Minica Grieca: guaritrice siciliana

Come è ben noto, in Sicilia, come in tanti altri luoghi, alle donne fu vietato, per molti secoli, di esercitare l’arte medica che era appannaggio solo del genere maschile.
In questa regione ci furono due eccezioni documentate intorno alla fine del 1300, quando si autorizzò l’esercizio professionale a Virdimura de Medico, prima medica siculo-ebrea, e a Bella De Paija, altra medica di Mineo. Ma a fronte di queste due donne brave e che godettero di grande fama, tutte le altre non ottennero riconoscimento, anzi erano additate come streghe o fattucchiere e spesso finivano al rogo. L’isola era piena di guaritrici che si muovevano nell’ambito dei loro territori “abbigliate” di antichi saperi, di credenze e di tradizioni tramandate dalla notte dei tempi da donna a donna e generalmente da madre a figlia. Si prodigavano così per alleviare sofferenze di vario genere. Conoscevano le piante dispensatrici di vita o di morte e anche le dinamiche di parti ed aborti, quindi possedevano il potere di dare alla luce una nuova vita o soffocarla per sempre.Un potere enorme, che faceva paura e che non si addiceva ad una donna. Ed allora come rimediare? Semplice: si inziò a sostenere che le guaritrici avevano stipulato un patto con Satana. Ciò che sgomenta è che questa ridicola teoria venne messa nero su bianco da uomini dotti laureati in filosofia, teologia, giurisprudenza, uno per tutti: san Carlo Borromeo.
Le guaritrici, in effetti, avevano sì stretto un patto, ma non con il diavolo, bensì con la natura che generosamente insegnava loro a lenire dolori e ad alleviare sofferenze, infatti spesso intuivano le forze spirituali che circolavano tra la natura e gli esseri umani. Un bagaglio di esperienza e di saggezza troppo inquietante per essere accettato tranquillamente. Le guaritrici capivano che si poteva stare male fisicamente senza avere alcuna malattia, conoscevano il mal d’amore, la follia, le malattie che insorgevano per solitudine, per incapacità di amare. Sapevano certamente individuare i mali dell’anima, estirparli dal subconscio per non permettere che arrecassero danni alla salute fisica. E con questa loro sapienza affrontavano le malattie di spirito e di corpo preparando tisane, decotti, unguenti, pozioni e recitando orazioni e litanie.
Fra queste migliaia e migliaia di guaritrici, sparse per il mondo, ci piace ricordare la storia di Minica Grieca. Di lei non conosciamo né la data di nascita né quella di morte, ma dai registri dell’Inquisizione sappiamo che visse in Sicilia nel diciassettesimo secolo. Operava in vari paesi collinari ai piedi delle Madonie, tramite rimedi presi sia dalla medicina ufficiale che da quella popolare: realizzava pozioni con zucchero, miele e frutta, strofinava lo zolfo sulla pelle di malati/e di scabbia, adoperava infusi di valeriana per calmare i dolori e infusi di ruta per scacciare gli spiriti maligni. Curava le malattie infantili con l’acqua, un elemento della natura che aveva fini pratici e simbolici: l’acqua di sorgente puliva e purificava, l’acqua benedetta scacciava il demonio e l’acqua di mare fortificava e disinfettava. Durante i riti di guarigione recitava delle orazioni in lingua greca. Erano tanti/e che ricevevano sollievo dalle sue pratiche e la ringraziavano. Ma un giorno un uomo la denunciò affermando che aveva esercitato “la medicina magica” su suo figlio. La madre del piccolo paziente fu solidale con Minica e non presentò alcuna denuncia, né in seguito si recò a testimoniare. Ma la voce arrivò al Tribunale dell’Inquisizione e il 31 agosto del 1602, dall’austero palazzo palermitano ubicato in Piazza Marina, uscì un gruppo di religiosi in corteo ed un’elegante carrozza in cui si trovava il Primo Inquisitore Luis de Paramo, colto e stimato giurista giunto in Sicilia da Madrid. Faceva seguito una seconda carrozza, un po’ più modesta, dove invece si trovava il personale del Tribunale. Le due vetture iniziarono il loro viaggio in vari paesi dove erano stati denunciati casi di eresia e di pratiche magiche e l’ultima tappa fu Corleone dove cercarono di raccogliere delazioni e confessioni sull’operato di Minica. Questa sorta di indagine investigativa portò alla luce una estesa rete di guaritrici, levatrici e pediatre non autorizzate, ma gli inquisitori non poterono identificarne che una: Minica. La donna venne così convocata dal tribunale inquisitoriale itinerante. Quegli uomini si affannarono per cercare altri testimoni per poterla condannare, ma nessuno si presentò e quindi l’unica denuncia di quel padre non era sufficiente. Minica fu allora solamente ammonita a non esercitare la sua ”arte medica” e fu prosciolta per insufficienza di prove. Anche dopo questa disavventura continuò comunque a fare quello che per lei era il suo lavoro, con l’appoggio incondizionato delle donne del suo paese.
Il recupero della presente storia è dovuto al prezioso lavoro di ricerca della studiosa Maria Sofia Messana che ha tracciato il profilo di Minica Grieca nel dizionario Siciliane a cura di Marinella Fiume.

 

 

Articolo di Ester Rizzo

a5GPeso3Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) di Licata per il corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra editore ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo e di Le Ricamatrici e Donne disobbedienti.

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