Carissime lettrici e carissimi lettori,
liberiamoci! Liberiamo in giro tutte le metafore possibili per celebrare il passato e il presente, la sopraffazione di chi ci rendeva obbedienti del silenzio e la micidiale presenza dell’invisibile aggressività biologica. Liberiamoci dalle costrizioni e insieme liberiamo la fantasia. Evadiamo dai brutti pensieri e ci ritroveremo a frequentare le strade e i luoghi del mondo perché tutto si trasforma, tutto scorre.
Celebriamo dunque tutte le liberazioni, libera nos a malo, liberaci dalla negatività!
Ma come si fa? Noi umane e umani, e non siamo in grado di sapere in che modo comunichino tra loro gli altri esseri viventi, spieghiamo la realtà attraverso il linguaggio. La Parola, quella che si è fatta anche carne, è la più concreta delle definizioni.
“Quando io uso una parola – disse Humpty Dumpty con tono indignato -, essa significa esattamente quello che io voglio significhi, né più né meno. Ma bisogna vedere – disse Alice – se voi potete far dire alle parole tante cose diverse. Bisogna vedere – disse Humpty Dumpty – chi è il padrone, tutto qui”. Un battibecco fantastico che sa di logica, di matematica e soprattutto di linguistica perché un logico-matematico e sicuramente grande amico della linguistica, quella di Saussure e di Wittgenstein, è il pastore anglicano Charles Lutwidge Dodgson, in arte Lewis Carroll, che è anche l’inventore di Alice nel Paese delle Meraviglie e del suo viaggio Attraverso lo specchio dove troviamo il nostro personaggio, un uovo arrampicato costantemente su un muretto, trovato da Alice in fondo a un pozzo, tra le mille verità della fantasia.
Liberazione viene dal latino, liberatio, e seguendo il vocabolario è l’atto del liberarsi o di essere liberato, inteso anche in senso morale (da un rimorso, da una colpa) o in senso sociale e politico (il movimento di liberazione delle donne). Ma le parole, come detta il buffo amico di Alice sono a loro modo equivoche e non dicono sempre la stessa cosa. Così allora liberazione prende la strada della significazione scientifica e in chimica significa la separazione di un elemento da un corpo o l’isolamento di una molecola, il suo stato libero, mentre in fisica indica l’energia liberata. Da un’escursione nella tecnica veniamo a sapere che liberazione riguarda un atteggiamento nella frenatura di un convoglio ferroviario e in endocrinologia è la traduzione dalla definizione inglese di releasing factor, il fattore di liberazione degli ormoni maschili.
Liberazione per noi nati in Italia oggi è soprattutto la festa: la celebrazione per un popolo della fine di una guerra imposta e della dittatura che l’ha permessa, del blocco dell’occupazione nazista da parte di tante donne e di tanti uomini di tutte le età e di tante convinzioni politiche (con le varie brigate, Garibaldi, Matteotti, Giustizia e Libertà) raggruppate nel Cnl, il Comitato di liberazione nazionale, con una solida base comune: l’opposizione al fascismo, alla dittatura subita, a tutte le dittature e prepotenze imposte e a quella guerra.
La Liberazione come ricorrenza condivisa dalla democrazia da cui è nata, che celebriamo oggi per la prima volta da casa e che ricordiamo anche qui con più di un articolo, uno dedicato a questa ricorrenza e un altro in ricordo della resistenza a Caserta. É la liberazione del 25 aprile 1945, indetta come festa in Italia un anno dopo, è la data dell’avvio da Milano della rivolta nazionale, è la scintilla dalla quale poi è scaturita la nostra democrazia.
«C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. […] Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni» (Calvino Il sentiero dei nidi di ragno).
La parte terribile di quella lotta gli stessi ragazzi e ragazze l’avvertono, l’hanno guardata e hanno capito nel verso giusto, sapendo del suo lato orribile per il sangue versato, la morte vista, il prezzo pagato dalla loro giovane età, ma inevitabile: «Era un gioco molto bello, questo della guerra. Io avevo diciott’anni e mi ci sono divertito assai. Era divertente mettersi lo Sten a tracolla e le bombe a mano alla cintola. E ancora più divertente sparare. Ma, vedete, non era un gioco la guerra. Ci siamo sbagliati. Guardate i miei occhi vitrei, la bava sanguigna che mi esce dalla bocca, e quest’orribile colore giallo sparso per tutto il mio corpo! Credevamo di giocare, ed era invece una cosa terribile, spaventosa! Smettete, ragazzi, voi che siete in tempo!» (Carlo Cassola, Fausto e Anna).
