Blues del letto vuoto

«Mi sono svegliata stamattina con un gran mal di testa. Il mio nuovo uomo mi ha lasciata: solo una stanza e un letto vuoti». Così cantava Bessie Smith nel suo Empty Bed Blues, il Blues del letto vuoto, nel 1928.

Ma perché quel letto era vuoto?

È convinzione diffusa che il blues sia il canto del popolo afroamericano ridotto in schiavitù e che le sue radici vadano cercate in Africa. Ma in realtà del blues possiamo dire molto poco. Come per tutta la musica popolare, non esistono fonti scritte e, prima dell’avvento e della diffusione della registrazione fonografica, neppure sonore. Il primo testo autorevole, Blues People, scritto dal poeta, drammaturgo e critico Everett LeRoi Jones che nel 1965, dopo l’assassinio di Malcolm X, cambiò il proprio nome in Amiri Baraka, è apparso solo nel 1963. Come Malcolm X, che aveva rigettato il suo cognome Little perché ereditato dal padrone dei suoi antenati schiavi, Baraka se ne scelse uno africano. Blues People, serrato e approfondito studio storico, risente dell’atmosfera radicale e separatista che caratterizzavano la politica e la cultura afroamericane negli anni Sessanta, in cui grande peso avevano la riscoperta (o forse l’invenzione) di un Islam nero, la resistenza delle Black Panthers ai soprusi polizieschi, la denuncia dell’impossibilità di integrazione con l’ex padrone bianco e il desiderio di un ritorno alla patria africana della cui impossibilità ci si rese conto presto: il popolo afroamericano è divenuto, nei secoli, parte integrante e imprescindibile del Nuovo Continente e il problema, semmai, è il disprezzo con cui tuttora il potere politico ed economico considera la gente non wasp, cioè non bianca, anglosassone e protestante. Baraka, in sintonia con il suo tempo, sostiene l’origine e l’appartenenza esclusivamente nere del jazz e del blues, e questo pensiero, oltre ad espellerne qualunque interferenza non “nera”, ne ha limitato la comprensione.

Altri testi, scritti da appassionati e da musicisti, accolgono la vulgata secondo la quale il blues è la musica che cantavano schiavi e schiave nei campi di cotone e questo ha finito per affibbiare un’immagine cartolinesca, sebbene drammatica, a un enorme e variegato patrimonio musicale.

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Billie Holiday

Ma che cos’è esattamente il blues? Sul piano musicale, definirlo non è così ovvio come parrebbe. In genere si ritiene che il blues sia una composizione di dodici battute basata su tre accordi sul primo, quarto e quinto grado della scala, con un testo diviso in tre versi per ogni strofa: una esposizione, una ripresa dell’esposizione e una risposta. Detto così, sembra una faccenda piuttosto tecnica e arida, e lo è. Per fortuna il blues non è questo, quindi se la cosa non è chiara non importa.

C’è di vero che moltissimi blues sono strutturati così ed è per questo che si è diffusa l’idea che sia roba noiosa e ripetitiva, ma è alla base di tantissima musica del Novecento. E molti blues non sono affatto costruiti su tre accordi, né in dodici battute, né seguono uno schema poetico tripartito.

Altro luogo comune da ridimensionare è quello che vede il blues come la musica della schiavitù, come protesta e sfogo di un popolo in catene. Ma anche questo è difficile da dimostrare. Non solo non esistono partiture ma nessun testo, fra Seicento e Ottocento, descrive con esattezza cosa cantassero le masse deportate nelle piantagioni. Probabilmente i canti erano quelli del lavoro, basati talvolta su schema responsoriale e ritmati a seconda dell’attività da svolgere, e religiosi, derivati da quelli dei bianchi e mutuati da melodie anglosassoni. Nei primi testi a noi noti i contenuti sono di carattere autobiografico in contesti difficili, ma la schiavitù non vi compare.

