Qual è la magia della musica, della poesia, degli odori, di dettagli apparentemente insignificanti? Quello di suscitare il meccanismo della “memoria involontaria” che Marcel Proust nel suo capolavoro la Recherche ha descritto alla perfezione.
«Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me.
All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…»
Uno stimolo esterno, apparentemente, innocuo ha il potere di farci recuperare tutto un mondo interiore che pensavamo essere sepolto per sempre nella nostra anima. Ma non si tratta di un recupero volontario, infatti se io volessi ricordare cosa ho mangiato domenica scorsa sarebbe una impresa inutile e titanica. Se, al contrario, annuso nell’aria l’odore del pomodoro fresco con il basilico, con tutta probabilità nella mia mente si materializzerà non solo la tavola apparecchiata ma, si spera, il piacere che si prova nella condivisione del pranzo domenicale.
Mi capita a volte di sentire alla radio, oppure da qualche casa lontana l’eco di What a wonderful world. La prima cosa che faccio è fermarmi. L’incipit della canzone ti prende per mano trasportandoti in un mondo di dolcezza e di incanto. Poi mi guardo intorno e chiudo gli occhi. La prima cosa che vedo è il sorriso bonario di Louis Armostrong che canta con i suoi inconfondibili occhi quasi fuori dalle orbite e la sua leggerezza che sembrano, da soli, un inno alla vita.
«Vedo alberi verdi, anche rose rosse
Le vedo sbocciare per me e per te
E fra me e me penso, che mondo meraviglioso.
I see trees of green, red roses too
I see them bloom for me and you
And I say to myself, what a wonderful world.»
Sono elementi semplici, alla portata di tutti: rose e alberi che ci trasmettono la meraviglia del mondo che non sappiamo più vedere al contrario di bambini e bambine che si stupiscono, persino di come tremano le foglie al vento.
La seconda cosa che vedo è il viso dall’incarnato rossiccio di mio padre. Quando lui si divertiva a cantare questa canzone, io ero poco più che una adolescente e non appena partono le prime note lo rivedo: è lì, con la sua massiccia statura che riempie tutto il salotto, stanco dal lavoro, ma sorridente e leggero mentre tenta di intonare qualche nota della voce inimitabile e inconfondibile di Louis Armostrong. Era davvero buffo, e quel piccolo siparietto metteva allegria alla fine della giornata. Qualche volta la cantava in macchina, allora mi guardava e si avvicinava come se quel momento fosse unico, eterno e incorruttibile. Un momento condiviso con una canzone cantata in un imperfettissimo inglese, ma ugualmente efficace e divertente. Avete mai provato a cantare in una lingua sconosciuta? Si possono inventare parole senza senso ma quello che resta è la melodia che va dritta al cuore e lì deposita tutte le sue risonanze emotive. Ricordo molte più cose di mio padre attraverso la voce di Louis Armostrong che attraverso le foto o un atto volontario della memoria.
Dice il musicista in alcuni dei suoi pensieri: «Quando suono, penso a quei momenti del passato e dentro di me nasce una visione. Una città, una ragazza lontani nella memoria, un vecchio senza nome incontrato in un posto che non ricordo.»
Lo stesso accade a me.
A proposito della natura del Jazz, Armostrong ad una domanda rispose così: « amico, se me lo chiedi, non lo saprai mai», poiché egli si identificava totalmente con i suoni della sua tromba.
«Vedo cieli blu e nuvole bianche
Il benedetto giorno luminoso, la sacra notte scura
fra me e me penso, che mondo meraviglioso.
I see skies of blue and clouds of white
Bright sunny days, dark sacred nights
And I think to myself, what a wonderful world.»
Da dove nasce, dunque, questa meraviglia del mondo? Armostrong usa un linguaggio religioso che noi abbiamo sostituito con tutto quello che pensiamo ci sia dovuto e con la routine della quotidianità: benedice la luce del giorno e la sacralità della notte.
Mi piace immaginare che cogliere l’essenziale di questa dimensione è stato possibile grazie al singolare sviluppo della sua vita, destinata sul nascere ad essere una di quelle esistenze devianti delle periferie nere di New Orleans, e all’incontro con la musica Jazz che, agli albori, ha usato scarti per produrre suoni: le trombe in disuso della Guerra civile e pianoforti scordati. Fu così che alcuni uomini neri, utilizzando quello che non serviva più o ritenuto di poco valore, iniziarono a suonare e improvvisare strane melodie.
Louis Armostrong, infatti, fu presto abbandonato dalla madre, probabilmente una prostituta, e dal padre per essere affidato alle cure della nonna materna. Passò anche qualche anno in riformatorio perché venne scoperto dalla polizia mentre sparava con un revolver durante la festa di Capodanno. Tuttavia, proprio in carcere la sua vita cambia. Entra a far parte del coro e il suo maestro gli regala la cornetta, una sostituta della tromba. Ezio Bosso, in una delle sue ultime interviste, dichiarava che la musica lo aveva scelto perché lui ne aveva più bisogno degli altri per sopravvivere. Credo che ad Armstrong sia capitato lo stesso. Il suo talento, senza gli incontri giusti e senza che la musica avesse scelto di albergare dentro “Satchmo” (era il suo sopranome che significa “bocca a sacco”) per essere donata all’umanità, avrebbe fatto di Armostrong uno dei tanti che passano sul palcoscenico del mondo senza lasciare traccia nemmeno tra gli affetti più cari.
«I colori dell’arcobaleno, così belli nel cielo
Sono anche nelle facce della gente che passa
Vedo amici stringersi la mano, chiedersi “come va?”
In verità stanno dicendo “Ti voglio bene”
The colors of the rainbow are so pretty in the skies
Are also on the faces of the people walking by
I see friends shaking hands saying
How do you do?
They’re really saying love you.»
Armstrong era così: cordiale, allegro sul palcoscenico e disponibile a incontrare la gente come vecchie amicizie alle quali chiedere: «… Ehi come stai ? Ti voglio bene!»
Infine, l’ultima strofa della canzone ci parla dei più piccoli:
«Sento bambini che piangono, li vedo crescere.
Impareranno molto più di quanto io saprò mai
E fra me e me penso, che mondo meraviglioso
Sì, fra me e me penso, che mondo meraviglioso
Oh sì
I hear babies cryin’. I watch them grow.
They’ll learn much more than
I’ll ever know
And I think to myself
What a wonderful world
Yes I think to myself
What a wonderful world.»
Cos’è , dunque, questo mondo meraviglioso di cui ci parla Armostrong con il suo sorriso bonario e confortante? Un insieme di cose: la natura, un arcobaleno dopo la pioggia, un/a amico/a a cui poter dire ti voglio bene, i bambini che fanno dell’arte di stupirsi e di imparare una sublime e inconsapevole virtù.
Questo mondo integro Armostrong ce lo ha regalato attraverso la musica, quella che esiste da sempre, forse come dono di Dio, e che lui ha avuto la sensibilità di portare qui sulla terra a darci emozioni, per ricordarci che lo spirito e la materia hanno bisogno di una loro intrinseca complicità per provare stupore, per custodire i ricordi.
In ricordo del mio adorato padre Ferlo Nastasi.
Articolo di Giovanna Nastasi
Giovanna Nastasi è nata a Carlentini, vive a Catania. Si è laureata in Pedagogia e Storia contemporanea e insegna Lettere negli istituti secondari di II grado. La sua passione è la scrittura. Ha pubblicato un romanzo, Le stanze del piacere (Algra editore).