Oggi, sabato 25 aprile 2020 siamo dentro casa, ma festeggeremo con il Bella ciao collettivo dalle finestre e dai balconi d’Italia, tutte e tutti insieme alle 15 in punto. Siamo dentro per preservare noi stesse e noi stessi dalla malattia e ci sentiamo invece imprigionati dentro un linguaggio di guerra. Ma dobbiamo liberarci dalla guerra e adottare il linguaggio della cura. Dobbiamo prendere atto di un concetto fondamentale: «Noi non siamo in guerra, ma siamo in cura», così come ha scritto un frate della comunità di Bose, in Toscana.
Ci si sta imponendo invece un “linguaggio isterico e senza controllo”, come ha titolato una notizia, battuta dall’Ansa a metà di questo mese, che riportava l’intervista a Gianfranco Marrone, docente di semiotica, non a caso, a Palermo. La televisione, i giornali ci parlano costantemente di nemico, di battaglia, di armi, di soldati e di esercito, di lotta, di vinti e vincitori, di sconfitti e poi di eroi mediche e medici, infermiere e infermieri ai quali e alle quali invece che armi bisognerebbe dare protezione e sanificazione sul luogo del lavoro Tutto questo appartiene alla guerra non alla cura di una malattia che ci fa stare male e alla quale bisogna dedicarsi nel più scientifico (e umano) dei modi.
Non si parla praticamente mai nei media di: compassione, aiuto, prevenzione e accortezza, ma le raccomandazioni hanno il sapore di un ordine dato a un esercito non di persone, di uomini e di donne, di bambine e bambini, ma di soldati. Si devono: “mantenere le distanze” (e chissà per quanto tempo ancora), bisogna “stare isolati/e” negli interni, non ci si deve permettere di “condividere”, non solo strette di mano e abbracci (giustamente). Mentre, ahinoi, nessuno ci incoraggia, in questo clima del sospetto, e ci dice che quando si esce per adempiere agli impegni permessi, con tutte le precauzioni prese (mascherine, guanti ecc.), il saluto e il sorriso, se non anche alcune parole gentili dette a dovuta distanza, non sono contagiose, anzi, lo sono, ma solo nella loro accezione metaforica, possono essere positivamente virali, come nei social, e aiuterebbero ciascuna/o di noi a rendere più leggero questo obbligo di distanziamento sanitario.
Si diceva di parole, di linguaggio, di Alice che attraversa un pozzo e uno specchio per arrivare alla sua Meraviglia (“guarda a tutt’occhi, guarda” scrive sapientemente Verne all’inizio del suo Michele Strogoff , alla sua curiosa ricerca per crearsi lei, piccola regnante, la sua Grammatica della fantasia. Il titolo, ve lo ricorderete, è quello di uno dei tanti libri di Gianni Rodari, il maestro per eccellenza della fantasia e della parola, dell’immaginazione, che celebriamo, in questo anno di resistenza, per una doppia ricorrenza: del centenario della nascita (1920) e dei quaranta anni dalla sua scomparsa a Roma, anche lui ad aprile, nel 1980, dopo un’operazione chirurgica che non doveva essere complicatissima.
Rodari delle Favole al telefono comprese fortemente l’importanza delle parole e l’effetto del significante sul significato, nella splendida sequenza edificata dal maestro della linguistica moderna Ferdinand de Saussure. Ci chiediamo oggi cosa e come avrebbe raccontato di questo virus il maestro, lo scrittore, l’intellettuale Rodari alle bambine e ai bambini. Sicuramente li e le avrebbe tranquillizzati/e facendosi raccontare le loro emozioni, inventando storie “bislacche” (un aggettivo tanto caro a un altro grande poeta, Ripellino) non per riderci su, ma per demotivarne, sdrammatizzando, la paura e fornendo, invece, elementi per proteggersi e mantenersi in salute.
Il Lessico della Tenacia come sottotitola la trasmissione radiofonica La lingua batte (su radio3 la domenica mattina poco prima delle 11.00) è la strada esatta da percorrere. Deve essere questo il linguaggio da usare oggi per un’informazione corretta. Un lessico per salvarsi, che non ricorre a parole adatte a una battaglia da combattere, per armarsi a una guerra contro un nemico. “Concepire l’epidemia come un’invasione – ha scritto Giancarlo Sturloni, giornalista scientifico – ha già portato le nazioni europee a barricarsi dentro i propri confini abdicando ai trattati di Schengen, nonostante l’Oms avverta che misure del genere rischiano di peggiorare la situazione”. In più il linguaggio di guerra, che è lo stigma che accompagna ogni epidemia sempre in cerca dell’untore provoca, secondo lo stesso autore, un’esclusione di genere estromettendo di fatto le donne, sempre tenute lontane dalla guerra e dalle battaglie, dalle stanze delle decisioni importanti.
