Tra i neologismi entrati in uso nel vocabolario Treccani nel 2018, figura l’espressione inglese body shaming, spiegata come «il fatto di deridere qualcuno per il suo aspetto fisico». Essa è composta dal sostantivo body, che vuol dire “corpo”, e dal verbo sostantivato shaming, che vuol dire “il far vergognare qualcuno/a”, dunque “far vergognare per il proprio corpo”. In realtà a vergognarsi, e tanto, dovrebbe essere esclusivamente la persona che pratica body shaming. Ne abbiamo sofferto per anni, soprattutto noi donne, e non avevamo certo bisogno che ci giungesse in soccorso la lingua inglese per dare forma verbale a come ci siamo sempre sentite nel momento in cui ci hanno deriso, umiliato, preso in giro, per la magrezza o grassezza, per l’abito, i capelli, la forma del seno o delle natiche, l’acne. Tutto questo, ovviamente, nell’era digitale ha avuto una enorme cassa di risonanza nei social. Dietro la tastiera si scatenano i più insulsi istinti degli odiatori seriali, che prendono di mira il corpo di una donna, ma anche di tanti uomini, e ne fanno oggetto di scherno gratuito e violento, fino a demolire autostima e dignità del soggetto reso oggetto. È talmente grave e patito come fenomeno che da gennaio di questo anno la Camera ha accolto una proposta di legge che prevede otto articoli da inserire come estensione della legge n. 71 sul cyberbullismo, approvata nel 2017. Anziché ricorrere alla lingua inglese, come sembra ormai non si possa più fare a meno, voglio attingere alla nostra meravigliosa lingua italiana, in modo particolare alla sua origine, al latino. Non sono aprioristicamente contraria ad anglicismi e americanismi di sorta, ma ritengo l’italiano talmente ricco di sfumature semantiche preziosissime – che gli derivano dall’essere figlio di un’altrettanta rigogliosa lingua quale quella latina – che bisogna sforzarsi di cercare nel nostro vocabolario i termini che ci aiutano a definire la realtà, non soccombendo ad un processo di impoverimento lessicale e, di conseguenza, mentale, del quale spesso cadiamo in trappola. Ce lo ricordava il 10 maggio scorso il linguista prof. Francesco Sabatini in un’intervista alla trasmissione Uno mattina in famiglia, sottolineando come la parola lockdown tanto in voga è un americanismo, ma che esiste il vocabolo “chiusura” al quale sussegue una “riapertura” e non un post-lockdown! Vorrei, dunque, chiamare il body shaming “vilipendio del corpo”, dal latino vilipendium, una parola forse trascritta male nei codici medievali, in origine probabilmente nili pendere, ovvero “giudicare un nulla”, che è quanto fanno coloro che si concentrano miseramente sugli aspetti esteriori di una persona, facendone bersaglio di critiche distruttive, che demoliscono interiormente la vittima di tali attacchi. È interessante notare che la voce verbale pendere all’interno della parola “vilipendio” potrebbe derivare da due verbi latini: uno è pendo, pendĕre, che può significare appunto “giudicare”, “stimare”, l’altro potrebbe essere pendĕo, pendēre, che tra i vari significati annovera quello di “essere affisso in pubblico”, “essere esposto in vendita”. Ed è, se ci pensiamo bene, quanto accade a chi è vittima di body shaming, anzi di vilipendio del corpo: viene esposta alla mercé di un pubblico affamato di particolari insipienti, di aspetti che distolgono dalla vera essenza di una persona, di notizie che offuscano la mente e la alienano da quanto invece merita attenzione. In una società come quella odierna, impegnata per la maggior parte del suo tempo ad osservare le vetrine social in cui viene spesso offerta un’immagine distorta soprattutto delle donne, non è difficile immaginare che il vilipendio del corpo sia un fenomeno piuttosto diffuso, non solo tra celebrità, ma per lo più tra tantissimi/e adolescenti e adulti pressoché invisibili. Questa quarantena ci ha abituato a vedere di frequente in televisione