«Sono qua, sono tua; in me non c’è nulla, più nulla di mio: fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi! – M’hai aspettata per dieci anni? Fai conto che non sia stato nulla! Eccomi di nuovo a te; ma non per me più, non per tutto ciò che quella può aver passato nella sua vita; no, no; nessun ricordo più dei suoi, nessuno: dammi tu i tuoi, i tuoi, tutti quelli che hai serbato di lei come fu allora per te! Ora ridiventeranno vivi in me, vivi di tutta quella tua vita, di quel tuo amore, di tutte le prime gioje che ti diede!».
Questo è un monologo dell’opera di Luigi Pirandello Come tu mi vuoi; a recitarlo è l’Ignota, creatura pirandelliana che colpisce nel segno, sbattendoci in faccia che l’identità è una costruzione sociale, una gabbia, una trappola a cui è impossibile sottrarsi, sono le/gli altre/i a plasmarci con le loro aspettative, i loro ricordi, le gioie o i dolori vissuti insieme. A chi comprende, a chi vede al di là degli occhi delle/degli altri che ci riflettono non resta altro che vivere attraverso il loro sguardo accettando di essere l’Ignota, Il Fu Mattia Pascal o Uno, nessuno, centomila.
A rivestire i panni della protagonista di questo testo della fine degli anni Venti fu Marta Abba: donna, attrice, musa, o meglio co-creatrice dell’universo teatrale pirandelliano. Rapporto strano, complesso, assolutamente non banale e neppure scabroso come da certa critica è stato giudicato, quello che legava il Maestro, come lei era solita chiamarlo, e Abba, impetuosa e passionale attrice che esprimeva il suo temperamento attraverso una recitazione apparentemente istintiva ed esuberante, ma che in realtà era estremamente ricercata, attenta ai dettagli, a partire dalla voce, modellata sulla base del carattere da interpretare, da cui poi discendevano gesti e movimenti solo all’apparenza improvvisati. Un amore precoce quello che legò Marta Abba al teatro e forse bisognerebbe proprio partire da quella passione assoluta per tentare di comprendere il sodalizio con Luigi Pirandello, anche lui servo devoto della stessa Arte. Ci sono delle lettere, un lungo e intenso epistolario pubblicato nel 1994, e tanti tentativi di spiegare, scavare, cercare i dettagli di un indefinibile, e forse proprio per questo assolutamente sconveniente, trovarsi.

Marta Abba aveva 14 anni, come scrive nella sua breve autobiografia del 1936, La mia vita di attrice, quando si presentò alla segreteria dell’Accademia del Teatro dei Filodrammatici per essere ammessa ai corsi di dizione e recitazione della scuola di Milano, città in cui era nata il 25 giugno del 1900, ma venne respinta: troppo giovane, bisognava aspettare il compimento dei 16 anni. Lei non aspettò, però: era impaziente ed intraprendente, così l’anno successivo venne ammessa, ma dovette frequentare per un triennio, anziché i canonici due anni. La scuola fu per lei una seconda casa e si applicò nello studio e nella pratica, assimilando il più possibile i preziosi insegnamenti di dizione di Ofelia Mazzoni, che era stata attrice e amica intima della “Divina” verso cui Marta Abba provò sempre una profonda ammirazione. Quando Eleonora Duse assistette alla messa in scena della Porta Chiusa di Marco Praga, figlio dello scapigliato Emilio, in cui Abba interpretava il ruolo di Bianca, e profuse elogi nei suoi confronti, la giovane attrice si emozionò intensamente ed ebbe la conferma che non avrebbe mai accettato altro che quella vita di scena. A tentare di dissuaderla c’era stato anche il «buono, paterno e signorile», come lei stessa lo definisce, Enrico Reinach, insegnante di recitazione e grande attore che seppe trovare in lei la vena drammatica e quella comica, ma che, legato da amicizia con la famiglia Abba, sconsigliò la vita di scena alla giovane allieva conoscendo il parere contrario della famiglia alle aspirazioni di Marta. A descriverci il disappunto dei genitori alle attitudini della figlia è Luigi Antonelli, attore drammatico e critico teatrale che comprese subito il talento di Marta: «il babbo e la mamma, pieni di quel buon senso milanese, che vuol vedere chiaro anche nelle faccende in cui l’incognita dell’arte è come l’incognita del destino, furono per un certo tempo l’amoroso ostacolo che Marta Abba giovinetta, prigioniera tra due vetrine, non pensava mai di poter superare». I genitori infatti, commercianti e titolari di una lucrosa attività tra via Cappellari e via Torino a Milano, avrebbero voluto per la figlia un tranquillo impiego nell’azienda di famiglia ed è proprio dietro ad una delle vetrine del negozio del padre che Antonelli rimase colpito da Abba tanto da scrivere un racconto, poi messo in scena nel 1930, dal titolo La donna in vetrina, incentrato sulla donna-oggetto creata dallo sguardo maschile che poggia su di lei la sua attenzione.