Lo schema responsoriale, ovvero di botta-e-risposta, è rimasto nei canti dei forzati registrati negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento e anche in quelli militari che il cinema ci ha spesso proposto (come in Full Metal Jacket, per intenderci). È tipico dei canti dei lavori che necessitano forza e coordinamento, come quelli della gente di tonnara, dei battipalo e degli spaccapietre; è rimasto vivo nel gospel e nella stessa liturgia delle Chiese protestanti nere, in cui il predicatore sollecita la risposta dei fedeli e il coro si alterna alla voce solista. Ma tale alternanza è presente nei canti di lavoro non solo americane, ha una forte connotazione religiosa e non si limita agli Stati Uniti.

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Mamie Smith e Ida Cox

Sarebbe meglio considerare il blues come un genere letterario popolare, e in questo caso si vedono meglio le parentele con le altre culture: quelle del flamenco, del fado, del rebetiko e di tante altre originate dalla sofferenza. I blues, infatti, raccontano soprattutto storie dolorose. I temi sono l’amore infelice, il sesso (attraverso mille metafore e doppi sensi), l’abbandono, la violenza: storie universali, aggravate dalla povertà seguita, paradossalmente, all’abolizione della schiavitù.

Nonostante la crudeltà del padronato, infatti, l’umanità schiava era gestita con criteri zootecnici, onde ottenere il massimo rendimento con la minima spesa, e dunque quantomeno mantenuta in vita in condizioni sufficienti a garantire il lavoro. Ma dopo la liberazione, avvenuta in via ufficiale con il Tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, non solo non finì il razzismo ma iniziò la massiccia limitazione dei diritti del popolo nero (oltre alle varie leggi segregazioniste, nacque anche il Ku Klux Klan) e per la gente afroamericana la vita divenne, se possibile, ancora più dura perché il lavoro e la sopravvivenza non erano più garantiti. Chi non poteva lavorare per invalidità chiedeva l’elemosina, rimediava uno strumento e si metteva a cantare agli angoli delle strade: parecchi artisti di strada aggiunsero al loro nome l’appellativo di blind, cieco. Poi la neonata industria dello spettacolo si accorse di nuovi potenziali target, il mondo dei “negri” divenne oggetto di curiosità e anche il blues, come altri generi, entrò nel mercato.

Anche la presunta eredità africana è poco definibile. L’Africa è enorme e, prima del colonialismo europeo, ospitava migliaia di “regni” con lingue e culture diversissime. “Musica africana” non significa nulla: è come mettere il folk irlandese nello stesso calderone con la musica orientaleggiante di Creta.

Quando oggi ascoltiamo il blues, genere assolutamente statunitense ma che nel frattempo è diventato internazionale, sentiamo, oltre a grandissimi artisti afroamericani, anche grandi personalità bianche, ma sono principalmente maschi. È vero che esistono figure femminili mitiche, ma sono quasi tutte cantanti e interpreti e non strumentiste e autrici, e le loro band, tranne rare eccezioni, sono comunque formate da uomini. Dove sono finite le donne nel blues?

Che esistano e che abbiano avuto un’influenza enorme, lo si capisce da quel letto vuoto cantato da Bessie Smith.

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Ma Rainey

Nella memoria del popolo ex schiavo divenuto proletario, sono sempre stati i maschi ad andarsene: prima della liberazione le femmine restavano nelle piantagioni per produrre nuovi schiavi mentre i maschi in eccesso venivano venduti e poi, dopo il 1865, le donne lavoravano prevalentemente a servizio nelle case delle famiglie bianche e gli uomini dovevano viaggiare per seguire le stagioni del lavoro agricolo, e in seguito emigrare per lavorare nella nascente industria del Nord. Al risveglio, dunque, le donne si ritrovavano da sole.

Il Blues del letto vuoto è diventato un genere nel genere, perché moltissimi blues cominciano proprio così: stamattina mi sono svegliata e il letto era vuoto. «I woke up this morning…» è finito col diventare un incipit tipico del blues, al punto che anche i maschi l’hanno adottato e moltissimi loro brani cominciano così, proseguendo poi nei modi più vari: in genere con la scoperta che la propria donna li ha lasciati, ma anche, per esempio, che il diavolo sta bussando alla porta per portarli via. Ma in origine a restare sole erano le donne.