il volto di una bravissima giornalista, Giovanna Botteri, corrispondente dalla Cina. I suoi servizi precisi, appassionati, calati nella realtà in cui si trova e con uno sguardo ampio sui rapporti geo-politici che governano il pianeta, ci hanno accompagnato nei mesi scorsi e sono ancora una finestra su quanto accade nella parte orientale del mondo. La giornalista è stata vittima di vilipendio da parte di una nota trasmissione televisiva, Striscia la notizia, che in un servizio del 28 aprile ha deriso Giovanna per i capelli e l’abito. La vicenda è stata gestita dalla stessa giornalista con intelligenza e garbo, conclusasi con un suo video-messaggio in cui dichiara che si è trattato di satira da parte del programma, e la satira è un diritto e ci fa riflettere e divertire. È certamente vero, ma è altrettanto reale che da ormai troppo tempo la satira ha bisogno di attaccare il corpo di una persona per suscitare riso, spesso appellandosi a prototipi di donna e uomo che francamente ci hanno davvero stufato. I modelli che ormai spopolano pongono come archetipo di assoluta perfezione donne e uomini estremamente magri, estremamente belli, estremamente curati, estremamente all’ultima moda. Estremamente tutto. Ma gli estremi non vanno mai bene. Con questi estremi si misura la società, e se non si rientra in essi si procede sistematicamente all’attacco, gratuito, irriverente, offensivo, umiliante, che pone sotto la lente d’ingrandimento ipotetici difetti aventi nulla a che vedere con la qualità e statura morale della persona oggetto di vilipendio. Pensiamo a Giovanna Botteri: triestina, nata da padre friulano e madre montenegrina, laureatasi in Filosofia con il massimo dei voti, un dottorato in Storia del cinema conseguito alla Sorbonne di Parigi, è nel campo del giornalismo dai primi anni Ottanta. Collabora con i giornali “Il Piccolo” e “L’Alto Adige”, lavora per la Rai di Trieste, cura uno speciale con Margherita Hack per Rai 3, diventa collaboratrice di Michele Santoro nel programma Samarcanda, entra nella redazione esteri del Tg3. Dal 1990 è iscritta come professionista all’Albo dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia. Come inviata speciale della Rai ha seguito il crollo dell’Unione Sovietica e l’inizio della guerra d’indipendenza in Croazia nel 1991, dal 1992 al 1996 la guerra in Bosnia e l’assedio a Sarajevo dove, insieme a Miran Hrovatin (il fotografo assassinato con Ilaria Alpi nel 1994 a Mogadiscio), ha filmato il massacro di Srebrenica. È stata in Algeria, Sudafrica, Iran e Albania, dove ha seguito la ribellione a Valona nel 1997, ha documentato la guerra in Kosovo ed è entrata a Peć con l’esercito italiano nel 1999. Ha lavorato ancora con Santoro per i programmi Circus e Sciuscià. Ha seguito il G8 di Genova nel 2001, è stata inviata in Afghanistan fino al rovesciamento del regime talebano e, come inviata di Tg2 e Tg3, in Iraq prima e durante la seconda guerra del golfo. Nel 2003 insieme a Guido Cravero ha filmato in esclusiva mondiale l’inizio dei bombardamenti su Baghdad e l’arrivo dei carri armati statunitensi. Dal 2004 al 2006 ha condotto l’edizione delle ore 19.00 del Tg3. Dal 2007 al 2019 è stata prima corrispondente per la Rai dagli Stati Uniti, poi dal 1° agosto 2019 dalla Cina. È lei che dalla fine del dicembre 2019 si occupa dalla Cina della pandemia che ci ha travolti. Ha vinto anche numerosissimi premi, tra cui il Premio giornalistico Europa come miglior giornalista del mese nel 1994, il Premio Penne Pulite nel 1996, il Premio Ilaria Alpi sezione C nel 2000, il Premio Elsa Morante nel 2003, il Premio Saint Vincent per la corrispondenza da Baghdad, conferito dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel 2004, il Premio Flaiano speciale di giornalismo nel 2018. È stata inoltre insignita dell’onorificenza di Cavaliera dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 2003. Un