La fucina di Vulcano. L’olfatto

Ho sempre sognato di iniziare un racconto con un incipit immortale: Chiamatemi Ismaele, oppure: Quel ramo del lago di Como, o anche: Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, eccetera. Ma il più bello di tutti, per me, è: Macchiffastapuzza (Doukipudonktan), che apre Zazie nel metró. Ecco, un libro che comincia con la puzza mi sembra già di per sé straordinario. E non perché ami particolarmente il tanfo, ma perché mi pare una materia da romanzo, mentre il profumo non lo è per niente (Il profumo di Patrick Süskind, per esempio, parla di un tizio poco piacevole, dotato di un talento unico per la profumeria ma, lui, del tutto inodore: inquietante!). Le essenze preziose e raffinate che scaturiscono dalle pagine delle Relazioni pericolose sono esiziali e la scia di fiori morti lasciata talvolta in ascensore dall’anziana matrona del quarto piano mi dà la nausea.
I miei primi ricordi olfattivi non sono delicati, ma mi suscitano sempre un sentimento di nostalgia. L’odore di decomposizione dei canali di Venezia in certi giorni di scirocco mi richiama episodi della cosiddetta infanzia felice e, quando mi capita di avvertire qualcosa di simile, chiudo gli occhi per afferrarlo ma, come Proust con la sua madeleine, non c’è verso. Sparisce: sparisce la sensazione, sparisce il ricordo e, semmai, resta solo una vaga puzza indeterminata e inutile. D’altro canto, gli odori che formano il nostro mondo sensoriale non sono quasi mai essenze griffate: queste sono fabbricate e comprate in serie, predeterminate, livellate su mode dettate da chissà chi e io, sinceramente, le detesto. L’odore della cantina in cui andiamo per riporre o prendere qualcosa, e dove invece rinveniamo per caso un oggetto dimenticato e caro – un vecchio giocattolo, un ventaglio della nonna, un brutto soprammobile – è solo chiuso e muffa, ma diventa aroma.
Una delle puzze più interessanti della mia infanzia era quella della Purfina, la raffineria di petrolio situata, incredibilmente, dopo la fine di viale Trastevere e a due passi dagli ospedali San Camillo, Spallanzani e Forlanini. Era pazzesco che una raffineria di petrolio spandesse i suoi miasmi fra ospedali (uno dei quali per le malattie polmonari) e quartieri affollati: ma era così. Ce l’avevano messa negli anni Cinquanta perché grosso modo era nella zona industriale capitolina, vicino al mattatoio, alla centrale idroelettrica, al porto fluviale, ai gazometri: insomma, un posto da famiglie operaie, e le famiglie operaie, si sa, a sguazzare nel tanfo gli fa bene alla salute.
Noi abitavamo a Monteverde Vecchio, che all’epoca non era un costoso ricettacolo di maîtres à penser ma un posto normale, con famigliole giovani e dunque spensieratamente sobrie quando non squattrinate, e mucchi di ragazzini. (Potrei scrivere un’elegia su Monteverde com’era, ma è meglio di no, perché ormai non lo è più e mi metterebbe tristezza).
La mia vita si svolgeva tutta nel quartiere, che era come un’isola al cui interno noi pischelletti facevamo quello che ci pareva, però da soli non ne uscivamo mai. Fuori c’era l’Ignoto, e cominciava alla Purfina e alla sua puzzolente Fiamma Eterna.
La Purfina era tutto un groviglio di tubi metallici, cilindri, strutture colossali da cui ci si sarebbe potuto aspettare il lancio di un missile. Era enorme, tanto che quando fu demolita, alla fine degli anni Sessanta, ci costruirono un intero quartiere di palazzoni. In alto, sulla cima di un’altissima rampa d’acciaio in stile Cape Canaveral, c’era un fuoco perennemente acceso che mio padre, interrogato a proposito, diceva nutrirsi di “gas di scarto” onde impedir loro di confluire nell’atmosfera. L’atmosfera in questione, però, non sembrava giovarsene perché la puzza era diffusa e grassa, al punto che in certe giornate il vento la portava per tutto Monteverde. Ma a me piaceva. Era una sensazione futurista che eccitava noi figli del boom economico, ci dava l’idea di un futuro spaziale, di vacanze su Marte, di combattimenti vittoriosi contro alieni verdognoli e squamosi.
Quando, all’inizio degli anni Sessanta, mio padre comprò una splendida Cinquecento Giardiniera bianca, prendemmo a fare gite domenicali. Non erano gite lunghe, anzi: quasi sempre andavamo nella grande falegnameria di Aldo alla Magliana, un capannone circondato da un vasto terreno incolto e desolato, con cataste di tronchi e assi e dove i suoi cani piuttosto pulciosi scorrazzavano in banda. Io mi portavo il fucile ad aria compressa e sparavo ai topi e alle lucertole con Sandro e Serenella. I topi no, ma le lucertole le beccavamo sempre: non c’era, all’epoca, il sentimento di ecologia che c’è adesso, né in noi alcun ritegno nell’ammazzare bestie che ritenevamo semplicemente schifose (e, a ben vedere, io non ho regalato mai armi ai figli e alla figlia, ma forse ha ragione Umberto Eco quando dice che, tutto sommato, l’importante è insegnare da che parte si sta quando bisogna sparare).
Da Monteverde alla Magliana il tragitto è breve: oggi non sarebbe considerata una gita. Ma per me era un viaggio perché, nel percorso, passavamo davanti alla Purfina, sotto la sua fiaccola e in mezzo alla sua puzza, e io mi sentivo al cospetto di Vulcano nella sua fucina. In quale altro posto avrei potuto fare un viaggio più eccitante?
