Dopo la guerra d’Indocina, gli accordi di Ginevra del 1954 hanno diviso il Viet Nam in due Stati, uno comunista a Nord e uno liberale a Sud. Contro il governo corrotto del Sud filoamericano, nasce un movimento di guerriglia rivoluzionaria, che raccoglie sia i comunisti (con il nome di Viet Cong) sia la maggioranza buddhista della popolazione e riceve aiuti dalla Cina e dall’Unione Sovietica. Temendo l’instaurazione del comunismo in tutto il Viet Nam e poi in tutta la penisola indocinese, nel 1964 gli Stati Uniti mandano nel Sud del Viet Nam un numeroso contingente di “consiglieri militari” che, sotto i governi Kennedy e Johnson, supera il mezzo milione di uomini armati. Quella che scoppia in Viet Nam è quindi un conflitto “informale”, costato tantissime vittime ma mai reso ufficiale con una vera e propria dichiarazione di guerra.
Le truppe USA, per quanto numerose, non riescono a piegare la resistenza vietnamita: un esercito moderno e meccanizzato, preparato a guerre su vasta scala in cui si affronta il nemico in campo aperto, non è in grado di sostenere una guerriglia partigiana in cui i Viet Cong sotto la guida di Ho Chi Minh sono avvantaggiati dalla perfetta conoscenza del territorio e dall’uso di gallerie sotterranee e nascondigli naturali che li rendono ancora più inafferrabili. Alla disfatta militare si aggiunge quella morale: stavolta l’esercito statunitense è solo, senza l’appoggio di tutta la Nato, e sta palesemente violando il diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione anche al di fuori della propria sfera d’influenza, mentre la televisione americana diffonde nelle case delle famiglie le immagini dei massacri indiscriminati, dei bombardamenti a tappeto e degli incendi nelle foreste che l’aviazione americana sta compiendo in Viet Nam.

Decine di migliaia di ragazzi americani rifiutano di imbracciare le armi, pur consapevoli di rischiare il carcere. Il Canada, membro della Nato, invece di appoggiare il governo vicino offre rifugio a questi giovani pacifisti, il cui pensiero in breve tempo si estende anche all’Europa; nelle strade e nei parchi delle città americane la protesta contro la guerra si unisce a quella contro il razzismo verso la popolazione di pelle nera.
Nel 1975, poco dopo l’entrata delle truppe comuniste nordvietnamite a Saigon (capitale del Viet Nam del Sud, nota oggi anche come Ho Chi Minh City), il presidente Nixon firma a Parigi un armistizio con i Viet Cong che stabilisce la ritirata Usa senza nulla in cambio: è la prima sconfitta militare nella storia degli Stati Uniti e un pesante colpo per il loro dominio internazionale.

Poco dopo la ritirata degli Stati Uniti, nasce una dittatura comunista in Cambogia controllata dal partito dei Khmer Rossi (alleato del Viet Cong) sotto la guida di Pol Pot, pseudonimo di Saloth Sar, che aveva partecipato alla guerra della penisola indocinese contro la colonizzazione francese. Arrivato al potere nel 1976, Pol Pot impone il trasferimento di milioni di persone dalle città alle campagne e una “ruralizzazione” forzata della popolazione, costretta in fattorie collettive di proprietà statale. Il regime dei Khmer Rossi apre dei campi di concentramento e di lavoro forzato in cui vengono uccise da uno a due milioni di persone – a seconda delle fonti – non risparmiando nemmeno la famiglia dello stesso dittatore. Caratteristiche sufficienti per essere uccisi sono non soltanto il dissenso politico ma anche condurre una vita “da intellettuale occidentale”, accusa sotto la quale rientra chi ha studiato, chi porta gli occhiali e chi semplicemente non ha sulle mani i calli da contadino.
Il regime cambogiano ha sempre ripetuto che per la realizzazione del comunismo bastano uno o due milioni di persone, mentre sterminare gli altri non comporta alcuna perdita e mantenerli in vita non è fonte di alcun beneficio. Vista l’ostilità di Pol Pot verso l’Unione Sovietica (Pol Pot è un autonomista, quindi rifiuta la leadership sovietica e la sua rigida ortodossia), gli Stati Uniti e la Cina non ostacoleranno né denunceranno le atrocità commesse in Cambogia durante la dittatura. Eppure il delirio assassino di Pol Pot non si può spiegare soltanto con la follia di un uomo o di un partito senza tenere in conto il risentimento e il rancore contro l’Occidente imperialista che la guerra francese prima e quella statunitense poi hanno lasciato in tutta la popolazione del Sud-Est asiatico.
Articolo di Andrea Zennaro
Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.