La leadership educativa in ottica di genere

Il tema della femminilizzazione della dirigenza scolastica in Italia rappresenta un fenomeno alquanto recente e con pochi studi a riguardo. Secondo un’indagine Istat del 2012 il 78.74% del personale della scuola statale (Ata compresi) è donna, come il 64,6% del corpo docente. Il rapporto Istat La scuola in cifre del 2012 aggiunge che il numero totale delle dirigenti ammonta a 4.730 unità e rappresenta il 51.8% dell’intera categoria. Sembra quindi che il numero di donne impiegate nella scuola sia in aumento a tutti i livelli e in particolar modo a livello di dirigenza rappresenti «una breccia nel soffitto di cristallo» (Dello Preite, 2016) e una conquista a livello di segregazione verticale in rispetto al Rapporto italiano in preparazione alla IV Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino del lontano 1995. Sono molte le ricerche che dimostrano come la ripartizione equa tra i generi ai vertici delle organizzazioni permetta di raggiungere performance e risultati migliori e, partendo dal presupposto che la leadership educativa è «un dispositivo dinamico e in continua evoluzione costituito da una serie eterogenea di fattori interconnessi tra loro» (Domenici & Moretti, 2011), capiamo che il genere non può essere escluso o assimilato ad altri fattori nello studio della dirigenza scolastica, ma merita un’area di ricerca dedicata. Nell’ottica di attuazione di una prassi formativa consapevole e responsabile, mettendo al centro gli aspetti emotivi e valoriali con un maggiore coinvolgimento delle persone che operano nell’organizzazione rifacendosi a un’idea di soggetto attivo (Barzanò, 2008; Morettti, 2011) si evince che un approccio gender blind, ossia dove il genere del/la dirigente sia considerato un fattore neutro, non incidente e quindi poco significativo, pone dei grossi limiti allo sviluppo di una leadership educativa inclusiva e moderna. Conferire credibilità e rilevanza alle differenze e alle specificità di ciascun genere è divenuto oggi un obiettivo irrinunciabile in quanto ritenuto strettamente correlato a una crescita socio-culturale ed umana realmente inclusiva e democratica (Loiodice, Plas & Rajadell, 2012). Inoltre, dal punto di vista degli studi di genere, il rapporto sulle differenze di genere del 2020 ci dice che l’Italia copre la 76esima posizione su 149 Paesi del mondo (perdendo sei posizioni dal 2019) per la sua capacità di colmare le differenze di genere e denota una particolare arretratezza nel campo della partecipazione all’economia, educazione, salute e partecipazione politica femminile.
Una breve panoramica storica
La dirigenza scolastica nella scuola italiana non è un concetto nuovo. Fin dal 1859, quando il concetto di istituzione scolastica ha cominciato a delinearsi attraverso la Legge Casati, con l’intento di disciplinare l’istruzione su tutto il territorio nazionale, compaiono i termini direttore e preside. La lingua utilizzata nelle Leggi e nei Decreti-legge emessi è una lingua giuridica prettamente maschile: la variante femminile non è mai presente al di fuori dei casi in cui si voglia sottolineare l’incapacità e l’inammissibilità delle donne a determinate posizioni. Durante la legislazione Casati i presidi dei licei sono nominati dal Re e la nomina viene conferita solo a coloro che «dimostrino di possedere autorità morale, esperienza nel governo della gioventù e dell’insegnamento e che siano in grado di trasmettere allo staff e ai discenti un forte senso di autorità e obbedienza verso lo Stato.» (Dello Preite, 2016). Nel 1906 viene predisposto un corso di formazione universitario biennale per chi è interessato a ricoprire la carica, rappresentando il primo e vero corso di formazione della dirigenza scolastica. È però nel 1923 con la Legge Gentile che la scuola inizia a strutturarsi intorno a un modello verticale che tocca il suo apice nel periodo fascista. Dal dopoguerra fino agli anni Settanta qualcosa si è mosso ma serviranno ancora 40 anni per arrivare a parlare di leadership educativa come presupposto indispensabile per costruire una scuola efficace. Moretti (cit.) spiega che una vera riflessione sulla leadership scolastica ha avuto avvio in ritardo in Italia rispetto al mondo anglosassone, dal quale proviene il maggior numero di studi. La seconda metà degli anni Ottanta si è focalizzata sull’apprendimento con il delineamento di diversi stili fino agli anni Novanta in cui parole come leadership collaborativa ed empowering sono entrate nel vocabolario comune. A livello legislativo la figura e i ruoli della dirigenza scolastica sono passati attraverso emendamenti e leggi che ne hanno mutato la natura fino alla Legge 15 marzo 1997 n. 59, comunemente chiamata “dell’autonomia”, che pone le premesse per una complessiva semplificazione del sistema nazionale. Questa legge segna dunque il passaggio da un sistema educativo centralizzato a un progetto educativo che riconosce autonomia gestionale ai singoli istituti introducendo importanti documenti come il Pof (Piano dell’Offerta Formativa) che poi la Legge della “buona scuola” (Legge 107/13) muterà in Ptof (Piano Triennale dell’Offerta Formativa). I cambiamenti maggiori che questa legge porta con sé però sono quelli legati alla figura del/la Dirigente Scolastico/a e al suo ruolo, grazie a importanti novità come un sistema di controllo e di valutazione della dirigenza (D.L. 286/99) ed un’estensione del principio di fiducia verso il/la dirigente attribuendo maggiori responsabilità e interrompendo la separazione netta tra amministrazione e politica tipica degli ultimi anni.
