Di fronte alle centinaia di cartelle cliniche di donne internate in manicomio sorge spontaneo chiedersi il perché di quegli internamenti. Perché così tante donne furono private della loro libertà? Che cosa aveva spinto i loro parenti e la società intera a considerarle folli e quindi bisognose delle cure manicomiali? E ancora: quali erano quei pensieri, quelle parole o quelle azioni che avevano condotto così tante donne alle porte dei manicomi?
Per trovare le risposte a queste domande per prima cosa è necessario ricordare che i regolamenti manicomiali italiani, ben prima della legge unica sui manicomi del Regno del 1904, avevano fatto proprio il principio di pericolosità del/la malato/a di mente e di conseguenza prevedevano l’internamento unicamente per i pazzi pericolosi. La malattia mentale da sola non era dunque determinante nella scelta dell’internamento, lo era invece la pericolosità del soggetto che poteva divenire una potenziale minaccia per l’ordine costituito e che per questo andava allontanato dalla società e internato.
Analizzando le richieste di ammissione in manicomio, per lo più redatte dai parenti delle internate, si evince chiaramente come la pericolosità delle donne fosse legata all’adesione o meno ai modelli femminili imposti, come quelli di moglie e madre “angelo del focolare” e di figlia devota e rispettosa. Non deve sorprendere quindi di trovare numerosi casi di donne internate perché ritenute incapaci di prendersi cura della casa e della propria famiglia e di mostrare quei sentimenti di amore coniugale e di affetto materno dettati dal nuovo modello di famiglia borghese che si stava affermando nel XIX secolo.
Vi erano poi donne internate perché considerate “ribelli”: in questi casi si trattava di donne che si erano opposte all’autorità paterna o maritale e alle loro decisioni. Esse, il più delle volte, non si erano volute uniformare al modello di un’identità femminile muta e rispettosa e avevano manifestato il proprio dissenso attraverso la propria voce o le proprie azioni.
Analizzando le richieste di ammissione si possono osservare anche casi di donne condotte in manicomio perché avevano tentato più volte di fuggire di casa: indagando la loro storia personale si scopre come per molte di loro la fuga rappresentasse, da un lato, un modo per manifestare la propria incapacità o la non volontà di aderire al modello di comportamento imposto e, dall’altro, un modo per scappare da relazioni familiari e da un vissuto quotidiano fatti di violenze e maltrattamenti.
La pericolosità delle donne era inoltre strettamente correlata alla sfera dell’onore e della morale: in particolare una sessualità femminile “fuori controllo” era considerata pericolosa sia per la virtù della donna stessa e della sua famiglia sia per quella di tutta la comunità. Come sostenuto dalle autorità religiose e di pubblica sicurezza, giovani lascive e “scandalose” potevano avere cattive influenze sulle altre donne ma anche sugli uomini della comunità e quindi se ne richiedeva l’internamento perché «di scandalo alla pubblica morale».
Come si è potuto fin qui osservare la follia era pensata, “costruita” e individuata in seno alle famiglie e alla società civile ben prima che le donne varcassero le mura manicomiali.
Ma cosa accadeva alle donne una volta entrate negli ospedali psichiatrici? Qual era il rapporto degli alienisti con le pazienti? Sulla base delle loro teorie e studi, come interpretavano e spiegavano quei comportamenti, messi in atto dalle donne, che familiari e società avevano ritenuto deviati e devianti?
Per poter comprendere il punto di vista degli alienisti sulla follia femminile è necessario sottolineare come le teorie elaborate dalla nascente psichiatria furono influenzate dalle tesi che la comunità scientifica e medica aveva espresso sulle donne e sulla loro “naturale” inferiorità.
Il XIX secolo, infatti, vide l’affermarsi di numerose teorie, sostenute dai più illustri scienziati e intellettuali dell’epoca, che postulavano l’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Pur essendo da sempre esistite teorie misogine che asserivano tale inferiorità, in questo caso quest’ultima era per la prima volta sancita scientificamente: era la scienza moderna a decretare l’inferiorità del genere femminile.
Per la cultura scientifica del secolo il segno più evidente di questa inferiorità era il corpo stesso delle donne, un corpo inferiore, in tutto, a quello maschile: meno alto, meno muscoloso, con uno scheletro più esile ma, soprattutto, con un cranio di dimensioni minori. Quest’ultimo, segno “evidente” della minore intelligenza femminile, poneva l’inferiorità della donna rispetto all’uomo non solo sul piano fisico ma anche su quello mentale e intellettuale.
Sulla scia del determinismo biologico, ampiamente diffuso nelle scienze mediche del XIX secolo, e a partire dall’idea della centralità, nella vita della donna, della maternità, il corpo e la mente femminili vennero descritti come plasmati e strutturati da e per un unico compito: essere madre.
Così, per giustificare e spiegare l’esistenza dell’inferiorità della donna gli scienziati dell’Ottocento partirono dalla funzione principale che le attribuivano: la procreazione. Come sostenuto da Babini: «l’affermazione del primato della maternità nella vita biologica e psichica della donna fu la base su cui venne costruita la concezione scientifica della “natura femminile” e dell’inferiorità mentale della donna».
Queste idee furono abbracciate e fatte proprie dagli alienisti che iniziarono a porre un’attenzione speciale al corpo femminile e al legame tra “genitalità” e “nervoso”. Così il corpo delle donne, simbolo della loro inferiorità, fu identificato come la causa principale dell’emergere della follia: le sue scansioni naturali e i suoi ritmi erano per gli psichiatri delle “anomalie” al punto che per loro «l’intera vita femminile era disseminata di eventi patogeni: la pubertà, il ricorrere dei mestrui, la menopausa, sono ostacoli che la donna deve superare e spesso in questa lotta l’intelligenza soccombe».
Partendo da queste teorie sull’inferiorità e sulla predisposizione “naturale” delle donne alla follia, gli alienisti “costruirono” e individuarono specifiche malattie mentali femminili, tra cui la principale fu senz’altro l’isteria.
Questa patologia fece la sua comparsa nei manicomi italiani dagli anni Ottanta dell’Ottocento e, come definita da Lombroso, si trattava di una “esagerazione del carattere femminile” ed era correlata alla vita sessuale. Non sorprende quindi che le pazienti internate in manicomio con la diagnosi di frenosi isterica fossero descritte come donne inquiete e irascibili, ingannatrici e manipolatrici, troppo loquaci e maldicenti, ma soprattutto come trasgressive e sessualmente disinibite.
L’isteria, malattia storicamente e culturalmente costruita, è così la dimostrazione di come, per gli alienisti dell’Ottocento, un corpo “malato per natura” doveva avere ripercussioni gravi e negative su una psiche debole e fragile come quella delle donne.
Studiare e portare alla luce la storia delle migliaia di internate in manicomio consente, come si è visto, di illuminare l’intero contesto esistenziale, familiare e socio-culturale in cui esse vivevano e in cui esprimevano la propria soggettività. Consente inoltre di far emergere come, nel corso del XIX secolo, la follia femminile fu pensata e “costruita” a partire, da un lato, dalla necessità di mantenere l’ordine costituito e, dall’altro, dall’elaborazione teorica di un femminile “naturalmente” inferiore e vicino alla follia.
Articolo di Ilaria Fazzini
Laureata in Scienze storiche, i suoi interessi di ricerca sono rivolti alla storia delle donne e di genere in età contemporanea. Docente, collabora con la Rai partecipando al programma di divulgazione storica Passato e presente. La sua più grande passione, oltre alla storia, è lo Yoga, disciplina incontrata all’inizio degli studi universitari e mai più abbandonata.
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