Ci vuole accoglienza, capacità di comprensione, desiderio di guarire e di far guarire. Ci vuole gioia, che è il termine scelto da Dacia Maraini, la prima intervistata per spiegare il lessico della tenacia. Quella gioia – racconta l’autrice di Marianna Ucrìa – che provo durante un sogno ricorrente mentre, dopo essermi disperata in mare stanca di nuotare, vedo improvvisamente la riva e rinvigorisco improvvisamente, non sentendo più dolore alle gambe, ormai diretta alla spiaggia che credevo perduta”. La gioia è lo scopo! Giampaolo Simi, giallista di valore, caro a editori di qualità, chiama contagio delle parole il suo appuntamento giornaliero sul quotidiano Il Tirreno collegandosi positivamente a quel linguaggio è un virus della canzone di Laurie Anderson.
Coincidono le parole dei tempi. Lo sanno bene le scrittrici e gli scrittori perché sono il loro unico mezzo di lavoro, da quando usavano la penna, o i tasti della macchina da scrivere o la tastiera di un computer. Le parole possono risuonare come coincidenze e l’oggi, la nostra Liberazione può ritrovarsi nelle parole di uno scrittore che la racconta, come Beppe Fenoglio che di libri sui partigiani e sulla loro vicenda ne scrisse molti. «Non avrei mai creduto che avremmo dovuto passare un secondo inverno» dice Milton, il protagonista del romanzo Una questione privata all’anziana donna che lo aveva accolto, consegnandoci un dialogo che sorprende per la coincidenza attualissima. «E invece? Invece quando sarà finita? Quando potremo dire fi-ni-ta? Maggio. Maggio!? — Ecco perché ho detto che l’inverno durerà sei mesi. Maggio — ripeté la donna a sé stessa. — Certo che è terribilmente lontano, ma almeno, detto da un ragazzo serio e istruito come te, è un termine. È solo di un termine che ha bisogno la povera gente. Da stasera voglio convincermi che a partire da maggio i nostri uomini potranno andare alle fiere e ai mercati come una volta, senza morire per la strada, la gioventù potrà ballare all’aperto, le donne giovani resteranno incinte volentieri, e noi vecchie potremo uscire sulla nostra aia senza la paura di trovarci un forestiero armato. E a maggio, le sere belle, potremo uscire fuori e per tutto divertimento guardarci e goderci l’illuminazione dei paesi».
Essendo finito per me il tempo disponibile alla consegna di questo editoriale, lascio a voi questa volta la curiosità e il piacere di scoprire gli articoli di questo numero della rivista e come sempre vi auguro tutto il bene possibile
Una buona lettura a tutte e a tutti
Editoriale di Giusi Sammartino
Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
Brava Giusi, fantastico il tuo pezzo, mi piace ogni tuo pensiero. Grazie!
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Giulia è così bello quello che mi dici che non riesco che a pensare a un grande grazie! Davvero con forza come dire…è bellissimo. Un caro saluto e scusami del ritardo, ho letto ora
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Gli articoli di Giusi Sammartino, come anche i suoi libri, ti calano nelle problematiche che sta affrontando facendoti sentire partecipe delle sue analisi. È come se fossi tu a pensare, ad entrare in quell’argomento senza mediazioni. Grande dote, credo soprattutto, data dalla sua matrice di insegnante. Essere sempre diretta, chiara, semplice ma mai banale o semplicistica. Il suo pensare è frutto di studio e di attenta analisi della realtà che la circonda. Ma soprattutto Giusi ha un rapporto appassionato con le persone che incontra e con gli ambienti che attraversa .
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Carissima Giustina ti ringrazio di quello che mi scrivi è anche una bella dichiarazione di affetto. So quanto sei capace di donarlo. Dire che ciò che scrivo è chiaro e profondo è davvero un complimento importante Poi il fatto che il/la lettrice si immedesimi con le mie parole mi fa sentire da un lato piccola, per l’enormità della cosa, ma anche immensamente vicina al cielo (per me sempre laicamente inteso) per la felicità che mi provoca. Grazie Giustina davvero con tutto il cuore e ricevere queste parole da te per me non è poca cosa! Ti abbraccio ricordando quella bella giornata in cui grazie a te il mio libro “Siamo qui” è arrivato a Salerno
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