Nonostante le resistenze della famiglia, Marta Abba continuò a recitare, aspettando impaziente la maggiore età, ma, grazie all’interessamento dell’autore e critico teatrale Sabatino Lopez, che convinse suo padre delle notevoli capacità della figlia, la giovane attrice cominciò a calcare le scene del Teatro del Popolo di Milano. L’occasione venne grazie alla guida di Virgilio Talli che la scelse per la messa in scena del Gabbiano di Čechov al Teatro Manzoni di Milano e fu proprio l’articolo di Marco Praga sulla sua interpretazione che incuriosì Luigi Pirandello a tal punto da indurlo a scrivere a Talli per scritturare Marta come prima attrice proponendole due copioni e lasciando a lei la scelta, una sfida per misurare coraggio e sensibilità artistica. Naturalmente Abba non tradì le aspettative, optò per Nostra Dea di Massimo Bontempelli e partì per il Teatro Odescalchi di Roma insieme alla madre. «Un uomo calvo e con una piccola barba a punta, nell’oscurità del palcoscenico, il viso pallido e solcato era balzato in piedi con una agilità portentosa, in contrasto col suo aspetto», ecco la prima indimenticabile impressione di Abba alla vista dell’uomo che avrebbe condiviso con lei quella passione che solo chi è devota/o serva/o dell’Arte può conoscere e che costituì le fondamenta di un rapporto intenso che portò Marta Abba ad entrare a far parte della “Compagnia degli Undici” diretta da Luigi Pirandello, diventandone co-creatrice e interprete della Ragazza in Sei personaggi in cerca d’autore, della Signora Frola in Così è (se vi pare) e protagonista in Vestire gli ignudi. Il successo fu grande soprattutto a Londra e nella tournée che seguì in Europa portando la Compagnia a Parigi, in Svizzera, in Cecoslovacchia, in Austria e in Germania. Marta Abba però fu contrariata quando il Maestro decise di sostituire il dramma in cui lei era protagonista con altre opere per il fatto che l’attore che calcava la scena con lei era stato giudicato mediocre: visse ciò come una profonda ingiustizia e decise che alla fine della scrittura, che la obbligava al Teatro d’Arte di Roma, l’avrebbe lasciato. Cambiò presto idea però quando la compagnia rientrò in Italia e rischiò di perdere il Teatro Odescalchi a causa di debiti pregressi che Pirandello riuscì a saldare ricorrendo a tre Premi concessi dal Ministero della Pubblica Istruzione che placarono i creditori, ma non servirono a mantenere la compagnia, compito oneroso e difficile a causa dello scontro aperto ingaggiato con chi deteneva in Italia il monopolio dei teatri, dei repertori e delle compagnie: Pirandello se ne assunse la responsabilità e stare vicino a lui, sostenerlo in questa lotta per la loro Arte, dissuase Marta dai suoi propositi e decise di rimanere, nonostante la compagnia faticasse ad ottenere ingaggi in Italia, dove riusciva a lavorare solo in realtà piccole e provinciali. Il Maestro tentò ancora la carta dell’estero e questa volta fu l’America Latina ad accogliere favorevolmente la “Compagnia degli Undici” che, tornata in Italia, conquistò Napoli, ma a Roma incontrò nuove difficoltà: prima venne stroncata la nuova opera di Pirandello, La nuova colonia, e poi fu la volta di Abba che, nonostante i consensi del pubblico, divenne bersaglio della critica. La successiva crisi profonda convinse l’attrice che fosse necessario un doloroso, ma consapevole e da lei stessa voluto distacco dal Maestro: dovevano separarsi per ritrovare la loro Arte.