curriculum a dir poco invidiabilissimo. Eppure il look pandemico di Giovanna (capelli fuori posto e maglia sempre nera, sempre la stessa… che oltraggio!) ha dato adito a critiche e sarcasmo del quale francamente avremmo potuto fare a meno, senza sentirne la mancanza o la privazione del miglior spirito satirico della nostra società, perché poi alla fin fine la domanda è sempre la stessa: è proprio necessario? Sicuramente, a voler cogliere il positivo in ogni occasione, come a me piace, l’episodio è stato un motivo che ha spinto ad approfondire la figura di Giovanna Botteri, a scoprire le sue inchieste, il suo modo di fare giornalismo, le sue dichiarazioni, le sue posizioni. Si scopre piacevolmente che la giornalista ha da sempre avuto una grande sensibilità verso le questioni femminili. In un’intervista di Stefano Zucchini del 2005 (in “Pagine Cooperative”, n. 7/8 2005, p. 14-15), alla domanda: «È difficile per una donna ricoprire incarichi importanti nel giornalismo?», Giovanna rispondeva: «Non credo. Il vero problema è che le donne sono arrivate molto tardi al giornalismo e al reportage di guerra. I grandi reporter, da Hemingway a Egisto Corradi fino a Luigi Barzini, sono stati tutti degli uomini, anche perché raccontavano temi tradizionalmente maschili come la guerra, la violenza, il mondo dei soldati, la trincea, il fronte. Quando le donne hanno cominciato ad occuparsene l’hanno fatto con la loro specificità e la loro differenza, con un occhio che guarda anche ad elementi diversi. Da una parte, quindi, credo ci sia questo apporto che le donne hanno dato al racconto di guerra, dall’altra credo che in un mondo dove l’editoria è ancora in mano all’uomo, ogni volta che una donna arriva a ricoprire posizioni di prestigio significa che ha dovuto correre, studiare e lavorare mille volte più veloce degli altri, perché sicuramente è partita con un handicap». Ancora, in un’altra intervista di Sara Dellabella del 3 maggio 2005 (reperibile in rete all’indirizzo https://web.archive.org/web/20060515194422/http://www.rivistaonline.com/Rivista/ArticoliPrimoPiano.aspx?id=1409, che riporto quasi integralmente per la profondità delle riflessioni evidenziate alla nostra attenzione), circa la sua esperienza di reporter di guerra, Giovanna dichiara: «I colleghi maschi vivono la guerra con una sorta di eccitazione. C’è un giornalista del “New York Times” che si chiama Cris Hedges che insegna all’Università, è considerato un grandissimo, e racconta con grande onestà – e lo racconta molto bene – come esista questa eccitazione da bisogno di spari, bombardamenti e polvere da sparo e come chi segue i fronti di guerra poi viva con difficoltà terribile il ritorno a casa, nella pace, nella normalità, sentendo continuamente il bisogno di ripartire per tornare e sentire quell’adrenalina. Il mio punto di vista era, è stato, e spero continuerà ad essere completamente diverso. Io mi sono trovata catapultata in un mondo che conoscevo bene. Un mondo fatto di case, di strade, di persone, di facce, di normalità, di vacanze. Improvvisamente travolto e sconvolto dalla guerra. Sarajevo era dove si andava l’ultimo dell’anno a festeggiare perché era una città bellissima, con questo misto di oriente e d’occidente. La Croazia era dove s’andava la primavera, vicino alle cascate. Vedere il mondo che tu conosci travolto dalla guerra è un’esperienza per cui non ci sono parole. Noi qui cerchiamo e tentiamo di dirlo, ma la verità è che non ci sono parole e credo che qui sia la differenza tra gli uomini e le donne che raccontano. Noi non abbiamo giocato ai soldati, non abbiamo fatto i soldati, non ci siamo appassionate di grandi strategie militari. […] Per noi è qualcos’altro, è sentire la tua quotidianità, le tue cose, quelle piccole, quelle che fanno la tua vita, le tue sicurezze: la spesa, le amiche, truccarsi, vestirsi per uscire, la maglia che ti piace e che