Bianco. L’udito

La scuola non sembra nemmeno una scuola. Non per l’architettura, che Federico ne ha viste di tutti i tipi, ma perché mancano quelle vibrazioni, se non quel chiasso, che si sentono in tutte le scuole anche prima di entrarci. Il cancello carrabile è aperto e Federico lo supera, arriva dove vede auto parcheggiate e si ferma proprio fra due di quelle, in uno spazio largo per la sua moto ma non abbastanza per una macchina. In giro nel cortile non si vede nessuno, alle finestre non c’è nessuno e non ne trapela nessuna voce. Eppure la scuola è questa: c’è tanto di targa in bronzo col nome e lo stellone della Repubblica. Federico si toglie il casco e si chiede se chiudere la moto con la catena: decide di sì. Davanti a sé i gradini e l’ingresso principale: li sale ed entra. A un tavolo rivestito in formica finto noce una bidella dall’aria poco collaborativa, con un fermaglio multicolore fra i capelli eccessivamente corvini, lo squadra e gli chiede: «Desidera?». «Buongiorno. Il preside, per favore». «Quella porta là. Ci sta pure scritto». No, simpatica proprio no. Federico bussa alla porta e riceve un invito a entrare. Il preside è un uomo verso i sessanta, moderatamente pingue, con strisce di capelli riportati attraverso il cranio, in completo verde salvia e cravatta rosa, per far vedere che è un tipo serio ma alla mano. Lo accoglie con un gran sorriso e grandi denti, che restano in vista durante tutta la conversazione.
«Benvenuto Professore!» (pronuncia distintamente la P maiuscola) «l’aspettavamo con ansia!» (enfatizza gli esclamativi, un po’ come i denti, e usa il plurale per mettere in chiaro come vanno le cose lì dentro), quindi si produce nelle cordialità di rito e poi va al sodo: «Ha già avuto esperienza con i sordi?». No, risponde Federico, ma si impegnerà per imparare, è molto incuriosito e interessato, e poi la sua è una materia eminentemente visiva eccetera. Il preside offre a Federico, come si porge un caffè, un rapido modulo-promemoria precompilato, benché orale, dello stato delle cose, della scuola, dell’annesso convitto, delle classi ridottissime, della presenza di udenti e no (Federico rimugina che, data la circostanza, sarebbe più opportuno specificare: “non udenti e sì”) e del formidabile valore pedagogico di tale scelta, che pone l’Istituto all’avanguardia eccetera. Le frasi seguenti sono un campionario di cordialità investigative da ambo le parti, che si concludono, dopo alcuni minuti, con un dirigenziale: «Benissimo! La invito dunque a passare in segreteria per le solite, noiose formalità, e a prendere servizio! Da domani sarà dei nostri!». Federico ringrazia, saluta, esce dalla presidenza, bussa alla segreteria, viene accolto con sufficienza da una signora che esibisce una marcata ricrescita di colore contrastante con il resto della chioma, compila e firma alcuni fogli, saluta, poi esce e torna alla moto. È perplesso perché non ha visto né sentito nessuno. Studenti zero.
La Seconda A è formata da due ragazzi e due ragazze. Quando entra stanno gesticolando, lo guardano e gli fanno dei segni. Il preside ha tenuto a specificare che in quella scuola si pratica la lingua italiana dei segni (ha sorriso: «D’ora in poi: Lis!») e che i cosiddetti sordomuti non sono muti, ma molti, non udendo, non hanno mai imparato a parlare. «Vedrà, le cose più interessanti le scoprirà da solo!».
Federico immagina che la classe, muta, lo stia salutando. Quindi risponde lentissimamente, muovendo la bocca in modo plateale, sorridendo (gli ha pure detto, il preside, che è tutta una questione di mimica) e si scusa di non saper segnare: conta sul loro aiuto per imparare. «Prof», lo apostrofa una delle due ragazze, «gl’impariamo noi, non c’è problema. Ah, guardi che qua non siamo tutti sordi, è una scuola mista, io e lei (indica la compagna) siamo udenti, loro (indica i maschi) no. Sordi come campane. Io mi chiamo Pat, che sarebbe Patrizia, ma mi firmo PEF, che sarebbero le iniziali di Patrizia E Francesco». «Ah, Francesco è il tuo ragazzo?», «Macché, prof, magari! Francesco è il mitico Totti! Lei è Deborah (con l’acca mi raccomando) questo secco è Pasquale detto Il Secco e quello ciccione è Gaetano». «Gaetano non capisce che gli dici ciccione?», «Macché, è scemo, mica legge il labiale. Ha tipo vent’anni e sta ancora qua. Allora prof, adesso gl’imparo la cosa più importante, cioè, due: questo che vuol dire segnare» e, aprendo pollice indice e medio delle due mani le fa roteare, «è come fare tre con le dita, no? e poi… com’è che si chiama lei?», «Federico», «allora, la effe si fa così», e gli fa vedere uno dopo l’altro tutti i segni corrispondenti alle lettere che compongono il suo nome. «Così adesso può cominciare. Ma mettiamo subito le cose in chiaro: non è che lei è laziale, no?».
A ricreazione i corridoi sono quasi vuoti. Il silenzio non gli pare piacevole. Non è esattamente silenzio, qualche voce la si sente, insieme a suoni vocali inintelligibili. La scuola è tutta bianca: muri, porte, aule, e quel suono indeterminato lì dentro, non sa perché, sembra associarsi a quel bianco. La bidella col fermaglio vistoso si è collocata dietro un tavolino ricoperto da una tovaglia di carta unta sulla quale stanno alcuni vassoi di cartone con pezzi di pizza rossa e bianca che lei vende agli studenti. Ragazzi e ragazze stazionano davanti a un distributore automatico di caffè e di bibite e hanno l’aria di star chiacchierando. Muovono le mani all’altezza dello stomaco, ridono silenziosamente (ma platealmente) e alcuni esalano suoni che non odono: aria uscita di sfogo dai polmoni e passata quasi per caso tra le corde vocali, fonemi nati dall’apparato respiratorio, non dalla volontà della voce. Non fosse per l’assenza di parole, sarebbero uguali agli studenti che Federico ha visto in altre scuole. L’aria è comunque la stessa. «Segnano basso, vedi? Come tutti gli adolescenti». Federico non si era accorto dell’avvicinarsi della collega. «Nuovo qui, eh? Mai lavorato coi sordi?». Federico si chiede quante altre volte dovrà rispondere a quella domanda. «No. Federico, editoria dello stampato», e le dà la mano. «Marina, italiano e storia. Il caffè fa schifo ma è in tono con tutto il resto. I colleghi vanno tutti al bar qui fuori ma io il barista non lo reggo, fa il lumacone con tutte le donne che entrano. Se i ragazzi, o soprattutto le ragazze, ti fanno segno di saltare la fila, tu non fare il democratico e non le contraddire, perdi di autorevolezza e disprezzi un atto gentile. Non è che ne fanno tanti, eh. Non si fidano di chi sente». «Tu segni?», «Eh, per forza. Se non impari almeno le basi è un guaio. Quando arrivi qua si presume che tu sappia segnare ma, come hai visto al Provveditorato, non gliene frega niente a nessuno. I ragazzi sono carini, se gli sei simpatico ti insegneranno tutto. Se gli sei molto simpatico cominceranno dalle parolacce». «In che senso segnano basso?», «Non lo vedi? Eh già, ancora non lo sai. Si segna sempre alto, appena sotto il viso, così si vedono sia le mani che l’espressione della faccia. Segnare alto e niente occhiali da sole. È l’abicì della lingua dei segni. Ma gli adolescenti hanno quest’aria indolente, molleggiata, scialla insomma, e segnano all’altezza della pancia: così come chi sente, a quest’età, strascina le parole e parla in gergo. È un modo per far capire che se ne fottono».

