Conobbi il cinema di Michael Moore molto tempo fa, a un cineforum del Centro Culturale San Fedele a Milano, un laboratorio del pensiero, che consiglio a tutte e tutti di frequentare almeno una volta nella vita. Mi capitò di assistere alla proiezione del documentario Roger and me, presentato da un critico cinematografico tra i più acuti e sottili, scomparso prematuramente, Ezio Alberione, una di quelle persone che, con una semplicità disarmante e una grande umiltà, riescono ad aprirti la mente, a farti pensare e a darti stimoli continui, senza che quasi tu ti accorga della loro immensa cultura.

Doveva essere il 1990 e fu per me una folgorazione. Questo regista, così diverso, anche fisicamente, dai modelli imperanti, sovrappeso e quasi goffo nei suoi movimenti, aveva realizzato un piccolo capolavoro. L’idea era stata quella di intervistare il Presidente della General Motors, Roger Smith, responsabile dei tagli di trentacinquemila posti di lavoro a Flint, nel Michigan, per mostrargli le conseguenze nefaste di quella decisione sulla realtà locale e sulla vita delle persone. L’idea geniale consisteva nel raccontare per tutto il documentario, con una denuncia sociale fortissima ma dal tono ironico, gli svariati e multiformi tentativi, sempre falliti, di incontrarlo. La reazione provocata nel pubblico era stata di simpatia e solidarietà con questo personaggio strano e coraggioso. La mia curiosità per il regista, che poi scoprii essere anche attore, sceneggiatore, conduttore televisivo, giornalista e scrittore, nato il 23 aprile del 1954, fece sì che non lo perdessi d’occhio e lo seguissi non appena un suo documentario o un suo film raggiungevano l’Italia. Roger and me, autoprodotto con risorse economiche proprie dalla casa di produzione di Moore, dal nome significativo Dog eat dog Films, con un budget da 200mila dollari, ottenne un successo di critica e di pubblico inaspettato, fruttò sei milioni di dollari e i premi delle più grandi associazioni critiche statunitensi. Gli anni Novanta furono dedicati da Moore a show televisivi e alla scrittura di libri, tra cui Downsize This! Random Threats from an Unarmed American, in cui il poliedrico statunitense mise sotto inchiesta l’intero sistema americano, che tagliava posti di lavoro e delocalizzava la produzione dove il costo della mano d’opera era minore. Negli spensierati anni del neoliberismo e della deregulation l’eccentrico figlio degli anni Cinquanta ci stava già mettendo in guardia sulle contraddizioni del capitalismo. Nel 2001 scrisse Stupid White Men, in occasione dell’elezione di Bush, che però, dopo la tragedia dell’11 settembre, non fu pubblicato dall’editore Harper Collins. Ciò diede origine a una protesta dei librai, che ne consentì alla fine la pubblicazione, nel 2002, senza tagli. Fu un best seller. Sempre nel 2002 Moore realizzò Bowling for Columbine, un documentario sulla sconsiderata abitudine, legittimata dalla Costituzione, degli americani di possedere le armi e sulla violenza nella società, partendo dalla strage di innocenti perpetrata in una scuola da due studenti con problemi di relazioni interpersonali.

Anche questa volta nello spettatore Michael Moore fu capace di suscitare una reazione indignata usando il suo tono leggero. Come dimenticare l’inizio del documentario, una rapina filmata dalla telecamera di una banca, seguita da un dialogo surreale tra il regista e il suo direttore che, per fargli aprire presso l’istituto di credito un conto corrente, gli propone in regalo un fucile? Con il grande faccione simpatico che conosciamo, il regista di Flint è tutti e tutte noi quando prova a far ragionare il suo interlocutore sull’assurdità di quella proposta. Bowling for Columbine vinse all’unanimità la cinquantacinquesima edizione del Festival di Cannes, seguito da altri riconoscimenti: il premio del pubblico al Festival di San Sebastian, il titolo di miglior documentario ai National Board of Review Awards 2002 e agli Independent Spirit Awards 2003. Ma il culmine lo raggiunse con l’Oscar, il 23 marzo del 2003. Anche questa volta ottenne un inaspettato successo di pubblico. Il documentario avrebbe incassato venti milioni di dollari a livello nazionale e complessivamente cinquanta milioni di dollari. Memorabile la dichiarazione del regista in occasione della Notte degli Oscar: «Viviamo in un’epoca di elezioni fittizie che fanno eleggere un presidente fittizio. Viviamo in un’epoca in cui un uomo ci manda in guerra per motivi fittizi. Noi siamo contro questa guerra, signor Bush. Si vergogni, signor Bush. Si vergogni». Nel 2004 con Fahreheit 9/11 affrontò il tema dell’attacco alle Torri Gemelle, incontrando non pochi ostacoli di distribuzione in patria, ma vinse, per la seconda volta nella storia con un documentario, la Palma d’oro a Cannes.

