«Nel cuore dell’inferno». Auschwitz-Birkenau, 7 ottobre 1944: la rivolta del Sonderkommando

«Ho scritto tutto questo nel periodo in cui sono stato nel “Sonderkommando” […]. Desidero lasciare questo scritto, come pure numerose altre annotazioni, a memoria del futuro mondo pacificato, affinché si sappia cos’è accaduto in questo luogo. L’ho sepolto sotto le ceneri, ritenendo che si trattasse del luogo più sicuro, dove certamente un giorno si sarebbe scavato per trovare le tracce di milioni di uomini uccisi. […] Caro scopritore, cerca dappertutto, in ogni centimetro di terra. Qui sotto ci sono sepolti una decina di documenti diversi, miei e di altri, che faranno luce su tutto ciò che è accaduto in questo luogo. Vi è sepolta anche una grande quantità di denti. Noi, i lavoratori del Kommando, li abbiamo sparsi apposta nel terreno, quanti più abbiamo potuto, perché il mondo potesse trovare le tracce concrete dei milioni di uomini ammazzati. Anche noi abbiamo perduto la speranza di sopravvivere sino al momento della liberazione». L’autore di questo drammatico “messaggio in una bottiglia”, datato 6 settembre 1944, si chiamava Salmen Gradowski, era ebreo dell’Europa orientale (nato a Suwałki, in Polonia al confine con la Lituania, vissuto poi a Łuna, presso Grodno, in Bielorussia al confine con la Polonia), fu deportato ad Auschwitz nel dicembre 1942, venne aggregato al Sonderkommando, partecipò al movimento clandestino di resistenza interno al campo e alla rivolta del 7 ottobre 1944, durante la quale molto probabilmente fu ucciso.

Salmen Gradowski (1910 circa- ottobre 1944)
ritratto con la moglie Sonia,
uccisa all’arrivo ad Auschwitz nel dicembre 1942

La testimonianza di Gradowski è rinvenuta il 5 marzo 1945 (poco più di un mese dopo la liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa) nei pressi del crematorio III di Birkenau, all’interno di una borraccia d’alluminio tedesca, chiusa da un tappo di metallo: questa conteneva un taccuino di 91 pagine e lo scritto di due pagine da cui è tratto l’appello alla futura umanità. Salmen Gradowski assume su di sé il compito di documentare lo sterminio dall’interno, con disperato rigore: è una delle “voci dei sommersi”, sei in tutto, che sono state restituite alla posterità grazie agli scavi compiuti tra il marzo 1945 e l’ottobre 1980 nella terra circostante i crematori di Auschwitz-Birkenau. Di queste — affidate a borracce, vasi da conserva, bottiglie — quattro sono in lingua yiddish (la koinè degli ebrei delle province orientali): si ascrivono a Salmen Gradowski, Salmen Lewental, Lejb Langfus (entrambi giunti ad Auschwitz nel dicembre 1942 e uccisi negli ultimi giorni del 1944) e un autore ignoto (che si è ipotizzato possa identificarsi con Langfus); una è in francese, di Haim Herman (deportato nel marzo 1943, assassinato nell’ultima liquidazione del Sonderkommando, il 26 novembre 1944); l’ultima in greco, di Marcel Nadsari (unico sopravvissuto).

Pagina della lettera di Marcel Nadsari (1917-1971), prima, durante e dopo il restauro. La lettera, costituita da dodici fogli in lingua greca, è stata rinvenuta il 24 ottobre 1980 nei pressi delle rovine del crematorio III di Birkenau, in una piccola borsa di pelle contenente il recipiente interno di un thermos, chiuso con un tappo di materiale sintetico. Nadsari, sopravvissuto alla liquidazione del Sonderkommando e allo sterminio, nel dopoguerra emigrò con la famiglia negli Stati Uniti

