La mia tesi di laurea, che ho deciso di far “vagare” grazie alla bella iniziativa intrapresa da questa rivista, risale al 2015 e riguarda un argomento che, come appassionata di lingue e di questioni di genere, mi sta molto a cuore: il sessismo linguistico. Già sensibile a queste tematiche, mi stavo infatti chiedendo da qualche tempo se le discriminazioni e gli svantaggi subìti dalle donne nella vita quotidiana non si riflettano in qualche modo anche negli usi linguistici e nella struttura stessa delle parole che usiamo ogni giorno. Mi sono trovata, quindi, a pensare che, forse, come il diavolo la cui più grande astuzia è convincere il mondo che non esiste, anche in una lingua che crediamo neutra, in realtà, avrei trovato tracce di quella discriminazione e mi sarei accorta che la lingua che parliamo tutti i giorni è costruita e pensata per gli uomini. È stato così che ho scoperto quanto il femminile, nella nostra lingua, abbia spesso il sapore di un incidente di percorso, qualcosa che mina uno dei suoi princìpi cardine, l’economia, obbligando i parlanti e le istituzioni a incorrere in fastidiosi inciampi e indecisioni qualora debbano includere le donne in un discorso. Quanto sarebbe più facile poter parlare solo al maschile! In fondo si capisce che nel maschile sono inclusi tutti! Perché complicarci la vita con noiosi raddoppi (bambini e bambine) o splitting (cari/e colleghi/e), o faticare cercando una neutralizzazione dei termini (i diritti dell’infanzia) quando si può parlare al maschile includendo tutti?
Queste domande saranno venute alla coscienza di più di una persona, ne sono sicura, ed è per questo che ho deciso di approfondire il tema e capire le ragioni profonde per cui è importante, invece, lottare per la presenza del femminile all’interno della lingua, in modo che non venga mai oscurata a causa della fretta o della distrazione: perché ciò che può sembrare accessorio, una questione di lana caprina è, in realtà, sostanziale, e va a convergere con tutti gli altri tipi di violenza che colpiscono le donne in ambito sociale. Ed è difficile non notare quanto il togliere loro, letteralmente, le parole per rappresentarsi, sia ben lontano dall’essere un problema secondario.
La lingua contiene al suo interno, infatti, diverse tipologie di discriminazione sessista, fra le quali la prima e più evidente riguarda la carenza di termini che abbiamo a disposizione per “parlare delle donne” e rappresentarle adeguatamente. L’impianto androcentrico della nostra lingua, a partire dal doppio uso (generico e specifico) del maschile, produce innanzitutto alcune dissimmetrie grammaticali che escludono o cancellano il femminile, come l’occultamento sia della presenza che dell’eventuale assenza delle donne da un contesto, con l’effetto di trasmettere l’idea che il contributo femminile nella storia e nel pensiero sia stato pressoché inesistente; la designazione frequente delle donne come categoria a parte quando si parla di gruppi (“vecchi, pensionati, disoccupati e donne”) che alimenta il dubbio se esse siano o meno comprese nel maschile generico, nonché la concordanza sempre al maschile di aggettivi e verbi quando in un gruppo è presente anche un solo uomo (inglobamento del femminile). Ma il femminile soffre anche di limitazioni semantiche, in quanto un plurale non sarà mai rappresentativo di entrambi i generi, perciò, se affermo che «Anna Magnani è una delle più grandi attrici del Novecento», non potrò che relegarla nel gruppo delle attrici donne, a meno di non ricorrere ad artifici quali «una delle più grandi fra attrici e attori». Stesso tipo di limitazione colpisce i sostantivi maschili che terminano in –tore e –sore, infatti, come spiega la consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, si riscontrano problemi quando il suffisso –tore è preceduto da una consonante diversa da t (esempio impostore, gestore, pastore, tintore): in questi casi infatti le sequenze –strice e –ntrice, che ne derivano, risultano abbastanza difficili e forme del tipo pastrice, tintrice, impostrice non sono ammesse. Il problema più grave riguarda però i sostantivi in –sore, la cui derivazione femminile risulta estremamente faticosa, e talvolta impraticabile. Alcuni, come evasore, possessore, trasgressore, possono formare il femminile aggiungendo il suffisso –itrice alla radice dell’infinito del verbo da cui derivano (evad-ere; possed-ere; trasgred-ire), ottenendo così le forme, non comuni: evaditrice, posseditrice, trasgreditrice. Altre forme in –sore, tuttavia, risultano in pratica impossibili da volgere al femminile (ad esempio predecessore, successore, uccisore, confessore) a meno che non si ricorra al suffisso di origine popolare –sora. Si tratta comunque di forme non diffuse e non stabili, per questo è sconcertante il fatto che, comunemente, non si avvertano tali vuoti linguistici nei confronti del femminile come un problema, e ciò aiuta a comprendere fino a che punto la lingua non renda conto in modo naturale della realtà, bensì sia frutto di una prospettiva culturale ben definita.
