L’incontro fra diverse culture della visibilità e dell’invisibilità produce un diverso orientamento del giudizio, che di volta in volta considera l’”altra” troppo o troppo poco vestita.
L’esempio è facile: nessun pezzo di stoffa causa più controversie del velo, destinato a coprire innanzitutto i capelli, massimo attributo di bellezza e di seduzione. Oggi, nel contesto della crescita dell’islamofobia, la figura della donna velata non è più una semplice immagine ma uno dei principali marchi di stigma tra quelli che hanno come orizzonte lo spettro dell’”invasione”. Molte studiose, cimentandosi con l’ostico tema del pluralismo culturale, sostengono che lo stereotipo delle “sorelle oppresse” rappresenta il perpetuarsi in epoca contemporanea dello sguardo che ha sempre caratterizzato il rapporto dell’Occidente con l’Islam, non privo di una certa dose di arroganza.
Manto o ornamento, il velo nel costume femminile risale alla più lontana antichità. L’usanza è documentata da oltre tre millenni.
Nel Medio Oriente preislamico — società ebraica compresa — solo le donne del deserto non erano velate; nelle città si velavano il corpo e il capo. Era un indumento indossato dalle donne dei ceti superiori, che successivamente si diffuse e divenne un capo ambìto nei ceti più poveri ma non venne adottato nelle campagne, dove le contadine avevano bisogno di libertà di movimento. In questo modo il velo distingueva, con la classe sociale, la non accessibilità della nobildonna allo sguardo del volgo. Era usanza anche a Roma (come in Grecia) che le donne oneste portassero il velo. L’iconografia della Madonna la raffigura sempre velata. Nel Vangelo però non ce n’è traccia, ed è con Paolo di Tarso che il cristianesimo inizia a collegare esplicitamente l’imposizione all’inferiorità della donna.
In Egitto oggi portano il velo anche le donne copte, di religione cristiano-ortodossa. È ancora simbolo di castità per le suore cattoliche (‘prendere il velo’ significa consacrarsi come spose esclusive di Cristo, sottratte così allo sguardo di possibili pretendenti), di purezza virginale per le spose; lo portava mia nonna in chiesa come simbolo di modestia, rispetto e devozione.
Nel Corano è richiamato in due versetti e sempre come consiglio: poco per un elemento destinato ad avere tanto significato nei secoli futuri. Nel corso della storia l’Islam ne ha proposto molteplici varianti in rapporto ai popoli e alle culture con cui è venuto a contatto.
Non si può e non si deve generalizzare un universo culturale così vasto e variegato. La prima cosa da ricordare è che la “donna musulmana” è un’astrazione, e che questa tipizzazione è utilizzata soprattutto da chi vuol definirla come modello negativo rispetto alla modernità.
Esistono le donne turche, le palestinesi, le marocchine e le tunisine e le egiziane, le saudite e le yemenite, le donne del Sudan, dell’Iran, dell’Iraq, del Pakistan, dell’Indonesia, con problemi diversi. I loro diritti sono quasi sempre ostaggio della geopolitica. La loro condizione è dettata dalla struttura, dall’economia e dalla storia del Paese cui appartengono, più o meno influenzate dalla religione. L’ignoranza, la povertà e l’autoritarismo — condizioni non esclusive del mondo islamico e derivanti da interconnessioni globali — sono ancor più decisivi.
Dal Nordafrica al Medio Oriente le donne sono alla ribalta: se mai hanno avuto paura oggi non ne hanno più, come dimostra l’esempio della strenua lotta delle combattenti curde. Il loro progetto è più ampio della pur necessaria sconfitta del terrorismo, e immagina una società caratterizzata dal superamento sia dei vecchi modelli patriarcali e feudali, sia del capitalismo di rapina. Tuttavia è assai tenace il pregiudizio che le vorrebbe inadatte alla democrazia: in perfetta continuità con la tesi razzista che definiva i loro Paesi “immaturi” per l’indipendenza e le periferie del mondo luoghi “in ritardo” da civilizzare.
Chi non è occidentale percepisce questo genere di critiche e in particolare quelle relative alle donne come segno di ingerenza culturale inopportuna e insopportabile. Per ogni nostra pretesa di definire i percorsi di liberazione altrui la reazione difensiva impone ulteriore integralismo.
Nella Tunisia di Ben Ali i corpi svelati delle donne erano emblema di modernità, ma sono stati a lungo un alibi per il potere. In Egitto, nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Mubarak, l’immagine di una conduttrice di telegiornale velata sulla tv di Stato divenne al contrario simbolo dei cambiamenti sociali in atto. Contro lo scià le nazionaliste iraniane indossavano il velo come protesta anti-occidentale. Sappiamo l’uso che poi ne fecero gli ayatollah.