Chi sono gli uomini del Sonderkommando, il Comando Speciale, ovvero i “testimoni integrali” dello sterminio? «I corvi neri del crematorio», secondo la definizione di Primo Levi, erano giovani ebrei selezionati all’arrivo per il loro aspetto sano e robusto, «strappati alle loro famiglie, rasati, tatuati, frustati e poi condotti a suon di bastonate e incalzati dai morsi dei cani delle SS fino alla palizzata che separava la zona segreta del crematorio del campo […]. E improvvisamente – ma sarebbe mai possibile abituarsi a un simile spettacolo? – scoprivano tutto: fosse comuni, le fauci delle fiamme, la montagna di cadaveri aggrovigliati, lividi, che irrompono dalle porte aperte d’improvviso delle camere a gas» (così Claude Lanzmann nella prefazione a Trois ans dans une chambre à gaz d’Auschwitz di Filip Müller, testimone al processo di Francoforte, celebrato tra il 1963 e il 1965). Gli uomini del Sonderkommando svolgevano mansioni funzionali ai meccanismi di complicità e mortificazione dell’istituzione totale: sgomberavano le camere a gas (talvolta dopo avervi accompagnato le vittime), prestavano servizio ai forni crematori (in base a precise disposizioni volte a ottimizzare la distruzione dei corpi), preparavano i roghi dei mucchi di cadaveri gassati (quando, come spesso accadeva, i quattro forni di Birkenau non erano sufficienti).

Uomini del Sonderkommando impegnati nella cremazione di cadaveri in una fossa comune, all’esterno del crematorio V (Birkenau,
agosto 1944). La fotografia, prima di quattro, è stata scattata
da un internato greco di nome Alez, con ogni probabilità Alberto Israel Errera (1913-agosto 1944), morto poco dopo durante

un tentativo di fuga

Le sei memorie menzionate (cui se ne aggiunge una settima, il cosiddetto Diario di Łódź, rinvenuto verosimilmente da Salmen Lewental e da lui sepolto) si leggono in traduzione italiana nel volume a cura di Carlo Saletti La voce dei sommersi (1999): costituiscono i cosiddetti Megillat Auschwitz, ovvero i libri sacri del campo di sterminio. Testimonianza viva dei compiti dei «miserabili manovali della strage» (ancora Primo Levi) è poi nel memoriale di Filip Müller (1970) e in Sonderkommando Auschwitz (2007) di Shlomo Venezia, ebreo di origine greca naturalizzato italiano: qui sono descritti i compiti disumani che questi uomini sventurati erano costretti ad assolvere «nel cuore dell’inferno». Una documentazione visiva, minuziosa e «non dicibile», è rappresentata dai disegni di David Olère, raccolti in A painter in the Sonderkommando ad Auschwitz (1989): Olère, artista polacco naturalizzato francese, appartiene lui pure al ridottissimo numero dei “salvati” in forza al Comando Speciale.

David Olère (1902-1985), Les vivres des morts pour le vivants.
Si noti che il dipinto, un autoritratto, è firmato con il numero di matricola già tatuato sul braccio dell’artista, sotto al quale è posto il triangolo rosso degli internati politici con la sigla F (France), a indicarne la nazionalità