Da una prospettiva di genere la legislatura ha parlato sempre in maniera chiara: la dirigenza scolastica non è cosa per donne. Nel 1926 le donne non possono avere accesso ai concorsi a cattedra di lettere, latino, greco, storia, filosofia, economia politica nei licei e italiano e storia negli istituti tecnici in quanto ritenute non in grado di infondere lo spirito della romanità. Nella Legge Casati troviamo la specificazione dell’assegnazione delle scuole femminili a un corpo docente femminile in quanto «donne portate intrinsecamente a impartire l’insegnamento di lavori donneschi alle rispettive alunne» (Gazzetta Repubblica Italia). È chiaro che il sessismo insito nella lingua, come espressione di queste leggi, e nel contenuto, ovviamente ha condizionato i numeri e i ruoli delle donne nella scuola, andando a limitare l’accesso femminile alla carriera scolastica. Con il regime fascista gli spazi scolastici destinati alle donne vengono ristretti esponenzialmente insieme a diritti civili e libertà personali, ma a causa del regime militare coatto attuato da Mussolini e Hitler buona parte dei docenti e dirigenti uomini viene chiamato alle armi. Nonostante l’invito del Regime alle donne di rimanere a casa per i lavori domestici, il Ministero si trova costretto a supplire alla chiamata militare integrando le donne nella scuola. Nel 1942 il 29.9% delle dirigenti scolastiche è donna e tre anni dopo, nel 1945, le donne italiane per la prima volta sono ammesse al voto. Inoltre, un aspetto sociale interessante è il progressivo abbandono da parte degli uomini della carriera scolastica che va a delinearsi con maggiore forza come una carriera femminile.
Da qui in poi la storia nazionale cambia, ma sicuramente le azioni educative attuate dagli anni Venti agli anni Ottanta rappresentano un periodo di lunga segregazione delle donne con successiva esclusione da posizioni di vertice di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze e di cui possiamo leggere da un punto di vista socio-culturale nel celebre Lettera a una professoressa di don Milani, manifesto di una scuola che «cura i sani e uccide i malati», simbolo di un’esclusione che si continua a respirare nella scuola moderna. Il primo rapporto sulla femminilizzazione del sistema scolastico viene pubblicato nel 1999 e conferma una quasi totale femminilizzazione della scuola dell’infanzia per calare progressivamente fino alla scuola statale superiore. Si denota il primo sorpasso ufficiale del genere in quanto nel 1999 le direttrici didattiche di ruolo delle scuole primarie sono 2137 su un totale di 4017 posti (53,2%). Le neo-dirigenti provengono da facoltà affini al mondo scolastico, nella maggior parte dei casi lettere, lingue e pedagogia. È l’inizio di un trend che a fasi alterne rimane stabile fino alla Legge sull’autonomia scolastica (537/93 e 59//97). Tale riforma evidenza fin da subito la necessità di mutare la struttura scolastica rimasta intatta fino agli anni Settanta per aprirsi a una forma di governo scolastico. Ecco che termini come governance e leadership scolastica entrano nei dizionari delle istituzioni scolastiche. Parallelamente la ricerca scientifica approfondisce la tematica e in pochi anni si crea una buona letteratura sull’argomento per guidare le istituzioni verso questa autonomia che entra in vigore il 1° settembre 2000.
La Legge Bassanini sancisce a ogni scuola autonomia organizzativa, didattica e di ricerca nonché di sperimentazione e di sviluppo insieme alla qualifica dirigenziale ai capi d’istituto delle scuole che godono di personalità giuridica. È una vera rivoluzione che porta la scuola a dialogare con un numero maggiore di utenti e stakeholders tra cui famiglie e reti di enti locali, inoltre anche la Legge 107/13 riprende la questione dirigenza ponendo al centro la figura della leadership scolastica. Nel momento in cui le persone sono in relazione tra di loro, lasciandosi alle spalle il concetto di gerarchia all’interno della scuola e abbracciando quello di distribuzione e collaborazione orizzontale, il concetto di potere stesso viene riconfigurato. La scuola diventa un sistema dinamico e collaborativo, un laboratorio. È all’interno di questa visione che Moretti (cit.) parla di leadership educativa diffusa come approccio in cui la leadership stessa denota la figura del/della dirigente scolastico/a e quindi imprescindibili l’uno dall’altro. Dialogo, confronto e collaborazione sono le  parole chiave nella concezione moderna di leadership diffusa. Nel 2004 viene bandito il primo concorso per la dirigenza scolastica che ne anticiperà uno ulteriore nel 2006. Dal punto di vista di leadership femminile i dati sono ultra-positivi: il 66% dei vincitori è donna per quanto riguarda il concorso ordinario (2004). Un documento importante è il rapporto La scuola in cifre 2009-2010 pubblicato dal Mae che afferma che il 51.8% della dirigenza è femminile. Questo rapporto è l’ultimo pubblicato relativo alla composizione della dirigenza, ma un secondo dossier viene rilasciato nel 2016: Le donne nel mondo dell’istruzione contenente dati statistici sulla presenza femminile nella scuola. I dati sulla dirigenza