Donne socialiste tra Ottocento e Novecento. Intervista a Fiorenza Taricone

È da poco uscito l’ultimo libro di Fiorenza Taricone dal titolo Politica e cittadinanza. Donne socialiste tra Ottocento e Novecento nella Collana della Fondazione F. Turati, Franco Angeli Editore. Quella che segue è un’intervista frutto di una lunga conversazione avuta con l’Autrice che conosco anche e soprattutto come studiosa dell’associazionismo dalla fine degli anni Ottanta. Ha scritto, infatti, nel 1992 la prima e ad oggi la sola storia complessiva della Federazione Italiana Laureate Diplomate Istituti Superiori, di cui sono stata fino all’anno scorso Presidente Nazionale.

Fiorenza Taricone
Fiorenza Taricone

«Il tuo libro, cara Fiorenza, a mio avviso è molto interessante da leggere, poiché colma alcuni vuoti. Fra questi, il riconoscimento e la riconoscenza che si dovevano alle tante donne “oscurate dalla storia”. Donne che dalla fine dell’Ottocento si sono impegnate nelle lotte politiche, sindacali, sociali e molto spesso anche fra le mura domestiche; sono state determinanti durante il periodo drammatico della Prima guerra mondiale, hanno dovuto sopportare la negazione del voto politico, l’avvento del fascismo che le voleva soprattutto madri e che nel ’27 dimezzò i loro salari, ma non hanno mai ceduto, le troviamo in prima fila nella Resistenza. Finalmente nel 1946 è arrivato il voto, faticosamente … “lottato”. Noi dobbiamo moltissimo a queste primogenitrici della politica e tu lo ricordi con la tua approfondita e ricca ricerca. Non pensi che forse dovremmo esaminare in modo più elogiativo i risultati seppur parziali che noi abbiamo ottenuto e stiamo faticosamente difendendo con l’obiettivo di raggiungere la parità sostanziale di genere?»

«Avvicinarsi a questa storia, oltre che proseguire il mio consueto lavoro di ricerca, è stato preliminarmente un gesto di gratitudine, che non elimina eventuali dissensi o lo spirito critico, ma dà spazio a un’inevitabile riconoscenza per le socialiste della prim’ora; riesce difficile immaginarlo, ma non erano neppure così poche! Purtroppo, paradossalmente, nell’era delle immagini, non possiamo a volte neppure vederle nitidamente ritratte, per la scarsezza delle foto, la qualità delle immagini, e magari la loro voglia di farsi ritrarre. Come hanno sottolineato prima di me, nella storia politica e aggiungo nella storia delle relazioni fra i generi, bisogna guardarsi dal pericolo dell’evidenza. Penso sia ormai assodato che l’approccio simbolico, reale, linguistico delle donne alla politica sia stato abissalmente diverso da quello maschile. Dalla polis greca con la sua concezione di un demos maschile ad escludendum, che comprendeva cioè solo greci puri, né barbari, né schiavi, né donne, passando attraverso l’arengo medioevale, embrionale parlamento, dove anche gli ecclesiastici, pur non essendo laici, potevano partecipare, fino alle corti rinascimentali, le donne hanno assicurato la riproduzione della specie della cittadinanza, ma loro non lo erano. Le rivoluzioni settecentesche certamente sono state fondamentali, quella francese con il diritto per le donne – presto rimangiato – di parlare di politica, con la Dichiarazione dei diritti della cittadina e quella americana, da cui è scaturita più di mezzo secolo dopo la Dichiarazione dei sentimenti; per l’Italia però la periodizzazione è stata diversa e ha intersecato altre vicende. Le donne hanno dovuto lottare per l’unità e conquistare l’alfabetizzazione, per poter interloquire con lo Stato e avanzare richieste; ma il risultato è stato comunque l’essere apolidi in patria. Le primogenitrici di cui mi occupo da molti anni, le socialiste di partito e di area, imparano dunque tutto assai presto, perché le Società operaie o di Mutuo soccorso nascono già nella seconda metà dell’Ottocento; le lavoratrici devono capire subito la differenza fra il precedente schieramento parlamentare e il nascente partito, quello socialista, nato nel 1892, preceduto dal Partito Operaio Italiano, quel partito dalle mani callose che parlava già di suffragio veramente universale; bisognava quindi afferrare velocemente cos’era un nascente partito di massa, il linguaggio della politica, le esigenze della propaganda e dell’organizzazione, la vita delle sezioni; ma anche, e non era di poco conto, pensare a come accorciare la distanza dalle proprie simili non ancora consapevoli di essere sfruttate due volte, in casa e in fabbrica. È qui uno dei pericoli dell’evidenza: la questione sociale, lo sfruttamento operaio, le lotte di classe, la ribellione politica, tutto sembra succedersi in modo naturale e scontato nei libri di storia. Ma per le donne non è stato così automatico; come dici nella domanda, hanno affrontato lotte nei luoghi di lavoro, ma anche in casa perché i compagni spesso non volevano la rivoluzione in famiglia. Come diceva già il deputato femminista Salvatore Morelli nella seconda metà dell’Ottocento, si preferiva essere conservatori in casa e rivoluzionari fuori. La casa era il luogo del riposo dalle fatiche del lavoro e della politica. Che cosa sarebbe accaduto se anche le donne si fossero messe a frequentare le sezioni, a fare tardi nelle riunioni e – peggio ancora – a seguire i congressi socialisti per il mondo? Affascinante la morale nuova propugnata dai socialisti, divorzio o libero amore, fine dell’ipocrisia borghese, coscienza politica, ma senza poter controllare le nascite e avere un salario pari a quello maschile sufficiente a sopravvivere, come conciliare gli orizzonti di libertà con i ruoli di moglie e di madre? Per le donne avere una coscienza politica fu un processo doppio, perché aprirono anche gli occhi sul loro sesso e questo dischiuse un ulteriore interrogativo, simile a quello che si verificò negli anni Settanta del Novecento. Infatti, la vittoria del proletariato non risolveva automaticamente i tanti problemi legati alla condizione femminile e la specifica oppressione di classe talvolta non andava per niente d’accordo con una oppressione di sesso. Le donne che ho studiato, cui ho dato voce nel libro sono state quindi primogenitrici anche in questo senso, rivoluzionarie e riformiste, scandalose e ribelli, ortodosse ed equilibriste. Conoscerle da vicino significa anche capire che i tempi lunghi della storia hanno un loro senso e un loro ritmo; per cambiare senza tornare sui propri passi abbiamo bisogno di sapere i sentieri percorsi da tante prima di noi.