Appena arrivato a casa, Federico accende la radio, poi ci ripensa e mette un disco, a volume abbastanza alto da sentirlo anche in cucina. Dopo un minuto citofona Mimmo: «Fred, hai fame? Ho portato qualcosina», Federico gli dice di salire. Mimmo, di passaggio dopo alcuni mesi, è classificabile come “forza della natura”: robusto, ottimista, festaiolo, onnivoro, affidabile per qualsiasi incombenza fisica, in grado di sottrarsi all’infelicità anche cambiando tutta la sua vita dalla sera alla mattina. Solido, pragmatico ma disinteressato al guadagno se questo richiede troppo stress. Paola, che ha avuto una breve storia con lui, lo ha definito “una quercia, nel bene e nel male”. Mimmo ha portato un pezzo enorme di guanciale foderato di pepe: «Dai, questo viene dritto da Amatrice, metti su l’acqua che ci spariamo una gricia», e poi: «La scuola? Colleghe carine?». Federico gli racconta a lungo le sue impressioni sorvolando sulla seconda domanda. Mimmo fa il fotografo e interpreta tutto in modo visivo, quindi Federico gli dice: «A te piacerebbe, poche parole e tanti segni. Saresti bravo. Io sinceramente sono un po’ spaesato. Per dire: non hanno mai sentito musica. Eppure pensa, mi hanno detto che vanno in discoteca: il volume è talmente alto e i bassi vibrano così profondamente che loro li sentono nella pancia. Percepiscono il ritmo con tutto il corpo e ballano a tempo pur non udendo niente. Ballare gli piace un sacco». E aggiunge, certo della comprensione visiva di Mimmo: «Parlano senza suono: i loro segni sono come suono bianco».