Dal 2007 la sua attenzione si dedicò a tematiche politico-sociali, dapprima, profeticamente, con Sicko, descrivendo il sistema sanitario in diverse parti del mondo e indicando quello pubblico italiano come un modello (proprio mentre noi avvertivamo gli effetti del suo smantellamento) e poi con quella che per me resta una lezione esemplare sui mali del capitalismo selvaggio contemporaneo, Capitalism, a love story.

Questo film, forse meno conosciuto degli altri, è la summa del pensiero di Moore e alterna il registro documentaristico nei luoghi dei pignoramenti delle case delle persone rovinate dalla crisi dei mutui subprime a quello grottesco in cui, dopo avere interpellato importanti figure di sacerdoti e vescovi sul sistema capitalistico, mette in bocca a Gesù le parole di un Vangelo del mercato e dell’avidità, con un effetto molto più potente di quello di tanti sermoni. Attraverso filmini amatoriali la voce narrante del cineasta di Flint ci riporta agli anni della sua infanzia e adolescenza e ci racconta la nascita del ceto medio negli Usa, la vita di una famiglia che poteva permettersi col solo reddito del marito la casa di proprietà, le vacanze, una automobile, gli studi dei figli presso una scuola cattolica e l’Università. E tutto questo grazie ad un sistema di tassazione dell’1% più ricco della popolazione al 90%. Guai a dirlo, però, nei nostri Manuali di Economia politica. Correremmo il rischio di dare un’immagine distorta rispetto a quella narrata abitualmente degli Stati Uniti, regno del self made man e dell’assenza dell’intervento dello Stato nell’economia. Eppure basta leggere Krugman, in La coscienza di un liberal, per avere tutti i riferimenti del caso. Nei suoi Super8 amatoriali Michael Moore ci descrive un capitalismo dal volto umano e si interroga su che cosa siamo diventati in questi ultimi trent’anni. Esilarante l’incontro con gli esperti dei titoli derivati o il video in cui un importante docente è chiamato a spiegarli: pare che nemmeno coloro che li hanno inventati, da buoni apprendisti stregoni, sappiano che cosa si celi dietro le formule matematiche incomprensibili che sono state tra le principali responsabili di una pandemia finanziaria di cui ancora tutto il mondo porta le cicatrici e risente degli effetti collaterali delle cure. Terribile invece la descrizione della sofferenza delle persone a cui sono portate via le abitazioni o il dialogo con l’addetto all’agenzia “avvoltoi”, vultures (nome che ha assonanza con le volture catastali italiane nelle vendite immobiliari) in inglese, che si occupa di comprare a bassissimo prezzo le case lasciate libere da coloro che se ne sono dovuti andare a vivere nelle tendopoli. Più efficace di mille discorsi sul rapporto tra pubblico e privato in economia il racconto della privatizzazione delle carceri, dello scandalo che ne è seguito, della violazione continua dei diritti dei poveri minori che vi erano stati rinchiusi per una canna o una lite violenta con un genitore. Inevitabile che il perseguimento del profitto nella gestione di un servizio, che deve rimanere pubblico per definizione, porti alla fine ad uno scandalo e alla corruzione. Sulla polizza del contadino morto, una delle ultime trovate delle multinazionali per speculare sulle morti premature dei loro dipendenti e sulla condizione dei piloti in Usa non mi soffermo, ma rinvio all’opera del regista, efficacissima per suscitare un dibattito in classe con le nuove generazioni dei/delle nostri/e studenti, su ciò che deve essere pubblico e ciò che deve spettare ai privati e sulle ragioni di queste scelte, sull’annoso problema della distribuzione del reddito, tabù in quest’epoca di individualismo e arrivismo che ha contagiato tutti e tutte. L’uso della testimonianza diretta colpisce, stimola il pensiero e nelle classi suggerisce dibattiti che sono sempre molto interessanti. Ma Moore non si limita alla denuncia di ciò che sta andando male e all’individuazione delle figure dei politici che hanno impresso questa deriva al