«Da donna che ha vissuto l’associazionismo femminile con luci e ombre, vorrei entrare nel merito di com’erano vissuti, all’interno delle associazioni anche sindacali e di partito, i rapporti interpersonali e di potere fra donne e non solo. E rispetto al volontariato cosa dire? Dal confronto con l’oggi ti sembra che sia cambiato qualcosa?»

«Fin da quando ho iniziato a parlare e scrivere di associazionismo femminile, nel lontano 1986, in un Convegno dedicato agli studi di genere nelle Università, cercando da allora una sua legittimazione scientifica, ho paragonato le associazioni femminili a un arcipelago. Isole piccole, non comunicanti, quasi delle terre-lago, e isole maggiori come le confederazioni di associazioni che, pur rispettando le autonomie delle singole componenti, le raggruppavano tutte. Questo evidentemente attribuiva una forza maggiore, ma rendeva anche più difficile mantenere l’equilibrio, centrare gli obiettivi, reggere sulla lunga distanza. Operazioni del tutto politiche evidentemente, e del resto ho sempre paragonato l’associazionismo a un laboratorio politico, teorico, ma pure molto concreto. Comunque inteso, l’associazionismo ha significato per le donne dal suo nascere non solo un momento di collettività tramite incontri periodici ed assemblee regolari, che esulavano da una rete occasionale di scambi come potevano essere i salotti o i luoghi della fatica del vivere quotidiano, ma ha contribuito a sviluppare altre potenzialità, per esempio quella collegata allo spirito d’iniziativa, necessaria alla progettazione ideale di un’associazione e poi alla sua realizzazione pratica. Basta pensare ai confronti d’idee sulla formulazione dello statuto per definire il carattere dell’associazione e circoscriverne l’azione. Oppure alle difficoltà nel trovare una sede stabile e a quelle legate alla disinformazione giuridica, ancora più decisive per le associazioni che, oltre a prevedere la stipula di un atto notarile per la fondazione, comprendevano un capitale sociale, quote da reinvestire e profitti da dividere fra gli/le azionisti/e. Le associazioni hanno fatto toccare con mano alle donne molte contraddizioni; la prima riguardava il mancato diritto di voto: le associazioni erano per lo più organismi provvisti di uno Statuto che prevedeva un organigramma di cariche, quindi le donne sperimentavano all’interno un diritto di voto che non avevano all’esterno. Ma non meno importante era il contrasto fra una maternità omaggiata e decantata, ma poco socialmente valutata e ridotta a solo evento privato; in questo, mutatis mutandis, troviamo analogie con l’oggi, nella riduzione dopo le lotte femministe di un welfare veramente a supporto della maternità concreta. Inoltre, uno studio dell’associazionismo come ho avuto occasione di scrivere, “dal di dentro”, consente di mettere a fuoco, quando le fonti lo consentono, i rapporti interpersonali fra donne in ogni loro possibile espressione, compresa un’analisi oggi attualissima, delle svariate forme di leaderismo femminile e dei tipi di carisma esercitati specialmente dalle fondatrici di associazioni basati sul prestigio fisico-morale, intellettuale o derivante dall’appartenenza a casate illustri. La personalità spiccata di alcune, le relazioni altolocate o utili di cui godevano, il luogo in cui vivevano, ad esempio Roma, sede del potere politico e legislativo, dove era più facile far giungere le richieste delle associazioni in Parlamento, magari anche attraverso i mariti, spesso deputati o uomini di apparato, a volte alteravano il sistema del ricambio al vertice delle associazioni; facevano sì che le cariche maggiori rimanessero nelle mani delle stesse persone per anni. Nell’associazionismo socialista, il valore ideologico dell’uguaglianza e differenze di classe meno marcate rendevano i rapporti meno personalizzati e più mediati dalla politica. Ciò non toglie naturalmente che a personalità come Anna Kuliscioff o Angelica Balabanoff fosse riconosciuto un peso specifico particolare.