Ora è primavera. Federico ha imparato una Lis sufficiente – i segni che non conosce prova a rigirarli in altri segni e chiede spesso aiuto a Pat, perfettamente bilingue, e al Secco, che legge bene il labiale – e siccome si è capito subito che non è un bastardo ha imparato anche un utile repertorio di parolacce, così la ricreazione non ha più segreti, grazie anche alla complice collaborazione di Marina. Nel frattempo Pat si è messa col Secco e Federico ha osservato le tenerezze gestuali scambiate fra loro per tutto l’inverno. Si parlano accarezzando l’aria. Ma al ritorno dalle vacanze di Pasqua lei si presenta a scuola pallida, gli occhi senza trucco avvelenati di lacrime. Federico le chiede cosa sia quella faccia e lei risponde «Era meglio se scoprivo che quello era laziale, prof. T’ho detto tutto». A Federico (che decide di sorvolare, per ora, su quel “tu”) dispiace intercettare i gesti che lei indirizza al Secco in quell’aula troppo grande, silenziosa e bianca: gli pare un’intromissione indebita. Ma un segno visto è come una parola ascoltata, sia pure senza volere: difficile far finta di niente. Da un banco all’altro Pat segna al Secco che è un lurido porco e che fa schifo, e continuerebbe a lungo se Federico non alzasse la voce e le imponesse di tacere. «Ma io mica stavo parlando», risponde lei, che neanche in questo frangente abbandona la sua naturale ironia. Il Secco si limita a gesti universali, tipo alzate di spalle, e tace con le mani. Deborah, che non avendo un amore suo partecipa indirettamente di quello della compagna, lo guarda con disgusto e poi ricomincia a studiarsi le unghie rosicchiate e smaltate di blu. Gaetano ridacchia senza far rumore. È un melodramma, però bianco.

Federico racconta a Mimmo quello che ha imparato: «L’udito non è come la vista: è astratto. Per questo quando parliamo possiamo dire cose che non esistono. Per questo abbiamo inventato la musica. Quando guardi invece no, quello che non c’è non si vede. Nella lingua dei segni “io ho un bicchiere” si segna “io bicchiere”. È chiaro, mica posso essere un bicchiere, no? I verbi ausiliari sono un lusso, chi segna impara subito a farne a meno. L’udito ha una sintassi che la vista capovolge: si dice “il bicchiere è sul tavolo”, ma si segna “tavolo bicchiere sopra” perché si vede prima il tavolo, che è più grosso. L’udito può raccontare bugie». Mimmo assente in silenzio mentre spignatta, lui non è tipo da chiacchierare senza far nulla. Sta per ripartire: a Copenaghen lavorerà due settimane in un ristorante italiano per prendere il sussidio che si farà spedire a Manaus, e con quei soldi camperà alla grande sei mesi in giro per l’Amazzonia. È in giro così da due anni ed è contento. Poi tornerà a trovare i genitori ad Amatrice e gli amici a Roma, e ripartirà. Federico ha sempre il divano letto pronto per lui.