Algeri, 13 maggio 1958: alcune donne arabe vengono esibite su un palco eretto nella piazza mentre si tolgono il velo. È uno spettacolo organizzato dalle mogli dei colonnelli francesi a dimostrazione dell’avvenuta assimilazione del popolo ai valori della modernità portata dal colonialismo.
Chi ricorda Huda Shaarawi, una delle pioniere del femminismo egiziano? Nel 1923, al ritorno dal congresso dell’Alleanza mondiale femminile, si tolse pubblicamente il velo. Il dibattito esplose: molti/e volevano la sua testa, altri/e iniziarono a venerarla. Alcune appoggiarono la rimozione del velo come strategia per esprimere liberazione, altre invece attaccarono l’ossessione per la moda europea.
Dalla metà degli anni Settanta è iniziato comunque un processo di ritorno: il velo sempre meno è segno di obbedienza alle pressioni sociali e familiari e sempre più è bandiera politica. In molti Paesi le donne della sinistra radicale oggi tornano a indossarlo come simbolo anticolonialista. Lo fanno in Europa molte migranti di seconda generazione a simboleggiare l’orgoglio di un’identità riscoperta, anche a prezzo di isolamento sociale. In Palestina la violenza dell’occupazione ha ottenuto il risultato di ridare forza alla famiglia tradizionale e all’obbedienza al clan come spazi di protezione: la donna viene a incarnare l’essenza dell’identità islamica perduta.
Io penso insomma che nell’incontro con femminismi “altri” il concetto di differenza, centrale nel pensiero delle donne, vada spostato fino a comprendere le differenze tra le donne stesse, le pluralità delle storie, delle appartenenze e delle condizioni.
Il velo ha mille facce, dall’allegria del foulard fiorato al sudario del lugubre pastrano nero. Dipendono dalle zone del mondo, dal momento storico, dal sistema politico, dalla volontà stessa di chi lo indossa. Anche il modo in cui lo si porta possiede una valenza fondamentale: diversi colori, fogge, gradi di copertura della testa e del corpo veicolano messaggi differenti.
Per il marketing — che tutto inghiotte — può addirittura fare tendenza: non è raro vedere ragazze col foulard sul capo ma con i tacchi a spillo e i jeans attillati. Esistono case e riviste di moda che ne propongono versioni fashion.
La legislazione in ordine al velo ha visto in diversi Paesi occidentali interventi limitativi e resistenze. Paradossalmente i detrattori del velo ne propongono l’abrogazione per legge, con identica logica che ignora il diritto alla libera scelta individuale. Se è vero che obbligare una donna a coprirsi è violenza, lo è anche indurla a scoprirsi? Siamo sicuri/e che così allarghiamo i diritti? È giusto utilizzare un’imposizione per sopprimerne un’altra?
È il paradosso della laicità: limitazioni alla libertà possono affermare la libertà?
Libertà difficile comunque, diversa dalla nostra, in una cultura cui è estraneo il concetto di individuo così come lo ha conosciuto la storia d’Occidente.
Rispettiamo queste donne imprigionate da rappresentazioni conflittuali, che incorporano fisicamente e simbolicamente la linea di demarcazione tra privato e pubblico e tra mondi diversi, che devono mobilitarsi tanto nella società quanto in famiglia su un doppio fronte: contro l’autoritarismo del potere politico-religioso e contro il sessismo dei “loro” uomini. Nel caso delle migranti i fronti si moltiplicano. Alcune si sentono nude senza velo, alcune lo trovano restrittivo pur portandolo, altre lo rifiutano. Possiamo solo concordare sul fatto che ciò che rende un capo di abbigliamento oppressivo è l’essere costrette a indossarlo. Qual è lo spazio di autonomia di cui dispone una donna adulta nella determinazione del suo bene? Chi lo decide?
Nessun femminismo dovrebbe imporsi quale modello unico per tutti i contesti e gli ambiti culturali: in tal modo non farebbe altro che sostituire dominazione a dominazione.
Nessuna storia è lineare. Una consigliera comunale di Podemos in Catalogna, con in testa il velo islamico, ha sposato in municipio due omosessuali. Il mondo va avanti.
Articolo di Graziella Priulla
Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: “C’è differenza. Identità di genere e linguaggi”, “Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo”, “Viaggio nel paese degli stereotipi”.