Nella primavera-estate del 1944, gli uomini adibiti al ruolo di necrofori diventano oltre novecento, divisi in due turni che lavorano a ciclo continuo: giungono infatti incessantemente i trasporti degli ebrei ungheresi, quasi tutti mandati a morte dopo la selezione. E per quanto le condizioni di vita degli internati adibiti a «un lavoro così sinistro, lugubre, sozzo» (Salmen Lewental) siano in apparenza migliori di quelle degli altri prigionieri — godono di una parziale libertà di movimento e hanno accesso a maggiore quantità e migliore qualità di cibo — tuttavia più degli altri essi sono «senza destino»: l’essere testimoni «dentro il crimine orrendo» (titolo del manoscritto di autore ignoto) porta alla periodica, sistematica eliminazione delle squadre e del loro segreto: Reinhard Heydrich, che secondo Gitta Sereny rivendicava il merito di aver ideato il Comando Speciale, paragonava il loro destino a quello degli architetti costruttori delle tombe dei faraoni egizi, che erano condannati a esservi sepolti con i loro re. «Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il crimine più demoniaco del nazionalsocialismo. — scrive Primo Levi — Attraverso questa istituzione si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti». È tuttavia a questi uomini, divenuti «automi che obbedivano agli ordini e cercavano di non pensare» (Shlomo Venezia), o ad alcuni di loro che mantengono la capacità di osservare e documentare, che si devono le eroiche azioni di rivolta contro le fabbriche dello sterminio: a Treblinka (2 agosto 1943), a Sobibor (14 ottobre 1943) e ad Auschwitz-Birkenau (7 ottobre 1944). Che alcuni uomini del Sonderkommando, come Salmen Gradowski, appartenessero al movimento di resistenza interno al campo, in collegamento con la resistenza polacca all’esterno, è cosa certa: lo testimoniano le quattro fotografie scattate di nascosto nell’agosto 1944 da un internato greco di nome Alex e fortunosamente fatte pervenire alle formazioni partigiane che operano nella regione (la pellicola è nascosta in un tubetto di dentifricio); e lo testimoniano i lunghi preparativi per la rivolta operati pure in accordo con la resistenza polacca, ma — secondo Salmen Lewental — continuamente rinviati da questa per consentire l’ulteriore avvicinamento dell’Armata Rossa e limitare le perdite nelle proprie file. Nulla hanno da perdere, invece, gli uomini che ancora camminano «su questa immensa e tragica tomba»: la ribellione è innescata dalla notizia che numerosi membri del Kommando sarebbero stati «congedati», ovvero «spediti all’aldilà». Il racconto di Lewental è emozionante e drammatico: impossibile riassumerlo o parafrasarlo. Eccolo.«Quando giunse l’ora, alle 13 e 25 [di sabato 7 ottobre 1944], e arrivarono per prelevare queste 300 persone, esse dimostrarono un grande coraggio, poiché non volevano muoversi [dal posto]. Levando un alto grido, armati di martelli e di asce si gettarono addosso ai guardiani, ne ferirono alcuni e colpirono gli altri con tutto ciò che gli capitava a portata di mano o lanciando loro addosso dei semplici sassi. Ci si può facilmente immaginare quale fu la conseguenza. Trascorso qualche minuto giunse, armato di mitragliatrici e granate, un intero reparto di uomini delle SS. Erano talmente numerosi che c’erano due mitragliatrici per ogni prigioniero. Tale era l’esercito che avevano mobilitato. I nostri, quando si accorsero di essere perduti, all’ultimo momento vollero incendiare il crematorio 3 [= IV] e morire nel combattimento, cadere sul posto sotto la gragnola di pallottole. In questo modo andò a fuoco tutto il crematorio. Quando il nostro Kommando dei crematori 1 e 2 [= II e III] vide le fiamme e udì la sparatoria in lontananza, si convinse che di quel Kommando nessuno era rimasto in vita — […]. [Al Crematorio II] non fu facile trattenere i russi che erano insieme a noi, dato che anche loro si erano convinti che di lì a poco sarebbero stati presi per il trasporto; e poiché laggiù [stavano per morire] tutti nel combattimento, era loro parso che fosse quello l’ultimo momento buono per intervenire, tanto più che vedevano in lontananza un gruppo di SS armati avvicinarsi. Stavano venendo da noi per precauzione, ma i russi ritenevano che arrivassero per portarli via. A questo punto non riuscirono più a trattenersi. Si gettarono addosso all’Oberkapo, un tedesco del Reich, e in un battibaleno lo gettarono vivo tra le fiamme del forno. Senza dubbio se l’era meritato, e forse questa morte fu anche troppo dolce per lui. I russi portarono avanti il loro piano. I nostri compagni del crematorio 1 [= II] compresero immediatamente la situazione, non appena si videro messi di fronte al fatto compiuto, [e rendendosi conto] che non era più possibile ritirarsi, tentarono di acciuffare anche i capi che si trovavano fuori. Ma quelli si erano già accorti del pericolo e non si fecero ingannare. Non essendo più possibile aspettare, visto che ogni minuto era cruciale poiché si stavano avvicinando alcuni sorveglianti armati, incominciarono in gran fretta a distribuire tutto ciò che avevano preparato per questo momento estremo; tagliarono il reticolato e scapparono tutti oltre la linea di sorveglianza. Dimostrarono nello stesso tempo un enorme senso di responsabilità e di altruismo. In questi ultimi istanti in cui ogni secondo poteva decidere della loro vita, minacciata dai sorveglianti che davano loro la caccia, essi si attardarono per adempiere al loro ultimo dovere: tagliare il reticolato del [campo] adiacente e rendere in questo modo possibile la fuga alle donne. Purtroppo non ebbero fortuna. Riuscirono ad allontanarsi di qualche chilometro dal campo, ma ben presto vennero accerchiati da altre sentinelle chiamate per telefono dai campi vicini. Purtroppo furono uccisi tutti nella fuga».