Per quanto riguarda il volontariato, direi che la differenza rispetto a questo primo associazionismo militante era netta; l’ottica politica era meno improntata alla beneficenza e più rivolta all’acquisizione dei diritti e alla lotta mediante scioperi, manifestazioni, atti di protesta. Il volontariato, anche se fa riferimento a organizzazioni per lo più religiose, è una risposta individuale di aiuto a persone bisognose, spesso come risposta alla propria coscienza; l’associazionismo socialista si basava su un bisogno trasformativo della collettività, basato su un programma politico chiaro: eguali diritti, fine dello sfruttamento sul lavoro, a ciascuno secondo i suoi meriti e i suoi bisogni.»

«Mi ha molto incuriosito la figura di Teresa Labriola, alla quale tu hai dedicato particolare cura e diverse pubblicazioni. Vorrei sapere se i due saggi su guerra e cultura possono allacciarsi alla situazione attuale.»

«La mia biografia su Teresa Labriola risale al 1994; era la secondogenita del filosofo Antonio Labriola, lo ricordo perché tuttora mi chiedono se era la figlia di Antonio o di Arturo, deputato socialista; al filosofo Labriola si deve la diffusione del pensiero marxista in Italia anche dalle aule universitarie. Teresa era la secondogenita, molto amata dal padre che aveva intravisto in lei particolari qualità intellettuali. In effetti non si sbagliava, perché fu la prima donna laureata in giurisprudenza all’Università Sapienza di Roma alla fine dell’Ottocento. Poliglotta, è stata libera docente in Filosofia del diritto e come ci ricordano le lettere fra Antonio Labriola e Benedetto Croce, allora suo allievo, il primo giorno di lezione fu interrotto dagli schiamazzi degli studenti che protestavano contro una docente in gonnella; Teresa tentò per anni di vincere stabilmente una cattedra universitaria, ma le furono sempre preferiti altri studiosi; dopo aver insegnato per dieci anni, dal 1900 al 1911 circa, Filosofia del diritto prese la decisione di iscriversi all’Ordine degli avvocati, ma la sua iscrizione fu presto impugnata e il caso rimbalzò in Parlamento. Solo con la cosiddetta legge Sacchi nel 1919 le donne furono ammesse alle professioni liberali, ma a quel tempo Teresa Labriola aveva già preso altre strade. Fu molto attiva nell’associazionismo femminile, in particolare nel Consiglio Nazionale Donne italiane dove presiedeva la Sezione giuridica; intervenne con numerosi scritti e articoli nell’intento di mutare gli articoli del Codice civile e penale che rendevano le donne più simili a schiave e a oggetti, che non a persone; Teresa condivise le idee paterne fino alla sua morte, ma dopo cominciò un percorso intellettuale che la condusse attraverso il nazionalismo ad appoggiare il fascismo. Durante la guerra, la lontananza dalle ex compagne socialiste non poteva essere maggiore, anche nel caso di quelle che giustificavano la guerra come un interventismo democratico, cioè un completamento delle guerre risorgimentali e l’irredentismo. Nonostante Teresa Labriola avesse una madre tedesca, riteneva che l’Italia dovesse cessare di essere una provincia dell’impero germanico; doveva impegnarsi invece nel formare una coscienza nazionale granitica. La guerra era per lei indice di accentramento di energie; in essa, uomini e donne dimostravano uno spirito individuale, ma non particolaristico; il pacifismo, compreso quello delle sue compagne di un tempo, dimostrava di non capire il conflitto a causa dell’ignoranza della storia del mondo nella sua fase più recente; mancava la coscienza di un fatto reale quale quello della Germania che si sentiva superatrice della romanità; la guerra portava un ordine nuovo, nel quale le donne sarebbero state come gli uomini produttrici e legate allo Stato da un vincolo etico. I riferimenti alla situazione attuale sono ancora molti: è vivo e vegeto il pacifismo intransigente come quello delle donne socialiste di allora, ma è altrettanto viva la volontà di potenza di molti Stati; ovviamente lo scontro diretto non è più fra Italia e Germania, che sono state insieme ad altre quattro nazioni fondatrici della cosiddetta “piccola Europa a sei”, ma con i Paesi animati da una volontà di supremazia; ne è una riprova lo scontro all’interno dell’Europa fra Stati sovranisti e aggressivi, e Stati convinti che per far parte di una comunità si debba alienare una parte di sovranità per il progresso collettivo.