Un altro ben noto problema è quello della “polarizzazione semantica”, che dimostra come le donne, nell’ottica maschile del linguaggio, siano continuamente ricondotte al loro comportamento sessuale come valore o disvalore, mentre ciò non accade mai agli uomini, che vengono valutati nella loro complessità di esseri umani, in modo neutrale.
Abbiamo infatti numerosissimi esempi di coppie di espressioni che cambiano completamente significato se declinate al femminile o al maschile: uomo perbene/ donna perbene, uomo disponibile/ donna disponibile, ragazzo serio/ ragazza seria, onore di un uomo/ onore di una donna (castità), un professionista/ una professionista, uomo pubblico/ donna pubblica, ma anche il governante (di uno Stato)/la governante (della casa), ciò che mostra quanto nella nostra lingua sia tuttora fortemente impressa l’idea che l’ambito di competenza degli uomini sia la vita pubblica, e le loro qualità si misurino su valori positivi che dimostrano in questo contesto, mentre l’ambito di competenza delle donne resti la sfera privata, e il loro valore risieda unicamente nella condotta che tengono nei confronti della sessualità.
La più grande delle dissimmetrie semantiche fra maschile e femminile, riguarda, infatti, la censura della libertà sessuale della donna, stigmatizzata da una lunghissima serie di espressioni, quali ragazza facile, o di facili costumi, prostituta (con i suoi innumerevoli sinonimi), ma anche termini più leggeri quali civetta, o giuridici come concubina: una serie che non ha alcuna corrispondenza al maschile, tanto che si parla, in questo caso, di vuoto terminologico.
Per capire meglio le radici della questione, si può senz’altro affermare che il nocciolo della diseguaglianza fra maschile e femminile nel linguaggio, che, come detto, si lega a doppio filo con la diseguaglianza sociale fra i due generi, risiede nel fatto che il maschile sia il genere non marcato, cioè valido per indicare in modo generico uomini e donne, mentre il femminile sia il genere marcato, cioè specifico per le sole donne.
Ciò implica, come afferma Luce Irigaray in Parlare non è mai neutro (1991) «che il soggetto parlante, che istituisce misura, è quello maschile. Perché può essere soltanto l’uomo che, partendo da una percezione scontata di sé (non marcata), percepisce la donna come differente da sé e la pone dunque in quella forma diversa, che viene in battuta seconda.» Perciò è inevitabile che l’esperienza femminile trovi difficoltà nell’esprimere sé stessa e nel vedersi rappresentata con parole che gli siano proprie. La forma femminile della lingua è, come dice Patrizia Violi (1986), un «linguaggio parassitario»: sono gli uomini, infatti, ad essere prescelti come rappresentanti e portavoce dell’umanità, nonché prototipi della specie, come ben si nota in qualunque manuale di storia, dove troviamo a rappresentare l’evoluzione umana solamente immagini di esseri umani maschi. Essi sono la norma, il canone: come spiega Bourdieu (1998) «la forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi: la visione androcentrica si impone in quanto neutra e non ha bisogno di enunciarsi in discorsi miranti a legittimarla». Il linguaggio perpetua, quindi, la visione del femminile in una costante ottica di alterità e diversità. Noi siamo “l’altra metà del cielo”, e lo rimarremo finché non potremo accedere a delle parole che siano nostre, finché non smetteremo di sentire che «ministra è cacofonico» e «sindaca suona male», finalmente il nostro genere smetterà di essere inglobato dal maschile e troveremo una nostra voce.
La tesi integrale è consultabile al link: https://toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/69_Simi.pdf
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Articolo di Valentina Simi
Laureata in Lingue e letterature straniere, insegna francese nella scuola secondaria. Da sempre interessata agli studi di genere, ha conseguito il perfezionamento post laurea all’università di Firenze “Femminicidio e violenza di genere” organizzato dalla prof.ssa Simonetta Ulivieri.
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