Aldo era simpatico e menefreghista. Pare fosse sua convinzione che l’acqua sia dannosa alla pelle, e che si lavasse solo frizionandosi con l’alcol. Pare fosse anche un falegname straordinario (oggi diremmo: ebanista e designer) e che avesse costruito arredamenti raffinatissimi per gente importante, e pure il teatro domestico di Vittorio Gassman, con cui, si diceva, era in rapporti cordiali. Per me era un adulto strampalato, che vestiva con vecchi maglioni neri a dolcevita, parlava lentamente e faceva battute sottili che spesso non capivo. Un personaggio interessante. Non credo sapesse con precisione quanti cani vivessero alla falegnameria, né li chiamava mai con alcun nome. Abitava a San Saba e faceva regolarmente il giro di Testaccio, fra mattatoio e trattorie, per farsi dare scarti e avanzi per i cani. Non li curava – il suo credo era fondamentalmente “vivi e lascia vivere, e pure morire” – ma li nutriva regolarmente perché gli tenevano lontani ladri e sorci. Era un rapporto utilitaristico, ma onesto. Io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me.
Eravamo abituati alla cerimonia del pasto alle belve. Aldo apriva il cofano della sua Millecento dal colore indefinibile e ne estraeva interiora, rigaglie, ossa, carcasse che poi buttava in un vecchio fusto di benzina arrugginito e bolliva per ore. La puzza che ne usciva era inquietante. I cani si aggiravano attorno al bidone ribollente scodinzolando e guaendo e Aldo, quando finalmente la zuppa era pronta – ovvero quando lui se ne ricordava – la versava in catini sbreccati e i cani ci si fiondavano entusiasti, urlandosi addosso per stabilire le gerarchie.
Mentre noi ragazzini sparavamo e ci raccontavamo cose che i grandi era meglio non sentissero, i grandi giocavano a scalaquaranta e si raccontavano cose che i figli era meglio non sentissero.
Una domenica di solleone all’inizio dell’estate le chiacchiere e le carte dovettero essere più interessanti del solito. Aldo se ne stette con moglie e amici sotto un ombrellone fino al tramonto, con teglie di timballo e di parmigiana e un secchio di ghiaccio, birre e acqua (l’unico liquido che lui bevesse, essendo l’alcol solo per uso esterno) mentre i cani roteavano nervosi intorno alla Millecento, ululando e ringhiando. I miei e i genitori di Serenella sbirciavano preoccupati quella cagnara e cercavano di attirare l’attenzione di Aldo, ma lui era beato fra carte e barzellette e non ci faceva caso. Quando cominciò a farsi buio noi tornammo dai nostri genitori perché ormai le lucertole non si vedevano più e le parole ce le eravamo già dette tutte, e a quel punto qualcuno dei grandi chiese: ma i cani oggi non mangiano? Aldo ristette un momento senza capire, poi si batté una mano sulla fronte ed esclamò: «La capoccia!». Si alzò dalla sedia a sdraio sdrucita, si diresse all’auto fendendo il branco incattivito, aprì il cofano e fu l’Apocalisse. Dal cofano uscì uno stormo di mosconi ronzanti. Aldo estrasse dall’auto una enorme testa di bue, collocata lì ventiquattr’ore prima e semiputrefatta dalla lamiera bollente della Millecento rimasta tutto il giorno sotto il sole, e la ributtò subito dentro. La puzza che ne uscì fu inenarrabile. Mia madre, la mamma di Serenella e la moglie di Aldo impallidirono e sembrarono sul punto di svenire; i padri pure, ma mascherarono il malessere con improperi. Aldo invece si riprese quasi subito, entrò nel capannone e ne uscì con delle enormi tenaglie con le quali agganciò la testa per le corna – nemmeno lui avrebbe osato toccarla con le mani – e la buttò nel bidone, lo riempì d’acqua con un tubo di gomma e accese il fuoco nel grosso fornello a gas.
Noialtri non aspettammo il rito del pasto. Salutammo frettolosamente, ci infilammo nella Cinquecento e tornammo a casa.
Durante il viaggio i miei commentarono con riprovazione il comportamento di Aldo e lo schifo provato, ma conclusero: be’, si sa, Aldo è Aldo.
Io ero stanchissimo, come sempre dopo quelle domeniche, ma mi tenni ben sveglio perché volevo vedere la fiamma della Purfina nell’oscurità, che era ancora più olimpica. Ne aspirai la puzza e ne ebbi, come sempre, un sentore di futuro.
Anni dopo andammo via da Monteverde, e mi si spezzò il cuore. I miei trovarono un bell’attico con un enorme terrazzo a un prezzo convenientissimo, in un palazzone fresco di cantiere. La zona c’era chi la chiamava “l’isola” e ci fu qualche spiritoso che tentò di ribattezzarla “Nuovo Trastevere”, ma i più la conoscevano come “Ex-Purfina”. La raffineria era stata – giustamente – eliminata e i palazzinari avevano fatto il resto. I miei ancora ci abitano. Non è un brutto posto e di certo non ci vivono i maîtres à penser, ma in tutti quei metri cubi di cemento non c’è nulla di memorabile. Palazzi su palazzi, che non faranno mai sognare a nessun ragazzino la fucina di Vulcano e il suo sano fetore.

 

 

Articolo di Mauro Zennaro

RXPazl9rMauro Zennaro è grafico e insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e la chitarra in una blues band.

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