capitalismo, tra cui Reagan, l’attore di film di serie B e di spot pubblicitari diventato Presidente degli Stati Uniti. Intervista membri di una vera cooperativa che affronta la distribuzione del reddito in chiave opposta a quella del mercato e retribuisce dirigenti ed operai allo stesso modo nello spirito molto vicino alle cooperative descritte nella nostra Costituzione, purtroppo oggi sostituite da organizzazioni che sono più simili ai sistemi di sfruttamento e servitù della gleba di medievale memoria. E poi la macchina da presa di Moore segue l’attesa per le elezioni presidenziali che saranno vinte da Obama e ci infonde speranza in un cambiamento di questo capitalismo malato. Ma le scene migliori sono quella in cui Moore si reca a vedere il luogo in cui è conservato il testo della Costituzione degli Stati Uniti d’America per cercare la parola capitalismo e invece ci trova la parola democrazia e poi quella finale in cui, dopo avere tentato di arrestare, da bravo cittadino americano, i responsabili della crisi dei mutui subprime, circonda le banche con nastro adesivo come per circoscrivere il luogo di un delitto e con il megafono invita i banchieri a costituirsi. In questo film c’è una chicca bellissima, un documento storico da sottoporre all’attenzione delle nostre classi: si vede Franklin Delano Roosevelt, il Presidente che in occasione degli scioperi nelle fabbriche aveva schierato le forze di polizia per proteggere i lavoratori, leggere la proposta di una integrazione della Costituzione statunitense, che vi introduce i diritti sociali, il diritto all’istruzione, il diritto alla sanità, sulla falsariga delle Costituzioni italiana e tedesca. Una proposta di revisione che non sarebbe mai stata approvata, anche per la prematura morte del Presidente del New Deal.
Where to invade next, nel 2015, che, a dispetto del titolo non parla dell’invasione militare ma di quella del pensiero neoliberista che incoraggerà la distruzione dei diritti sociali negli Stati che ne avevano fatto il pilastro delle loro comunità, è stato accolto molto bene al Festival di Toronto e ha ottenuto un notevole successo di pubblico, accanto alle numerose critiche di chi non sopporta questo paladino dei diritti delle persone più deboli. I suoi ultimi docufilm sono stati Michael Moore in Trumpland, un monologo recitato nella Contea di Clinton, enclave repubblicana dell’Ohio, e Farenheit 11/9, il cui titolo ricorda la data delle elezioni di medio termine di Trump.
Capitalismo, una storia d’amore si chiude con un invito del regista agli spettatori del film a unirsi a lui nella sua battaglia per un capitalismo che si coniughi con la parola democrazia. Il messaggio è quello di un attivista a mobilitarsi. Il lavoro sul film, accompagnato da schede didattiche-stimolo, che facciano approfondire le ragioni della crisi del 2007/2008, i soggetti responsabili della stessa, i mercati finanziari, la loro possibile regolamentazione e i titoli tossici, lo Stato sociale e il suo smantellamento, le imprese di rapina e le imprese “umane”, il sistema fiscale come mezzo di redistribuzione della ricchezza e creazione di un ceto medio, può essere un valido aiuto per fare innamorare le nostre e i nostri studenti di un sistema capitalistico diverso dall’attuale, mostrando loro che c’è stato e che è ancora possibile un sistema che si ispiri, nelle nuove forme dettate dai tempi che stiamo vivendo, ai valori che ci sono stati consegnati dai nostri Padri e dalle nostre Madri Costituenti.
Articolo di Sara Marsico
Abilitata all’esercizio della professione forense dal 1990, è docente di discipline giuridiche ed economiche. Si è perfezionata per l’insegnamento delle relazioni e del diritto internazionale in modalità CLIL. È stata Presidente del Comitato Pertini per la difesa della Costituzione e dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano. I suoi interessi sono la Costituzione, la storia delle mafie, il linguaggio sessuato, i diritti delle donne. È appassionata di corsa e montagna.