Questa insistenza sull’abbandono, e implicitamente sul tradimento, ha origine anche nelle credenze razziste sulla presunta esuberanza sessuale attribuita al popolo “negro”. La promiscuità tra schiavi e schiave era incentivata dai padroni perché redditizia ed essi, da buoni puritani e pur vedendo il sesso come peccato, erano soliti stuprare le schiave ritenendole abbastanza femminili ma non esattamente umane. I “negri” e le “negre”, insomma, non avevano l’anima, quindi il sesso tra loro e con loro era animalesco e dunque innocente: la “natura” selvaggia e istintiva non è soggetta alla morale. O quantomeno non lo era nei rapporti fra maschi bianchi e femmine nere: i maschi neri, proprio in quanto ritenuti animaleschi e insaziabili, non potevano contaminare la purezza delle mogli e delle figlie dei padroni, pena la morte. Lo stereotipo dell’ipersessualità nera, insieme razzista e patriarcale, e non è certo limitato ai secoli della schiavitù americana: è ancora vivo e vegeto (e il madamato in Africa Orientale Italiana, tanto per fare un esempio più moderno, ci riguarda molto da vicino).

Dopo la liberazione, l’esuberanza sessuale, l’ignoranza, la miseria e un presupposto quanto indimostrabile “ritmo nel sangue” innato del popolo afroamericano divennero oggetto di parodia teatrale e musicale e il cosiddetto blues, insieme ad altri generi e infine al jazz, trovarono un grande pubblico di tutti i colori.

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Janis Joplin

Alcune donne divennero presto cantanti leggendarie: Bessie Smith, Ma Rainey, Ida Cox, Lucille Hegamin, Mamie Smith e tantissime altre incisero dischi, quasi sempre con compensi da fame, ma alcune raggiunsero un successo enorme. Poche suonavano uno strumento, perché quasi tutte avevano cominciato a cantare nel coro di una chiesa e perché uno strumento costa, richiede tempo e dedizione, mentre la voce è gratis e le donne, oltre a cantare, dovevano anche occuparsi della cura degli uomini e della famiglia. Nella musica popolare, però, è frequente adattare il testo a chi lo esegue e le cantanti, cambiando i blues composti da uomini e rendendoli propri e originali, sono sempre state anche vere autrici.

Oltre a quanto detto, le cantanti hanno influito sulla struttura del blues anche per un altro motivo: gli uomini che cantavano e suonavano per le strade, e poi negli studi di registrazione, si accompagnavano da sé ed erano autosufficienti, il che significa che erano perfettamente liberi di adottare “licenze poetiche” di natura metrica e ritmica (per fare un esempio, nelle ventinove tracce incise fra il 1936 e il 1937 dal cantante-chitarrista Robert Johnson, considerate alle fondamenta del blues moderno, si ascoltano diverse irregolarità ritmiche, che evidentemente per lui non erano tali e che a noi non danno alcun fastidio). Ma le donne che si esibivano nei locali e registravano dischi erano accompagnate da musicisti che non conoscevano né loro né tantomeno le loro canzoni, dunque mettersi d’accordo e stabilire regole (durata delle strofe, progressione degli accordi, eccetera) divenne necessario. Quando oggi ascoltiamo e suoniamo i blues di B. B. King, Muddy Waters, Jimi Hendrix e tanti altri grandissimi bluesmen, dovremmo ricordarci che questa musica (e la maggior parte del rock) deve la propria forma moderna a tante blueswomen.

