Fu allora che decisi: una notizia appresa per caso, ma riferitami in maniera così eccellente e impeccabile, con voce così cadenzata e musicale, da sembrare letta sul momento.
Di una tale notizia non puoi dubitare: pare quasi di fare un torto al messaggero.
E quindi decisi. Poca preparazione, poco bagaglio. Dovetti però lavorare sull’equilibrio, quello sì. Non ce l’hai in dotazione, l’equilibrio. Bisogna conquistarlo. Impararlo. Venirci a patti. Credo dipenda dal fatto che nasciamo di testa. Con la prospettiva invertita, è normale restare per mesi a pancia in su, pencolare, cadere. Gattoniamo forse per compromesso, finché non ci rendiamo conto che ciò che c’interessa sta a una punta di piedi da noi.
L’equilibrio te lo porta l’esperienza, insegnante avara di lodi e prodiga di esempi.
Così, lavorai sull’equilibrio, e per me fu come andare in bicicletta. Diedi il primo passo. Bene. Secondo, bene. Al terzo, bene ancora. Con il quarto passo caddi. Poco male. Mi rialzai. Passo, passo, passo. Caduta. Passo. Caduta. Passo. Caduta. Passo. Passo. Passo. Passo, passo, passo. Non caddi più. Finalmente ero pronta, mi misi in cammino.
Andare all’indietro, a senso di marcia invertito, con lo sguardo diretto a sud anche se stai andando a nord, comporta una serie di difficoltà non sempre facili da gestire. Innanzitutto, la velocità. Ti puoi allenare quanto vuoi, ma la conformazione del piede è chiaramente votata a creare impaccio. Non puoi certo correre agilmente, muovendoti al contrario. E poteva capitare, io lo sapevo. Essere rapidi dando le spalle al tuo obiettivo è una cosa che puoi fare solo con un ottimo equipaggiamento. Senza occhi sulla nuca, senza una testa pianeta, capace di girare intorno all’asse del proprio collo, l’unica cosa da fare era affidarsi a chi mi stava intorno. Se si decide di andare, qualunque sia il motivo, bisogna essere attrezzati con una buona e resistente fiducia nell’essere umano, altrimenti l’ignoto rischia di diventare abisso.
Altro problema, l’orientamento. Guardando solo l’orizzonte di partenza, la linea retta del tragitto può tramutarsi in iperbole, anche a nostra insaputa. Per fortuna, esiste il cielo con il suo girotondo fisso di costellazioni, che sempre è riuscito a dare indicazioni. Benedetto sia il soffitto infinito e il suo linguaggio universale.
E poi, c’era la questione della curiosità. Passare inosservata, confondermi con i più, era un’utopia che non potevo pretendere. Un’utopia, nel senso etimologico della parola; utopia nel senso di luogo che non esiste: io esistevo, ma in quale posto potevo mai arrivare non degnando il mio obiettivo nemmeno della dignità di uno sguardo di immaginazione? Ecco ciò che sembravo: una che vagava, camminando all’indietro, senza il buon senso di una meta. Eppure, anche io avevo una stazione finale che volevo raggiungere, uno scalo scelto lungo i binari di un viaggio che non ero l’unica a percorrere. Tanti i compagni e le compagne di passi e di direzione, tanti i piedi e gli sguardi incrociati e uniti dal fine ultimo di arrivare. A camminare con il senso di marcia invertito, però, ero davvero soltanto io.
Molti mi hanno chiesto il perché. Molti altri già lo sapevano. Fu la comunione di destino che non fece chiedere, che fece capire i motivi. Alle domande non risposi. A un “grazie” raccontai.
Sono nata senza fiato. Quando il luogo che ti dà alla luce ti toglie opportunità e speranza, è come se, al primo vagito, qualcuno ti cavasse l’aria dalla bocca. Nemmeno il tempo di piangere che già non respiri più.
E così, in un pareggiamento di conti inevitabile, alla mia terra io ho tolto la mia presenza. Sono partita, me ne sono andata. E le ho lasciato polmoni e bronchi cavernosi, appesantiti dai rimpianti e dai ricordi che sono con me, che le rimando indietro e che lei di nuovo mi richiama, a ogni passo, piè sospinto, a ogni movimento di tacco, punta, tacco, che mi ha spostata e allontanata.
Camminare all’incontrario era come lanciare una cima di molo verso l’orizzonte del porto e tirare e condurre con me la banchina che mi stava mandando via.
Mi sono unita alla tonnara di genti in asfissia di futuro e sono partita. In quel movimento singolare collettivo, eravamo come parole minuscole di un elenco infinito, senza virgole a distinguere e separare. Eravamo un poema che non andava mai a capo di un cantore cieco e pellegrino. Ci guadagnavamo la maiuscola solo quando il punto che metteva fine al nostro esistere cadeva nei pressi di vite stanziali, fortunate perché le fronde e il tronco avevano le radici in perpendicolare. Noi altri, invece, eravamo arbusti storti di chiome girate in direzione opposta al sole. La maiuscola di riconoscimento era poi sempre la stessa: “M”. Emme come migrante.
Quali lettere ci potessero essere dopo non interessava a nessuno.
Il mio senso di marcia era quindi un memento.
Lo era per gli alberi fissi, che non conoscevano il dolore di una radice tagliata. Lo era soprattutto per me, perché ciò da cui mi allontanavo doveva essere ciò a cui sarei tornata, anche solo con la testa e le parole, senza rimpianto e rassegnazione.
Chiamiamo patria il luogo in cui veniamo al mondo, patrigno quello in cui arriviamo. Nuova patria, se ci abbraccia e accoglie. Ma poi, perché “patria”? Pare così che a mancare sia solo il padre, come se solo lui sia cagione di nascita e di vita. Perché non matria? E fratria? E sotria? Che suona brutto, è vero. Ma fa strano anche camminare al contrario, col senso di marcia sottosopra, con l’orizzonte che si fissa che si allontana invece di avvicinarsi, ché pare non poter far da meta sembrando sempre fine.
E sotria mi piace come parola, perché ha in sé anche il senso di salvezza, il soter delle lingue antiche.
Io sono una donna, una migrante, una sorella. Non mi chiamo Alatiel o Europa e il mio peregrinare non mi darà l’immortalità di pagine poetiche.
Ho solo scelto, non per scelta, di provare a respirare. Ho abbandonato la mia sotria. Il viaggio non era il mio mestiere, ma mi assunsi lo stesso in questo ruolo per tentare di salvarmi.
Decisi di partire per una notizia che mi fu riportata. Una guerra, una crisi, qualcosa che stava andando storto. La preparazione fu rapida, il bagaglio quasi inesistente. Lavorai però molto sull’equilibrio. Passo, caduta, passo, caduta. Decisione, paura.
Mi misi in cammino. Indietro lasciai la mia terra che tenevo comunque sempre avanti a me. L’ho abbandonata e ho continuato a guardarla negli occhi.
Ci vuole un baricentro forte per camminare a senso di marcia invertito, con la meta alle tue spalle. A volte si arriva, a volte si cade senza rialzarsi più.
Però, si prende fiato. Passo, caduta. Dentro l’aria, fuori l’aria.
Per tornare a respirare, a volte, basta solo una speranza di salvezza. Un salvezza data anche da uno sguardo fisso che non ci fa perdere l’orientamento, che ci fa riconoscere e decidere. E andare.
Articolo di Sara Balzerano
Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.