esistenza, ma ne rappresenta l’obiettivo primario.
La domanda, diremmo a questo punto, sorge spontanea più che mai in questo momento che stiamo vivendo, con le nostre esistenze completamente immerse nella preoccupazione di un virus che spande sentimenti contrari alla felicità e si spande velocemente tra di noi: cos’è la felicità? Non sono di certo io la prima a scrivere un pensiero su questo tema, o meglio su questa naturale e congenita esigenza degli esseri umani. Abbiamo fiumi di scritti storici, letterari, filosofici, psicologici, sociologici, e poi film, opere teatrali, trasmissioni televisive: da sempre, nella storia dell’umanità, ci si è posti questo interrogativo.
L’Enciclopedia Treccani definisce la felicità come lo «stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato», e specifica che «l’aspirazione alla felicità è caratteristica dell’etica classica, che la chiamò eudaimonia», una parola che esprime il concetto della felicità quale scopo di vita e fondamento etico, dal greco eu – “buono” e daimon – “genio, demone”, dunque la meta verso la quale indirizzare ogni azione e scelta della propria vita.
Questa accezione del termine ben si collega, a mio avviso, con il valore semantico che le attribuivano i Latini, popolo ben più pragmatico, che associavano l’idea di felicitas al significato di “fortuna”, “successo”, “prosperità” e, per traslato, “fertilità”, “fecondità”. Essere felici, dunque, è raggiungere il successo, la prosperità. Una cosa è certa, come scrive il filosofo Salvatore Natoli: «Agli uomini accade d’essere felici. […] Gli uomini sanno cos’è felicità e non tanto perché ne possiedono il concetto, ma perché ne sperimentano la condizione: essi infatti non ignorano quel che sentono quando si sentono felici. La felicità dunque esiste e come tale è di questo mondo» (La felicità. Saggio di teoria degli affetti, 2004). Non è utopistico aspirare ad essa, bensì è giusto e doveroso, come è giusto e doveroso che tutti gli esseri umani vengano posti nelle condizioni di poterla sperimentare.
È chiaro che ognuno/a di noi ha un’idea differente di felicità, perché differenti sono le condizioni interne ed esterne a noi che percepiamo come fonte di gioia. Ma se essa viene riconosciuta a livello unanime e internazionale come obiettivo della vita di tutti gli uomini e tutte le donne del mondo, allora ciò significa che la felicità non è solo un sentimento che attiene alla sfera personale, ma è un vero e proprio diritto e come tale richiede che ogni giorno ci si batta per affermarlo e difenderlo. Nella Dichiarazione d’Indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America del 4 Luglio 1776, i Padri fondatori, guidati da Benjamin Franklin, affermavano solennemente: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità». Nella nostra Costituzione italiana, la più bella del mondo, la parola ‘felicità’ non compare esplicitamente menzionata, ma già declinata nelle sue accezioni più profonde che vanno esplicitate nella vita civile e personale: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3.) Per poter rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, credo che si renda attualmente indispensabile e imprescindibile riconsiderare sotto l’egida di altri parametri l’intero sistema economico, perché il diritto alla felicità di tutti gli uomini e di tutte le donne è, a mio avviso, strettamente connesso con la visione e l’andamento dell’economia globale. Se non cambiano i paradigmi interpretativi e gli indicatori considerati per misurare il benessere economico dei cittadini e delle cittadine, se non si attua una rivoluzione nel modello economico mondiale, passando dallo sfrenato capitalismo e consumismo ad un’economia neo-umanista che metta al centro degli ingranaggi gli esseri umani, tutti, senza alcuna distinzione, e non i numeri, quel diritto alla felicità per tutti e tutte sacrosanto non sarà facilmente perseguibile.
Non ho dimestichezza con le teorie economiche come gli/le addetti/e ai lavori, ma riesco a leggere giusto quel poco che serve ad una cittadina informata per capire che è forse giunta l’ora di rompere definitivamente questo paradigma che impone la crescita esponenziale dei profitti a discapito dell’uguaglianza e della giustizia sociale.