Le loro biografie sono talvolta drammatiche. Bessie Smith, all’apice del successo, ebbe un grave incidente automobilistico ma le fu rifiutato il ricovero presso l’ospedale più vicino, che era solo per bianchi, e fu lasciata morire. Billie Holiday (la sua autobiografia è intitolata La signora canta il blues, pur essendo lei essenzialmente una jazzista perché, qualunque cosa cantasse, dalle sue labbra usciva puro blues) da bambina faceva le pulizie in un bordello dove poteva, finito il lavoro, ascoltare dischi; fu violentata a dieci anni; ebbe una vita difficile e povera nonostante il grande successo; ebbe problemi di alcol e droga che la portarono in prigione e poi alla morte. Nina Simone studiò pianoforte grazie ai sacrifici di tutta la sua comunità ma, nonostante il grande talento, non riuscì a fare la concertista classica perché nera; divenne comunque una straordinaria cantante e pianista e, unica nel suo genere, riuscì a conciliare armonie bachiane con il blues. Janis Joplin, adolescente ribelle di una famiglia medio borghese bianca, ebbe un folgorante successo cantando brani di artiste nere e morì a 27 anni. E si potrebbe continuare a lungo.

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Nina Simone

Il letto vuoto e, in generale, lo sgomento provato quando al risveglio ci si rende dolorosamente conto che le cose sono cambiate in peggio è un tema presente anche in molte altre culture; per limitarsi a esempi italiani, basti pensare alla nostra Bella Ciao, sia nell’arcinota versione partigiana, sia nell’originale canto delle mondine piemontesi che, al risveglio, devono affrontare le fatiche e i maltrattamenti che le attendono in risaia. Il tema “stamattina mi sono svegliata”, diffuso nei canti di molte regioni italiane, è trattato soprattutto nei canti delle mondine e delle filandere, strappate a un sonno difficile dalla campana o dal “primo fischio” del lavoro, il cui suono il «sangue fa tremar», e quello dell’abbandono è associato all’emigrazione, sovrapposto talvolta al tradimento. Come possono questi risvegli, a questo punto, non ricordare la frase di Primo Levi «l’alba ci colse come un tradimento»?

Gli addii degli amanti, la partenza degli eserciti, l’irrompere del Male nei ghetti avvengono all’alba. La perdita dell’amore per fuga, coscrizione, prigione, deportazione o morte è un tema universale.

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Sister Rosetta Tharpe

Ma le blueswomen hanno anche saputo prendersi gioco dello stereotipo dell’ipersessualità nera e, decenni prima del Sessantotto e di Woodstock, si sono liberate del voto di castità imposto dalla paludata musica puritana. Non avendo nulla da perdere, hanno cantato una sessualità libera e attiva con toni decisi, e fatto capire che il loro letto, abbandonato per disgrazia o tradimento, non sarebbe necessariamente rimasto vuoto a lungo.

*  *  *  *  *

In copertina: Bessie Smith e la sua incisione di Empty Bed Blues

I libri sul blues sono moltissimi, alcuni fondamentali e altri no. Ne segnalo solo tre.

Il testo citato nell’articolo è: Amiri Baraka, Blues People. The Negro Experience in White America and the music that developed from it, Morrow & C. Inc., 1963 (pubblicato in Italia nel 1972 col titolo Il popolo del blues: sociologia dei negri americani attraverso l’evoluzione del jazz, e poi nel 1994 con il titolo, più politicamente corretto, di  Il popolo del blues. Sociologia degli afroamericani attraverso il jazz).

Uno studio accurato e ben documentato sulla questione delle cosiddette “razze” nella musica africano-americana è: Stefano Zenni, Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore, EDT, Torino, 2016.

Le biografie di undici grandi blueswomen e i profili di venti artiste, italiane o attive in Italia, si trovano in: Elisa De Munari, Countin’ the blues. Donne indomite, Arcana, Roma, 2020

Grazie a Eugenio Colombo e a Elisabetta Mattei per la loro musica e i loro luminosi consigli.

Articolo di Mauro Zennaro

RXPazl9rMauro Zennaro, grafico, ha insegnato Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico e Progettazione grafica negli istituti professionali e in alcuni atenei. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e qualcos’altro in una blues band.

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