confermano che le donne coprono il 65.9% dei posti di ruolo. Attestato che la dirigenza scolastica è principalmente femminile si delinea una visione interessante secondo la quale un approccio gender blind applicato alla scuola non solo non è accettabile in quanto controproducente per la natura della scuola stessa che, come i dati dimostrano, non è più appannaggio maschile. Nella scuola dell’autonomia le differenze di genere sono una risorsa su cui costruire e riflettere, non un dato sterile. In tutto il mondo e in tutti i campi la necessità di affrontare la leadership da un punto di vista femminile e di includere le donne al tavolo della conversazione senza ignorarle più come sempre fatto fino ad oggi porta la letteratura e il mondo accademico ad accrescerne l’interesse. Anche grazie a testi come Womenomics in azienda (A.Wittenberg-Cox, 2011) ci si comincia a rendere conto che la visione cieca del passato è non solo scorretta, ma anche controproducente. Wittenberg-Cox illustra attraverso esempi concreti come le aziende guidate da donne aumentino velocemente il fatturato e accrescano il margine operativo lordo, chiudendo con maggiore frequenza l’esercizio in utile. La psicologia comportamentale inoltre spiega che le donne sono più affini alla pratica della reciprocità rispetto agli uomini anche attraverso la pratica del feed-forward rispetto al feed-back. Focalizzarsi sul futuro e non sul passato andando ad indicare cosa potrà essere fatto differentemente imparando da quello che è successo, rispetto a fermarsi sull’errore attivando molto spesso una “caccia alle streghe” ha dimostrato di dare i suoi frutti a livello di gestione.
Il modo di esercitare la leadership da parte di una donna, in qualsiasi ambito, non è da tenere in considerazione solo in un’ottica di pari opportunità, ma si rivela utile, saggio e innovativo per l’organizzazione in questione, di qualsiasi tipologia essa sia. Assumere come parametro universale la mascolinità e continuare a sminuire la forza lavoro e l’imprenditoria femminile non fanno  altro che rafforzare costrutti sociali basati su stereotipi, e quindi del tutto arbitrari e malsani nonché pericolosi. Allo stesso modo, usare un linguaggio maschile universale, il cosiddetto maschile inclusivo, per le posizioni apicali ricoperte da donne, non porterà altro che ad offuscare ulteriormente la visione della donna in posizioni di prestigio che, parlando di scuola, rappresenta in maggioranza rispetto agli uomini. Il diversity management portato alla luce negli anni Novanta in America è nato proprio per affrontare realtà anche educative che in primo luogo non avevano identificato chiaramente la situazione di buio in cui si trovavano, ossia all’oscuro di una società multiculturale che aveva un numero di donne sempre maggiore in posizioni apicali. Un articolo dell’”Economist” del 2010 afferma:
«Nel mondo del lavoro ci sono più donne di quanto mai accaduto in passato. Essere all’altezza di tale cambiamento costituirà una delle grandi sfide dei prossimi decenni»
Wittenberg-Cox ancora ci dice che «nell’azienda abbiamo bisogno di aumentare il mix di abilità e punti di vista, non quelli di uno o l’altro genere» sottolineando quanto sia importante nella società complessa, digitale e volatile in cui viviamo e soprattutto nella scuola, educare alla leadership distribuita per allargare la visione, non restringerla. Il discorso dell’inclusione è proprio il fil rouge tra diversity management e scuola in quanto l’agenda europea del 2020 pone l’inclusività al centro e sottopone a una critica molto dura l’esclusione dei gruppi minoritari tra cui ancora le donne (insieme agli/alle anziani/e, ai/alle giovani senza formazione, a disabili e senzatetto). L’inclusione è diventata un obiettivo educativo che richiede una progettazione specifica da cui è nato il Pai, Piano annuale dell’inclusione, all’interno di ogni scuola. Una scuola che valorizza le differenze (tra cui il genere) è una scuola dove la leadership distribuita funge da collante e da motore del cambiamento, non da punto di arrivo ma da percorso condiviso. La creazione di un laboratorio multiculturale come una rete tra le diverse scuole presenti sul territorio ci aiuterebbe a capire in che modo il sistema di leadership, più rigido e verticale, si fonda con i sistemi più europeistici della stessa scuola. Il confronto di diversi stili di leadership rappresenterebbe un allargamento della prospettiva di ogni scuola che, all’interno di una propria missione, andrebbe a sviluppare una vera forma di scuola inclusiva, orientata alla ricerca e al confronto, producendo modelli da seguire e capofila per lo scambio di buone pratiche a livello educativo nell’ottica dell’inclusività. L’esercitazione della leadership educativa non dovrebbe mai fermarsi al livello dirigenza-docenza, ma dovrebbe essere in grado di raggiungere tutti i livelli della scuola. Se non vi è apertura, condivisione, comprensione dettata da un ascolto attivo raggiungere il terzo step del percorso ossia dirigenza>docenza>classe con una visione comune e partecipata di regole e princìpi non sarà possibile. Per questo pensiamo che il concetto di leadership condivisa – che esalta la prospettiva di genere – debba rappresentare un pilastro su cui costruire una scuola che valorizzi la differenza, ne faccia tesoro ed esempio per tutte le parti, ma specialmente per alunni e alunne.