Si tratta di aprirsi ad una differente narrazione della realtà storica e sociale, che non sia omologata e univoca, ma che guardi a tutti quegli aspetti che non sempre il potere economico e quello politico considerano. Nel saggio L’economia la felicità e gli altri. Un’indagine su beni e benessere, l’economista italiano Luigino Bruni scriveva già nel 2009: «L’economia è importante, la felicità di più. O meglio, i beni sono importanti se e quando ci fanno vivere meglio, se e quando ci fanno più felici; se invece ricchezza, reddito, consumo ci portano, alla fine, a viver peggio, quegli stessi beni si trasformano in mali. […] Se quindi l’economia ci consente, con le sue leggi e tecniche, di aumentare i beni, di vivere meglio, se fa crescere il nostro ben-essere, allora il lavoro dell’economista è rilevante e gli ambiti economici diventano morali, umani e umanizzanti». Quanto sono illuminanti tali affermazioni! Mi chiedo: perché non si è ancora arrivati alla realizzazione di una tale idea di economia? Bruni non è l’unico. L’economista italo-statunitense Mariana Mazzucato, direttora dell’Institute for Innovation and Public Purpose all’University College di Londra, afferma da tempo, inascoltata, che il capitalismo è morto e che anche gli economisti non stanno bene. La buona notizia è che proprio in queste ultime settimane, insieme al belga Gunter Pauli, Mariana Mazzucato è entrata a Palazzo Chigi in veste di nuova consigliera economica del premier Giuseppe Conte, con il precipuo obiettivo di lavorare al rilancio dell’economia italiana, puntando sul Green New Deal, piano del governo Conte bis per la rigenerazione urbana, la riconversione energetica, la protezione della biodiversità e il contrasto ai cambiamenti climatici. Ma in un’intervista dello scorso agosto, l’economista Mazzucato ha toccato il cuore del problema che riguarda l’obsoleta visione economica che domina ancora il nostro pianeta: «nelle nostre priorità deve esserci sì risolvere la questione del cambiamento climatico, per cui abbiamo soltanto 12 anni rimasti o saremo tutti sott’acqua, ma c’è anche con parimenti forza l’esigenza di risolvere la crisi del populismo: altrimenti rischiamo di avere un pianeta sostenibile, ma senza la giustizia sociale, la tolleranza, l’inclusività. L’esigenza di lottare per una società tollerante ed equa, basata sulla collaborazione e sulla cooperazione, in cui si rispettano le diversità, va di pari passo con l’importanza della definanziarizzazione dell’economia e con la lotta ai cambiamenti climatici. Le tre cose sono assolutamente collegate, perché lavorare sulle prime significa spingere per una crescita sostenibile, verde, inclusiva. Significa passare da un modello di estrazione del valore a uno di creazione del valore» (https://it.businessinsider.com/mazzucato-se-non-cambiamo-il-capitalismo-ci-sara-lavanzata-di-un-nuovo-fascismo-cavalcato-dai-salvini-e-dai-trump/). A Mariana Mazzucato ha dedicato due interessanti articoli su questa rivista la mia collega e studiosa di diritto ed economia Sara Marsico (https://vitaminevaganti.com/2019/08/03/e-questo-il-futuro-che-vogliamo/, https://vitaminevaganti.com/2019/07/27/cambiamo-narrazione-il-pensiero-eccentrico-di-mariana-mazzucato-lo-stato-innovatore/), attraverso i quali ci ha fatto conoscere un’altra voce, per giunta femminile, dell’analisi economica del nostro tempo, veicolata in modo particolare nel libro Lo Stato innovatore (Laterza, 2017): scopo del saggio della brillante economista è smontare il mito secondo cui «l’impresa privata è considerata da tutti una forza innovativa, mentre lo Stato è bollato come una forza inerziale, troppo grosso e pesante per fungere da motore dinamico». Mazzucato afferma che l’imprenditore più audace, l’innovatore più prolifico» è lo Stato, «che finanzia la ricerca, che produce le tecnologie più rivoluzionarie, […] è il motore dinamico di settori come la green economy, le telecomunicazioni, le nanotecnologie, la farmaceutica». L’economia tradizionale propone modelli astratti e la dottrina convenzionale continua a sostenere che la chiave è nell’imprenditoria privata. Secondo Mariana Mazzucato, invece, la prima è inutile e la seconda insufficiente. Come ricorda Sara Marsico nell’articolo, poc’anzi citato, Cambiamo narrazione. Il pensiero eccentrico di Mariana Mazzucato: lo Stato innovatore, «in un’epoca di pensiero neoliberista unico e dominante, l’operazione più importante da fare era “cambiare narrazione” sul ruolo del pubblico e del privato. Operazione titanica ma non impossibile. Il pubblico, diversamente dal privato, può impiegare quelli che Mazzucato chiama «capitali pazienti», che, diversamente da quelli privati, non hanno bisogno di un ritorno di utili nel breve o brevissimo termine, capitali che possono sperimentare fallimenti, perché le innovazioni non arrivano di colpo, ma dopo numerosi tentativi ed errori, che causano fallimenti». Una visione economica, dunque, maggiormente rispettosa della dimensione umana, perché predisposta alla pazienza di attendere la maturazione dei frutti a lungo termine, nel rispetto di valori umani e ambientali, e che include anche la possibilità del fallimento, vocabolo che terrorizza i manager del capitalismo più sfrenato, quello che spesso non ha il diritto alla felicità nell’orizzonte delle sue strategie per il raggiungimento dei risultati.