Prima degli scrutini Federico litiga con Marina: Gaetano ha la media del due, a essere ottimisti. «Be’, mica per questo lo possiamo bocciare», dichiara Marina. «Ah no? E quand’è che possiamo bocciare qualcuno?». «Se lo bocciamo il padre lo toglie dal convitto e lui se ne torna dritto filato a Battipaglia a zappare per tutta la vita. È questo che vuoi?». «Non è che lo voglio, è che lui con me non ha mai fatto niente. Nemmeno finto di far qualcosa. Non sai quanto ci ho provato. Ho abbassato gli obiettivi minimi fino a rasoterra, ma niente. Pare…», e Marina ride amara: «Pare scemo, no? Dillo», «Sì, se vuoi, pare o scemo o furbo o tutt’e due, più che sordo». Marina lo guarda con risentita tristezza. Gli aveva raccontato, fra le prime cose, che dietro al cucciolo appena nato l’allevatore fa cascare per terra un mazzo di chiavi e se il cucciolo sussulta e si gira vuol dire che ci sente: ma coi bambini non si fa. Che se un bambino non è esposto subito a un linguaggio, uno qualunque, non ne imparerà mai nessuno. Che Gaetano è stato considerato scemo fino a tre anni perché non rispondeva e non parlava, poi un medico ha fatto la diagnosi quasi per caso, quando ormai era tardi. Che la logopedia e tutte le terapie che fa al convitto sono palliativi, ma meglio che niente. Che bocciare uno come lui non ha senso: forse con il pezzo di carta troverà un lavoro decente e soprattutto lontano da casa. Federico ha la consapevolezza di aver parlato a proposito dopo un anno di lavoro testardo e faticoso ma che Marina ha ragione, però il suo amor proprio è un muro. Il massimo che fa Gaetano in classe è guardarlo e ridacchiare, in bianco. Il conflitto dura poco: allo scrutinio il preside vota per la promozione insieme a Marina e alla maggioranza. Federico s’incaponisce e sa che, di quella maggioranza, solo a Marina importa qualcosa di Gaetano: il resto, come tutti gli anni, è solo felice di buttare gli scarti. Si salutano frettolosamente. Se c’era stato qualche proposito di proseguire la vicinanza con Marina anche dopo la scuola, be’, è saltato senza appello.

Mimmo citofona, come sempre, mentre Federico sta per mettersi a cucinare. Viene da Copenaghen, stavolta ha portato una quantità enorme di salmone affumicato, pane di segale e una birra artigianale buonissima. Invita Federico a metterla subito in frigo e intanto ad aprire un paio delle sue “brodazze da supermercato”, che muore di caldo e di sete. Gli racconta i suoi ultimi mesi a zonzo e gli chiede aggiornamenti. Federico, mettendo in tavola due lattine ghiacciate e un panetto di burro salato, racconta la rabbia e la confusione per Gaetano e l’amarezza per Marina. Mimmo solleva i baffi schiumosi dal boccale appannato e commenta, imburrandosi una fetta di pane nero e piazzandoci sopra abbondante salmone: «Marina ha imparato la lezione meglio di te. Tu ci hai sempre messo troppi verbi ausiliari. L’udito racconta bugie, no? Me l’hai fatto leggere tu quel racconto, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Parliamo sempre d’altro e a chi ascolta arriva altro ancora. A te chissà cos’è arrivato da Marina, e chissà cosa hai respinto. Magari se eravate sordi ne veniva fuori una bella storia. Io me ne vado in giro fra Amatrice, Roma, Copenaghen, il Brasile, i mari del Sud e quelli del Nord (mi conosci, fermo ci sto poco) e non ho mai studiato una lingua: capisco quello che serve e mi faccio capire per quello che basta. I discorsi sono una fregatura. Le orecchie dovrebbero dirci solo il mare, gli uccelli, il vento in montagna, la musica: tutta roba che non significa niente. Faccio fotografie e la mia realtà è quello che vedo. Alle orecchie non bisogna crederci».

 

 

Articolo di Mauro Zennaro

RXPazl9rMauro Zennaro è grafico e insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e la chitarra in una blues band.

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