La tesi integrale: https://toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/63_Elmetti.pdf

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Articolo di Valentina Elmetti

ELMETTI

Laureata a Ca’ Foscari in Glottodidattica oggi è Head of Italian Studies all’Istanbul Technical University. Coordina la sezione Istanbul di LEND (Lingua e Nuova Didattica). Si interessa di stereotipi di genere nella lingua italiana e di educazione come strumento di empowerment femminile.

4 commenti

  1. Una ricerca molto interessante, davvero, salvo incappare in dirigenti scolastiche che ti denigrano perché hai fatto due figli a distanza di poco tempo e nel prendere servizio e mettersi in maternità ti vomitano addosso il loro disprezzo dicendoti. “Spero di poterla apprezzare in futuro come docente oltre che come sforna-bambini” (esperienza personale di 6 anni fa, due gravidanze ravvicinate non calcolate, ma di cui non credevo di dare conto ad una dirigente scolastica, e invece…) . Era una donna, per niente empatica direi, e questa esperienza mi ha segnata per tutto il prosieguo dei miei anni. Di contro, per una così ce ne sono tantissime in gamba e che fanno la differenza

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  2. Una ricerca molto interessante, davvero, salvo poi incontrare una dirigente scolastica che di fronte alla tua seconda gravidanza (occorsa in un tempo ravvicinato) e alla richiesta di maternità, ti denigra dicendoti: “Spero di poterla apprezzare in futuro come docente e non solo come sforna-bambini” (mia esperienza personale di 6 anni fa”, a dimostrazione che il gender gap deve essere colmato prima di tutto nella mentalità di tante donne ancora. Grazie per l’importante contributo!

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  3. Gentile Valeria,
    che esperienza terribile. Ha centrato comunque il punto nel suo commento. Le donne manager italiane (che siano a scuola o in azienda) specialmente quella della vecchia scuola (che da un lato hanno fatto strada a noi più giovani ma dall’altro sono ancora legate a un concetto di leadership autoritaria) faticano ancora a “fare pace” con il nuovo potere acquisito generando comportamenti che a volte sono di ” difesa” come l’esempio da Lei citato. Personalmente parlando, penso che una persona donna o uomo che sia che usa la parola “sforna-bambini” abbia problematiche ben diverse e più profonde da affrontare dalla gestione della leadership. Un buon lavoro e grazie per la sua riflessione.

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