Aiutata dal padre, fondò una compagnia sua: la “Marta Abba” e portò in giro le sue maggiori interpretazioni del repertorio pirandelliano, ma ancora una volta, nonostante il successo popolare, la critica stroncò Abba catalogando la sua compagnia come una copia della “Compagnia degli Undici”. Fu allora che Pirandello scrisse per lei e per le/gli attrici/tori da lei guidati Come tu mi vuoi e, dopo averla messa in scena, Abba fondò un’altra compagnia accrescendo il suo repertorio con drammi tratti anche dalla narrativa ottocentesca come Anna Karenina di Tolstoj e Grillo del focolare di Dickens. Nonostante l’enorme sforzo fisico che ne aveva un po’ compromessa la salute, Marta Abba non rifiutò la sfida lanciatale poi dal Teatro Saint-Georges di Parigi di recitare in francese nell’opera pirandelliana L’uomo, la bestia e la virtù, dove l’attrice diede prova di avere grandi doti artistiche che le permisero di ricreare la sua parte attraverso una perfetta padronanza linguistica che le consentì di forgiare nuovi movimenti, ma non solo: la leggerezza conferita al suo ruolo fu abilmente creata sfruttando anche i costumi e gli accessori fatti realizzare personalmente; insomma «Marta Abba in una sola sera aveva conquistato Parigi», come scrisse un critico. E non si fermò: a Napoli interpretò La vedova scaltra di Goldoni e poi a Palermo e in Sardegna riscosse nuovi consensi, infine a Roma dove mise in scena opere di giovani autori dando loro notorietà. Conquistò poi Torino e proprio nella città prima capitale non solo politica, ma anche cinematografica d’Italia, si chiese come mai non fosse stata ancora scritturata per una pellicola, decise allora di avventurarsi in un mondo nuovo che la portò comunque al successo con la pellicola Teresa Confalonieri, vincitrice del primo premio al Festival Internazionale Cinematografico di Venezia; ciò tuttavia non le permise di sfondare nel settore forse perché, come scrisse nel 1931 in Un’attrice allo specchio, lei non volle in nulla e per nulla assomigliare alle eroine dei film d’oltreoceano e soprattutto si oppose fermamente a quello stereotipo di genere legato alle attrici giudicate «donne sensuali, ammalate di superbia, caparbie per debolezza nervosa; interessanti come modelli di estetiche virtù, vanitose e perverse, capricciose e cattive, sciocche e vuote».
Dopo la morte del Maestro, continuò a portare in scena le sue opere e quelle di altri grandi autori del teatro italiano ed internazionale; durante una tournée conobbe il rampollo della prestigiosa famiglia di industriali americani Millikin, lo sposò nel 1938 e si trasferì a Cleveland dove rimase fino al 1952 quando, dopo aver divorziato, ritornò in Italia facendo ancora qualche sporadica apparizione teatrale per poi ritirarsi. Colpita da una paresi che la costrinse sulla sedia a rotelle, trascorse gli ultimi anni della sua vita a San Pellegrino Terme in una casa di cura e chissà perché io, in questa ultima fase della sua vita, le ho sempre associato Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno, centomila, che decide di risiedere in un ospizio in campagna lontano da tutto e da tutti, rifiutandosi di concludere, ma scegliendo di vivere, libero da maschere e trappole identitarie, attimo dopo attimo immergendosi nel flusso incessante della vita.
Marta Abba si spense così il 24 giugno 1988 a Milano, «creatura pirandelliana», come disse di lei Luigi Antonelli, «che il drammaturgo aveva trovato un giorno sulla sua strada, meravigliatissimo di non averla inventata lui». Certo è che da quando lei entrò nel mondo di lui, questo si arricchì di un femminile fatto di voce, nervi, gesti e passi e di scatti capaci di mettere in movimento le parole, di dare incanto all’immobilità, di illuminare la tragedia. Insomma, Marta Abba e Luigi Pirandello inconsapevolmente si aspettavano e, fortunatamente, si incontrarono.
Articolo di Alice Vernaghi
Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.