vorresti comprare, cose minime, piccole, quotidiane. Vedere tutto questo travolto dalla guerra, perché la guerra è qualcosa di alto, di grande, di geopolitica ma è anche qualcosa di piccolo ed è questo che è terribile. È la distruzione lenta, inesorabile, terribile della tua vita, delle tue sicurezze, delle tue quotidianità e vedere la casa dove hai giocato da bambina distrutta. È vedere la famiglia dove sei stato mille volte a mangiare che ti guarda con odio e che forse domani potrebbe addirittura ucciderti e vedere tutto il tuo mondo distrutto. Io credo che questa è stata l’entrata delle donne nel ‘giornalismo di guerra’, questo sguardo diverso. […] Le donne hanno cominciato a raccontare la guerra dalla parte di chi non la fa, da parte di chi non la combatte, dalla parte di chi la subisce, che è poi la maggioranza, la stragrande maggioranza. […] Noi ci sentiamo in quelle case, al buio, terrorizzate, assieme ai bambini che ti si stringono addosso e a cui tu non sai cosa dire. Le donne irachene durante la guerra chiedevano per pietà ai medici del valium per poter far dormire i loro figli e così tutte le donne, durante tutte le guerre, durante tutti i bombardamenti. […]». Prosegue poi parlando di pace: «Io credo che raccontare le guerre, vivere le guerre, entrare nelle guerre sia un’esperienza da cui è difficile uscire. Adesso a raccontare queste cose sento un male dentro e sarà un male dentro che non mi lascerà mai e credo che per questo realismo spaventoso a cui abbiamo dovuto piegarci, credo che sia questo per me che ha fatto di me una partigiana della pace. […] La guerra è solo miseria, violenza, morte, puzza, la puzza del sangue, dei cadaveri, delle macerie. È soltanto l’aspetto peggiore dell’animo umano. Io credo che soltanto quando tu entri e attraversi questo, solo in quel momento puoi capire che cosa sia la pace». Di fronte a queste parole che si incidono nel cuore di chi le legge, di fronte alla vita e professionalità di questa giornalista, cosa può minimamente interessare il look che sfoggia in televisione, dall’abbigliamento ai capelli? Da una donna così – tanto per cambiare – c’è solo da imparare. Lei stessa, venuta inizialmente a conoscenza del caso scoppiato sull’episodio di Striscia, ha risposto mostrando serietà, sobrietà e correttezza, senza mai scadere nelle tifoserie da stadio, quelle che nel nostro Paese ultimamente ci piacciono tanto: «Mi piacerebbe che l’intera vicenda, prescindendo completamente da me, potesse essere un momento di discussione vera, anche aggressiva, sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne […]. A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere». Non possiamo che ringraziare Giovanna per aver dimostrato ancora una volta che il vero look da curare non è quello dei capelli, ma della testa.
Articolo di Valeria Pilone
Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.
Questo tipo di persone mi piacerebbe incontrare per fare domande e intrattenermi sulle esperienze e sul senso dell’ avventura della vita.
Sulle grandi questioni del socialismo, il comunismo russo,l’occidente e l’oriente.
La cosa più bella per me è che questa donna riassume quei caratteri che nella assoluta quotidianità di vita e di lavoro professionale offrono i contorni di una immagine femminile non nuova, ma trascurata e mai portata all’attenzione di un pubblico più largo.
Fa bene al mondo maschile che fa i conti con donne-persone e non oggetti commerciali.
Fa bene al mondo giovanile avere di fronte modelli vinventi alternativi e solidi.
Fa bene a me ex maestro di scuola che ci teneva che i suoi bimbi tentassero un mondo più autentico.
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Ha proprio ragione!
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Grazie per il suo prezioso commento e mi scusi se mi era precedentemente sfuggito!
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