Róża Robota (1921-5/6 gennaio 1945)
Ala Gertner (1912-5/6 gennaio 1945)

Nel suo resoconto, Salmen Lewental non menziona il ruolo, fondamentale, avuto da alcune donne internate ai fini della preparazione della rivolta, che avrebbe dovuto portare alla distruzione dei crematori, per mezzo di cariche esplosive e dunque alla fine dello sterminio. Ma l’inchiesta interna condotta dalle SS porta a scoprirne e punirne quattro con ferocia esemplare: sono le giovani ebree polacche Róża Robota, Ala Gertner, Regina Szafirsztajn, Estusia Wajcblum (scampa alla morte Hanka, sorella minore di questa).

Estusia Wajcblum (1927-5/6 gennaio 1945)
Hanka Wajcblum (1928-2011) insieme al marito, Joshua Heilman (sposato nel 1947), e a un amico di nome Abraham
(Israele, 4 maggio 1949)

Ala, Regina, Estusia e Hanka lavoravano nella fabbrica di munizioni Union; Róża — di formazione socialista, una delle resistenti più attive all’interno del campo — lavorava invece nel deposito di abbigliamento, il cosiddetto Kanada. Per diversi mesi, le prime quattro giovani donne avevano prelevato e nascosto piccole quantità di esplosivo per poi consegnarlo a Róża, che a sua volta lo faceva arrivare agli uomini del Comando Speciale. Dopo essere state torturate per mesi, tra il 5 e il 6 gennaio 1945, a due a due, Ala, Regina, Róża ed Estusia sono impiccate per soffocamento, davanti ad Hanka e alle compagne internate, come ricorda Liliana Segre, allora quattordicenne: «Tornavo dal turno di giorno, insieme alle mie compagne. Andavamo dalla fabbrica al campo, e lungo la strada abbiamo incontrato quelle del turno di notte che andavano a prendere il nostro posto. Erano sconvolte, piangevano disperate, qualcuna si fermava a parlarci, preparatevi, vedrete una cosa terribile! E infatti, quando siamo arrivate nel piazzale di Auschwitz, abbiamo visto due forche stagliarsi contro la luce del crepuscolo. Era ancora giorno, anche se le giornate si stavano accorciando. Appese alle forche c’erano due ragazze che venivano impiccate da ore, lentissimamente, in modo che i corpi continuassero a fremere, per farle vedere a tutte noi della fabbrica Union». La tragedia degli uomini del Sonderkommando, «capaci di vivere e di morire con dignità» (Salmen Lewental), la rivolta del 7 ottobre 1944, il ruolo delle donne che con coraggio la resero possibile, sono rappresentati con crudezza nel film The grey zone di Tim Blake Nelson (2001); ben più memorabile, però, è lo sguardo allucinato, dall’interno del crematorio, leggermente fuori fuoco, scelto da László Nemes per Il figlio di Saul (2015).

«Leggere di queste cose è durissimo. E credetemi, voi che leggete, non è meno duro scriverne. — lo so, e lo sapeva il grande Vassilij Grossman, che ha assistito alla liberazione dell’Inferno di Treblinka — “Perché farlo, allora? Perché ricordare?” chiederà, forse, qualcuno. Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità».

In copertina. Foto aerea di Birkenau scattata da un bombardiere alleato il 13 settembre 1944

Articolo di Laura Coci

y6Q-f3bL.jpegFino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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