Cos’altro è, in termini di neo-umanesimo, il valore di cui parla Mazzucato se non la felicità di ogni persona nella società? Ma è fondamentale comprendere che questa felicità individuale e, direi, civica e sociale, non passa attraverso il possesso di un sempre maggior numero di beni e ricchezza. È il cosiddetto “paradosso della felicità”, noto agli economisti e alle economiste come “paradosso di Easterlin”, teorizzato nel 1974 da Richard Easterlin, professore di economia dell’Università della California e membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze. Secondo tale teoria, la vera felicità delle persone dipende molto poco dalla variabilità di reddito e di ricchezza. In poche parole, Easterlin ha osservato che quando reddito e benessere economico aumentano anche la felicità umana aumenta, ma solo fino ad un certo limite, oltre il quale comincia a diminuire, seguendo una curva ad U rovesciata. Dunque, si comprende che l’idea di misurare la felicità delle nazioni – e, conseguentemente, delle persone – sulla base del PIL è ormai incrinata. «Così alcuni esperti, pur continuando a tenere in considerazione il PIL, hanno cominciato a valutare il BIL, cioè il Benessere Interno Lordo degli abitanti di una certa nazione, città o regione. Secondo alcune valutazioni del BIL condotte qualche tempo fa dall’OCSE, il benessere della popolazione non dipende soltanto dal denaro a disposizione ma anche dai rapporti sociali, dalle condizioni ambientali, dalla salute, dall’istruzione, dalla partecipazione alla vita politica e dalle attività personali. Economisti e psicologi hanno iniziato a domandarsi cosa renda davvero felici le persone e su cosa si basi la felicità. Il denaro è un bene che può essere presente al momento, che viene speso oggi e che potrebbe non essere più a nostra disposizione domani. Ecco una delle spiegazioni più semplici secondo cui la vera felicità, cioè una felicità duratura, non può basarsi (solo) sul denaro. Ritenere che il denaro non faccia la felicità non significa demonizzare il denaro. Possiamo imparare a considerare il denaro di per sé come qualcosa di neutro, né positivo né negativo e a gestirlo al meglio per soddisfare i nostri bisogni» (https://www.greenme.it/vivere/costume-e-societa/paradosso-felicita-easterlin/). Il pioniere di questi studi, però, è stato lo psicologo sociale Hadley Cantril, che nel 1965 immaginò qualcosa di provocatorio per il suo tempo, ovvero misurare quantitativamente la felicità – vocabolo che lui utilizzava al posto dell’attuale sinonimo di “life satisfaction” – e confrontare i livelli di felicità di diverse persone in diversi Paesi. Nel saggio The pattern of human concerns, Cantril evidenziò provocatoriamente che in una scala di valutazione un “7” di un nigeriano fosse comparabile con un “7” di un americano. Egli mostrò che la media mondiale si attestava attorno a 7,6, mentre quella degli statunitensi era di 6,6: è questo un primo dato da cui poi è partita la riflessione sul rapporto tra reddito e benessere soggettivo, denominato poi paradosso della felicità (http://www.treccani.it/enciclopedia/economia-e-felicita_%28XXI-Secolo%29/). È necessario ripartire da queste considerazioni se si vuole intraprendere la rotta giusta sul cammino che porta all’estensione globale del diritto alla felicità, perché non dobbiamo illuderci che, pur vivendo in un mondo pienamente globalizzato, siano globalizzati anche i diritti. Come ricorda Luigino Bruni, è necessario avere mente e cuore sempre rivolti a quei paesi che nel mondo vivono ben più gravi paradossi, «cioè a quel terzo di umanità che vive senza acqua potabile e che non ha accesso all’istruzione e a cure sanitarie minime», per poi giungere alla considerazione che «i rapporti interpersonali sono i beni più preziosi, e che i beni diventano ben-essere solo all’interno di relazioni umane cariche di senso e di valori», perché «la carestia di felicità dovuta alla povertà relazionale può diventare più disastrosa e disumanizzante della carestia di cibo» (L’economia la felicità e gli altri).
