La mia prima moglie lo definiva “il romanticismo del maschio medio”. È quel sentimento che talvolta mi prende quando vedo un film e piango. Mi succede di rado, in realtà, e con rari e vecchi film, ma sempre con Fragole e sangue. È tutto collegato alla geometria, le dicevo io. A scuola andavo male in matematica, perché forse l’amavo senza accorgermene e l’amore inconsapevole non si perdona mai. Ho sempre dovuto vedere le cose, quindi mi affascinavano le figure, non i concetti. Sospettavo che le forme geometriche fossero solo parti di qualcos’altro, o il contrario. Talvolta vedevo me stesso come una curva sottile ma solidamente appollaiata sull’origine degli assi cartesiani, proprio sul punto zero, e protesa verso l’alto, metà di qua e metà di là dell’asse delle y; forse una parabola ma più probabilmente un’iperbole, anzi mezza, ché la sua parte simmetrica, da qualche parte nei quadranti negativi delle y, doveva esistere ma non me la figuravo proprio. «Dev’essere qualcosa che ha a che fare con i tuoi cromosomi», diceva lei, scherzando ma non poi tanto. Questa iperbole che disegnavo sul foglio a quadretti (incongrui e fastidiosi quando tenti di vederci una curva, un arabesco o una scrittura) era solo un pezzo, perché poi il foglio finiva e non potevo mai sincerarmi che, un po’ più in là, non andasse a toccare gli asintoti, come invece negava pervicacemente la professoressa Atzeni, che ogni anno mi rimandava tutta soddisfatta a settembre. Per definizione, i suoi asintoti l’iperbole non li tocca mai, o tutt’al più all’infinito, dove si congiungono le vite parallele. E se invece, molto più in là, chilometri o anni luce sopra il foglio, la curva riunisse le sue braccia e si richiudesse? Se fosse solo la parte visibile di qualcosa come un’ellisse o roba del genere? Esiste forse qualcuno che ha mai disegnato un’iperbole tutta intera fino alla fine? La professoressa Atzeni si scandalizzava e mi sfotteva davanti alla classe: «C’è l’equazione, Dall’Acqua! L’equazione che parla chiaro, ma certo non a lei!». Così io me ne restavo buono buono a guardare il mio pezzetto di iperbole e pensavo agli interminati spazi e ai sovrumani silenzi e alla profondissima quiete al di là del foglio protocollo a quadretti che, lo sapevo, sarebbe stato marchiato d’infamia con sfregi rossi e blu.
Ogni volta che da qualche parte davano Fragole e sangue lo andavo a rivedere e ne uscivo con gli occhi umidi. È un film tutto circolare. Comincia con quella canzone di Joni Mitchell cantata da Buffy Sainte-Marie, The Circle Game, che parla dei cicli delle stagioni e dei pony colorati che girano sulla giostra. Nelle scene salienti la camera ruota su sé stessa e tutto il film è circolare fino alla fine, quando i poliziotti irrompono nell’università occupata e massacrano i ragazzi e le ragazze. La camera riprende tutto dall’alto, lungo l’asse delle y, e gira, gira, gira. L’occupazione, la politica, l’amore, la morte, come a dire: è il grande cerchio della vita, no? D’accordo, è cinema, ma funziona. Una lacrima mi esce sempre. La mia ex moglie mi prendeva in giro, per questo. Lei si occupava di statistica e aveva delle forme un concetto utilitario: le curve non erano, per lei, figure da guardare ma meri strumenti di misura e di comprensione razionale. Io invece ne percepivo una sorta di bellezza delicata e fragile, mi commuoveva quell’iperbole che non tocca mai i suoi asintoti e vaga inquieta per l’eternità, come Polinice se Antigone non gli avesse dato pietosa sepoltura a costo della sua stessa vita. E desideravo che quella iperbole, dopo aver baciato i suoi asintoti, potesse finalmente rientrare e chiudersi, ridiventare l’ellisse che aveva sempre sognato di essere e, col tempo, tornare a una forma primigenia di circonferenza e rimpicciolirsi, come fanno i vecchi, fino a ridursi a un punto senza dimensioni e senza memoria, e scomparire nell’universo.
La mia prima moglie dava di Fragole e sangue una lettura politica, storica e critica, sorprendendosi ogni volta delle mie lacrime davanti alla visione delle circonferenze cicliche di quel film. Dunque non mi sorprese quando mi disse che amava un altro e che nostro figlio non le sarebbe stato d’impedimento nel perseguire la propria felicità. Addolorato certo lo fui: anzi, tramortito. Ma continuai a vedermi e a vedere la mia vita, e quella di mio figlio, come pura forma.