«A tuo avviso, è possibile individuare, attraverso la storia, il motivo per il quale le donne non riescono a raggiungere l’agognata parità di genere. Qual è il desiderio profondo che alberga e che forse è un non detto?»

A partire dall’associazionismo politico di cui parlo nel libro, nel quale ricomprendo le sezioni, i circoli di partito, le sedi sindacali, le Camere del Lavoro e le redazioni dei giornali, fino al neo femminismo degli anni Settanta, la parità che non annullasse le diversità è stato l’obiettivo principale. Sostenere che le lotte sono state infruttuose sarebbe un’affermazione fuori dalla storia; cambiamenti dentro e fuori per le donne ce ne sono stati tanti e ben palpabili; lo sono stati, però, anche i retaggi, tant’è che troviamo ancora delle somiglianze con alcune situazioni del passato. Del resto, nell’Occidente, dall’era cristiana in poi, il cosiddetto patriarcato come specifica forma di oppressione maschile ha avuto secoli e secoli per consolidarsi. Storicamente si può dire che sia sempre esistita una misoginia maschile verso le donne, e quella femminile esisteva come riflesso di quella maschile nella mente di una donna. La misoginia patriarcale ha perciò rappresentato il necessario bersaglio critico di molta parte dell’emancipazionismo e del femminismo; era necessario liberarsi da un’immagine mediata dallo sguardo maschile per avere una personalità libera, anzi per essere persone; era altresì necessario recuperare un autonomo rapporto fra donne, espresso nel neo femminismo con il termine fino ad allora inesistente di sorellanza, che non indicava più il solo rapporto biologico familiare, ma un rapporto politico di condivisione. Poco sondato oggi è il rapporto fra donne dopo la scomparsa dal lessico comune della parola sorellanza, che devo spiegare ai/lle studenti se mi capita di usarla nelle lezioni. Personalmente ritengo però che con il femminismo si sia aperta per la coscienza femminile la possibilità dichiarata di approfondimento di una misoginia femminile; se non altro perché al dna del neo femminismo apparteneva la pratica dichiarata del partire da sé, ognuna con le proprie esperienze, e il rifiuto del non detto.»

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Fiorenza Taricone, Politica e cittadinanza. Donne socialiste tra Ottocento e Novecento, Franco Angeli Editore 2020

 

 

Articolo di Gabriella Anselmi

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Docente di matematica e formatrice in Italia e all’estero, presso Istituti Superiori e Università, da sempre attiva nell’associazionismo, e già presidente nazionale FILDIS, è componente del Direttivo della Rete per la Parità, del CNDI, di Toponomastica femminile, della GWI (Graduate Women International) e dell’UWE (University Women of Europe).

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