Siamo in piena emergenza covid-19, un virus che, dopo aver colpito duramente la Cina, è arrivato nel nostro Paese e ha cambiato letteralmente percezioni e abitudini, oltre che aver richiesto una serie di misure restrittive di contenimento del contagio, che hanno necessariamente costretto tutti e tutte a fermarci. È in questo momento così delicato che siamo chiamati a fare una profonda e seria riflessione su tutto il nostro sistema di vita, in ogni ambito, soprattutto in relazione a tutti e tutte coloro che non sono posti nelle stesse nostre condizioni per la conquista del diritto alla felicità. Se per felicità condivisa intendiamo la possibilità di vivere serenamente il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, allora questo è il momento davvero favorevole e opportuno per cambiare rotta e rimettere al centro di tutto gli uomini e le donne, è il momento per dirigere i nostri sforzi in ogni campo verso un nuovo umanesimo, verso una nuova visione del mondo secondo cui esseri umani e pianeta possano svilupparsi in un processo armonico e reciprocamente rispettoso, per cui si lavori concretamente al fine di abbattere tutte quelle fonti di discriminazioni e sofferenze che impediscono alla maggior parte della popolazione mondiale di essere pienamente felici. Il monaco buddista e attivista vietnamita Thich Nhat Hanh scriveva: «C’è una rivoluzione che deve accadere e che inizia da dentro ognuno di noi. Dobbiamo svegliarci e innamorarci della Terra. La nostra felicità personale e collettiva e la nostra sopravvivenza dipendono da questo».
Vorrei che chiunque leggerà questo mio contributo alla celebrazione di una giornata così bella, possa chiedersi a quale concetto di felicità ispira le proprie azioni e i propri pensieri, e se essi soddisfano quell’innata aspirazione che abbiamo nel nostro intimo a vivere felici. Se ci accorgiamo che la risposta è negativa, possiamo sempre cambiare direzione e guardarci accanto, intraprendere un nuovo viaggio con le persone che la vita ha posto nella nostra quotidianità e insieme contribuire alla costruzione di un mondo davvero migliore, e non solo per noi stessi/e. Perché la felicità è un diritto e un’esperienza da condividere: se resta fine a se stessa perde la sua straordinaria fecondità.
In rete si trova tantissimo materiale sulla felicità: libri, film, articoli, aforismi, ricette ed elenchi di precetti. Voglio condividere con te, lettore/lettrice, un decalogo di semplici regole che mi ha molto colpito quando l’ho letto, e una poesia inedita del poeta Guido Oldani, originario del paese in cui vivo e lavoro, Melegnano, e ideatore della corrente letteraria del Realismo Terminale. Il primo è stato composto dalla stilista britannica e signora del punk Vivienne Westwood, e in esso ho visto un inno a vivere un’esistenza attiva, all’insegna dell’altruismo verso il mondo intero, vero segreto, per chi scrive, per il raggiungimento di una felicità reale e non di facciata:
1. Il denaro è il mezzo per un fine, non un fine in sé e per sé
2. Qualità contro quantità
3. Acquistare meno, scegliere meglio, far sì che duri, «io non spreco mai il denaro, io lo spendo», diceva Oscar Wilde
4. Preparare e cucinare il proprio cibo
5. Eliminare, quando possibile, la plastica
6. Tenersi informati
7. ONG: ce ne sono migliaia, sostenerne una in particolare e dare a essa il proprio contributo. Si apprende molto
8. Tenere conto della responsabilità di non avere o di avere bambini</i
9. Prendere parte attivamente alla Rivoluzione che ci si sta apprestando a costruire
10. Impegnarsi nell’arte e nella cultura (consumatore scendi dal tapis roulant, discrimina, non subire).
La seconda, invece, è una poesia che colpisce molto per l’apparente semplicità innestata nell’atmosfera di questo particolare momento di emergenza che stiamo vivendo. L’ultimo verso è il mio augurio di felicità per tutti e tutte voi:
ognuno pensa a sé, quello gli basta, / come un caveau si vive, sta da solo / e credevamo il mondo virtuale / di carne invece siamo otto miliardi / che adesso il virus ci fa riscoprire, / del resto già aristotele pensava, / pur nella moltitudine di scaltri, / felici si è soltanto insieme agli altri.
Articolo di Valeria Pilone
Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.