Così un giorno d’estate colsi un invito e me ne andai nella casa in collina sopra il mare che la famiglia della mia amica Laura, non usandola per due settimane, mi aveva prestato. Mio figlio aveva due anni. In spiaggia marciava per chilometri in esplorazione, e io dietro. Provavo a tentarlo con paletta e secchiello, ma lui voleva solo camminare e guardare. Voleva vedere tutto. In tarda mattinata tornavamo a casa fermandoci al negozio del paese per fare un po’ di spesa, preparavo il pranzo e poi crollavamo esausti sul lettone. Nel pomeriggio tornavamo in paese per il gelato, poi giocavamo nel parco e al tramonto lui gironzolava in giardino osservando mentre io davo l’acqua alle piante. Il padre di Laura era stato chiaro: annaffiare bene tutto, in particolare le sue rose, e magari finire di montare le zanzariere. Era stato preciso sul come dove e quando, e mi aveva indicato con esattezza la collocazione del negozio di ferramenta nel quale avrei dovuto eventualmente rifornirmi. Ospitale ma pragmatico. Quadrato.
Mio figlio era tranquillo, sebbene sempre un po’ inzaccherato. Io guardavo il tramonto sul mare e, se mi prendeva la malinconia della mia situazione di padre solitario, raccoglievo il tubo e mi dedicavo alle rose. Così fu anche quel giorno.
Il sole era basso e meravigliosamente rotondo. Aprii il rubinetto e il lunghissimo tubo verde adagiato sul prato ebbe un fremito. Ne afferrai l’estremità e la strinsi, così da rompere il getto e frammentarlo in una nuvola di minutissime goccioline che avrebbero accarezzato il prato e le rose, dissetandole senza violenza. Giravo intorno alle piante, anche a quelle che mi sembravano meno nobili e più casuali, e pensavo alle rotazioni della camera in Fragole e sangue canticchiando quella canzone sulle circonferenze della vita. Mio figlio mi guardava e sembrava contento. Lui era ancora una curva molto piccola e indeterminata, di cui non riuscivo a cogliere la forma né mai sarei stato in grado di scrivere l’equazione. Ma è così per tutte le vite. Mi venne in mente, senza alcuna connessione logica, che giusto vent’anni prima ero andato per l’ultima volta a messa, uscendo dall’alveo rassicurante della Chiesa Cattolica Apostolica Romana perché, se proprio vogliamo sintetizzare, non vi avevo trovato la circonferenza di Dio ma solo triangoli, figure spigolose buone per l’agrimensura ma non per la rappresentazione spirituale della forma infinita, quelli che pittori mediocri, benché teologicamente corretti, avevano posto dietro il capo del vecchio Dio barbuto al posto dell’aureola circolare, come fosse un geometra, sia pure autorevole, e non l’Eterno.
Anche le rose sembravano contente. Mi sforzai di stringere il più possibile la bocca del tubo e di rendere la nuvola d’acqua più lieve, trasparente e soffice e, guardandola, mi sentivo felice di non individuarne i confini. Avevo raggiunto lo scopo di una curva chiusa ma indefinita di cui, pensai con soddisfazione, la professoressa Atzeni non avrebbe mai saputo scrivere l’equazione. E poi vidi.
Davanti a me, sospeso sulle rose, stava un piccolo arcobaleno perfettamente circolare. Ne distinguevo forma e colori e mi sembrava che, oltre il roseto, l’avrei potuto toccare. Rimanemmo, l’arcobaleno e io, perfettamente immobili e anche la nube d’acqua, per qualche istante, sembrò ferma nel suo alone. Quando spostai la direzione del tubo il piccolo arcobaleno lo seguì. Ruotai lentamente su me stesso finché l’arcobaleno impallidì e si spense, quindi mi rimisi con le spalle al sole e lui ricomparve, e ne fummo tutti e due sollevati. Mio figlio continuava a ridere e a sporcarsi. Cercai di richiamare la sua attenzione sul miracolo appena compiuto, ma i movimenti di una lucertola, forse disturbata dai miei spruzzi, gli erano più interessanti. Lo ammetto: per un momento mi sentii Dio: chi altri può fare un arcobaleno? E desiderai che mio figlio se ne accorgesse e mi vedesse, per tutta la vita, l’Unico, e non un padre separato e spaesato. La lucertola, per fortuna, lo tenne ancorato alla realtà.
Il sole calò e l’arcobaleno adagio si spense, la sua circonferenza essendo evidentemente parte di un cerchio più grande.
La sera, dopo la cena, le coccole e le poesie lette a mio figlio per aiutarlo ad addormentarsi, uscii in giardino con il libro, il mezzo toscano e il bicchierino di grappa, ma il libro non lo aprii. Riflettei sulla spiegazione fisica del fenomeno e ne fui soddisfatto perché avrei potuto ripeterlo ogniqualvolta lo avessi desiderato, purché ci fosse stato un tubo dell’acqua e il sole alle spalle. E la ragione non turbò la bellezza di quella pura forma visiva perché bellezza e ragione, si sa, s’incontrano all’infinito.
Articolo di Mauro Zennaro
Mauro Zennaro è grafico e insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e la chitarra in una blues band.