Ho una passione: quando i libri si intravedono nei film devo assolutamente scoprire di che si tratta, perché penso siano stati studiati apposta per un personaggio, per un luogo, una trama specifica e che dietro ci sia una ricerca complessa di una regia che ha inteso affidare ad un libro una capacità descrittiva potente, una grande carica simbolica.
Ci sono casi in cui il libro non è affatto utilizzato come codice semantico nel film, poiché nemmeno si riesce a leggere il titolo dell’opera e, poi, ci sono film che dedicano ad un libro la centralità della trama e che affidano ad una particolare scelta bibliografica l’interezza del o della protagonista.
Tuttavia, per quanto anche in questi casi l’impiego del libro sia accattivante, non mi affascina come quando l’inquadratura su di un testo dura pochi secondi, come quando lo si vuole far apparire quasi una svista nel campo visivo, come quando si lascia che sia un oggetto fra tanti.
Eppure quel libro è esattamente lì dove è stato pensato che stia, niente casualità: è un percorso e solo chi avrà la curiosità di andare a cercarlo o chi già lo conosce avrà una chiave di accesso in più, ed infinitamente preziosa, per comprendere il significato del film o essere guidato/a a fare la conoscenza di un suo personaggio.
Mi convinco che la natura camaleontica della sua copertina, che si confonde tra le mani di un soggetto o nella confusione di altri oggetti, è voluta e finalizzata a lasciare che sia lo spettatore o la spettatrice a coglierlo e a decodificare piccoli messaggi da ricamare insieme all’intera trama del film o alla fisionomia dei suoi personaggi.
Così, la mia fantasia viaggia alla ricerca del significato criptico che la regia possa aver affidato alla scelta di un libro che fa capolino nella sequenza visiva del lungometraggio.
Ed è così che mi ritrovo a guardare Un giorno devi andare (Giorgio Diritti, Italia-Francia, 2013) e sentirmi attratta da un personaggio secondario, la madre della protagonista, che nel film ha pochissime battute, pronunciate con tono mite e con un delicato accento francese e quello che si può sapere di lei lo si apprende soprattutto dagli sguardi, un po’ dal modo di vestire e da qualche breve dialogo con le poche persone che incontra durante il racconto, fino a che viene inquadrata al capezzale della madre, alla fioca luce del comodino d’ospedale, di notte, mentre legge Cuccette per signora (Anita Nair, Neri Pozza, 2009).
E mi metto immediatamente a cercare on line il testo, non conoscendolo, per scoprire che è il romanzo di una scrittrice indiana che racconta del desiderio di una donna di lasciare, con il suo sari dai colori decisi, il suo paese alla volta di nuove conoscenze e che, nel suo percorso in treno, condivide la cuccetta con altre cinque donne, tutte naturalmente diverse fra loro, che le restituiscono la dimensione della relazione femminile, così complessa e, allo stesso tempo, così semplice che, a volte, basta una piccola miccia ad innescarla. Come scrive l’autrice sulla protagonista: «Akhila capì che a queste donne poteva decidere di raccontare ogni cosa. I suoi segreti, i desideri e le paure. In cambio avrebbe potuto domandare loro tutto quello che avesse voluto».
Così quel personaggio del film, che mi era rimasto tanto oscuro, all’improvviso acquista una forma più definita, forgiata dalla sua silenziosa lettura, inquadrata appena dalla telecamera.
Il regista o, forse, gli sceneggiatori e le sceneggiatrici le hanno messo tra le mani il libro di una autrice indiana ed io ci vedo un richiamo esotico che mi dà l’idea di un desiderio di estraneazione dal mondo occidentale in cui si ritrova a vivere il personaggio del film, la cui cupezza è resa dalla scelta di luci sempre piuttosto soffuse, poche inquadrature all’aperto, e spesso di sera; mi ha dato l’idea di una voglia di fuga che la donna, da poco vedova, coltiva, lontano dal tempo di un solitario Natale da trascorrere ad accudire la madre malata, preoccupata per una figlia all’emisfero opposto che non riesce a sentire.
Il libro narra del viaggio di una donna ed io ci vedo il riferimento alla figlia, partita per le favelas brasiliane, alla ricerca di quel luogo e di quel tempo in cui sente che “deve andare”, con continui spostamenti da un punto all’altro dell’immenso territorio amazzonico e da un punto all’altro della sua interiorità, dondolante tra un richiamo spirituale e uno terreno e, dunque, alla ricerca, come l’etimo della parola viaggio, di tutto ciò che serve per andare…
È un libro tutto al femminile, esattamente come il film che snoda la sua trama attorno al fuso di donne molto diverse – suore, madri, di nazionalità italiana, francese, brasiliana, donne benestanti e molto povere, in cui la genealogia materna, in particolare, riveste un ruolo centrale, poiché la storia vive tra la nonna, la mamma e la figlia e poiché la maternità si mostra in tutte le sue forme evolutive, come la gravidanza e la crescita di un bambino, e nelle sue forme più atroci, come la perdita di un figlio -.
C’è ancora un libro che viene ripreso, in modo più visibile, nel film e, questa volta, tra le mani della protagonista che, come dicevo, alla ricerca della sua spiritualità, prova il percorso del cristianesimo, seguendo una suora nell’opera di evangelizzazione del popolo brasiliano, quasi come se anche lei venisse, per la prima volta, a contatto con i dogmi della religione cattolica.
Dunque, lei legge Attesa di Dio (Simone Weil, Adelphi, 2008), contenente la raccolta di lettere che l’autrice scambia tra il 1941 e il 1942 con il suo amico e confidente Joseph-Marie Perrin, un padre domenicano, e a cui la giovane filosofa affida la sua attesa, il suo stato di guardia spirituale, appunto, di ricerca, come avviene per la protagonista. Il libro le viene donato da un amico, con affettuosa dedica e un piccolo fiore appassito, segnando il momento in cui la ragazza prova a conciliarsi con Dio e la religiosità della suora, sua compagna di viaggio, ma anche il momento in cui lei sceglie di scoprire il suo “essere terra” e decide di proseguire da sola il cammino, entrando in contatto con una dimensione brutalmente terrena, rappresentata dalla povertà delle favelas in cui va a vivere, e beatemente spirituale, rappresentata dalla gioia delle relazioni umane, dall’affetto e dai giochi che scopre in quei posti primitivi.
L’intreccio tra plot di libri e plot del film potrebbe continuare, ma il cuore di questo ricamo vorrei fosse fatto di piccoli indizi che, per rispettare la volontà della regia, si percepiscano appena: la scelta di quei libri che finiscono quasi per sbaglio nell’obiettivo della cinepresa deve dire molto poco a chi guarda, deve restare una chiave interpretativa, ma non la chiave.
Ed inoltre, sarebbero moltissimi gli esempi di “mashup” tra cinematografia e letteratura che si potrebbero fare: come ho già detto, i libri entrano a volte nei film con assoluta centralità, altre volte – le mie preferite – rimangono in sordina.
Io ho scelto il caso di questo film, perché ho amato il linguaggio non verbale con cui il regista ha raccontato i suoi personaggi, ho amato la chiave di lettura affidata ai libri messi nelle mani delle due donne – questo gioco di radici semantiche, lettura/libri, mi diverte moltissimo – e poi semplicemente perché è uno degli ultimi film che ho visto!
Articolo di Gemma Pacella
Nata a Foggia e laureata in Giurisprudenza con una tesi dal titolo “Il linguaggio giuridico sessuato: per la decostruzione di un diritto sessista”. Attualmente svolgo un dottorato di ricerca in Management and Law. Studio il femminismo che nel tempo e nello spazio attraversa la nostra civiltà.