Sulla soglia, come un enorme beneaugurante zerbino verticale bucato, gli Archi di Villa Sciarra. Dentro c’è Monteverde; fuori, il resto del mondo. Le secentesche Mura Gianicolensi sorreggono il quartiere stabilendone il confine Est; nelle altre direzioni non vi sono contrafforti visibili, ma chi abita qui sa bene fin dove è prudente avventurarsi. Oltre gli Archi, subito a destra, l’ingresso principale di Villa Sciarra e poi la strada in discesa verso Trastevere (se avete fretta, la Scalea del Tamburino vi ci scaraventa a rompicollo e, volendo, vi riporta indietro, ma con un certo dispendio di fiato).
Nonostante i limiti naturali e prudenziali, esistevano enclavi monteverdine oltreconfine. O quantomeno noi le consideravamo tali. Innanzitutto Villa Sciarra: un tenebroso ingressuccio profondamente trapanato nei bastioni si apriva in viale delle Mura Gianicolensi davanti alla clinica Salvator Mundi che, denominata dal popolo “l’ospedale americano”, era da noi considerata vera e propria rappresentanza statunitense nella Libera Repubblica di Monteverde e a questa dava lustro statuale. Sul piano strettamente geopolitico Villa Sciarra termina a Trastevere e lì si sviluppa quasi per intero, ma noi tagliavamo corto e la definivamo senz’altro roba nostra. Anche il liceo scientifico John Fitzgerald Kennedy, collocato ben oltre le mura e a cui affluivano studenti dai territori a valle fino a Testaccio, era stato incluso in Monteverde per mio desiderio – essendone io appunto frequentante – che i miei sodali quinqueviri avevano ratificato. (È forse superfluo specificare che Stefano, Maurizio, Livio, Giovanni e io detenevamo la massima carica della Libera Repubblica e a noi soli, autoeletti, ne spettavano definizione e regole).
Il principale Territorio d’Oltremura era appena dopo gli Archi, di fronte all’ingresso principale di Villa Sciarra. A sinistra, un’area triangolare intrisa di sacralità era compresa fra due strade aperte a compasso, una tangente i bastioni verso il Gianicolo, l’altra confluente in ripida discesa su viale XXX Aprile. Nella prima aveva sede il convento dei Barnabiti, nell’altra la relativa chiesa e l’oratorio.
Iniziai novenne a frequentare i “Barna” per il corso di catechismo propedeutico alla prima comunione e alla cresima. Mia madre, dopo un primo accompagno, mi ci mandava da solo nonostante il quasi-chilometro che ne separava la sede da casa nostra e, soprattutto, la sua collocazione in terra straniera (taccio sulla retorica dei leggiadri, inoffensivi tempi andati). Il catechismo era condotto da un preticello vecchio dall’aria di acciuga e denominato, per motivi a me incomprensibili, “fratel” Cecchino anziché “padre”. Era una specie di sottoprete o quasiprete, immaginavo, forse bocciato all’esame finale di preteria sacramentale ma comunque abilitato all’esercizio della catechizzazione minorile. Il suo stesso nome era un diminutivo di diminutivo. Noi frequentanti, dopo l’appello e una veloce Ave Maria didattica (non tutti la conoscevamo ancora a memoria), sedevamo per un’ora a ricevere in vario modo ed esito le basi dell’insegnamento cattolico somministrate in via multimediale: nonostante si fosse nei primi anni Sessanta, infatti, fratel Cecchino possedeva una collezione di diapositive straordinarie con le quali supportava la sua voce per l’appunto da acciuga. Senza quelle immagini la nostra attenzione sarebbe stata distratta dalla prima mosca in transito e dall’orecchio di chi sedeva davanti, bersaglio perfetto per assestarvi una schicchera (va da sé che solo un coglioncello o un ritardatario si sarebbe seduto davanti a qualcun altro, quindi i più scafati arrivavano presto e si piazzavano in fondo). Fratel Cecchino ammoniva i reprobi con severità assai blanda, bofonchiando e limitando la repressione al solo inarcar di sopracciglia, per poi dimenticarsene e accendere il proiettore. Le immagini erano tutte gagliardamente stereotipate: la Famiglia Cattolica era rappresentata dalla Mamma Amorevole, dal Papà Operoso, dal Figlio Diligente e dalla Figlia Obbediente, e l’iconografia in tutto allineata con la pubblicità di Carosello. Ma il bello delle diapositive era l’uso intenso di effetti speciali. Sullo schermo, ben quindici anni prima di Incontri ravvicinati del terzo tipo, comparivano simultaneamente umani e alieni: il Bambino Buono e Biondo era accudito da un Angelo Custode in tunica pastello e ali raccolte, un moderato sorriso e il volto reclinato secondo il vecchio trucco botticelliano; il Discolo Olivastro sogghignava ghermito da un Satanasso rubino e fucsia, pizzetto nero, ali chirottere e tutto il corredo di accessori puntuti. C’erano Gesù scandinavo, Maria asessuata e biancoazzurra (guardata con sospetto dai giovani romanisti), aureole a volontà. Così fratel Cecchino, in rappresentanza della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, ci instillava il senso del sacro e questo, per anni, fu tutto ciò che seppi della religione (i miei genitori professavano una fede di livello-base e in chiesa, se si escludono un paio di funerali di prozie e un matrimonio di cugina, non mi ci avevano mai portato).
Nell’oratorio dei Barna c’erano una grande sala con palcoscenico, biliardini e ping-pong, e anche un campetto di calcio ben tenuto, con porte dotate di reti quasi integre e pianta rettangolare – particolare non ovvio per noi che solevamo giocare illegalmente in una risega dei bastioni a forma di triangolo scaleno e piantumata al centro di alberelli segaligni– ma a noi, matricole della Fede non ancora comunicate e cresimate, tale bendidio era interdetto. Prima i Sacramenti, poi i Giochi.
Gli Archi di Villa Sciarra ci vedevano uscire da Monteverde da soli o in gruppetti per poi rientrarvi un’ora dopo in mucchio liberante energia compressa nei modi più pittoreschi. Gli altri quattro quinqueviri non li conoscevo ancora: percorrevano i loro curricula di fede in parrocchie diverse. Li conobbi in prima media e me li portai oltremura.
I tre anni delle medie sono tutta una vita. Li cominciammo bambini e ne uscimmo, se non adulti, almeno spocchiosi e irritanti. Mia madre, che passati i novanta tende a ripetersi, mi ha raccontato un milione di volte l’evoluzione aromatica che andava percependo in camera mia dopo una riunione del quinquevirato. I nostri incontri consistevano in serrati conclavi in casa dell’uno o dell’altro dopo i compiti o un’ora di pallone, spesso in limine litis, nel campetto triangolare: in prima media puzzavamo quella puzza infantile che sa appena di ricotta, in seconda di gorgonzola, in terza di squadrone di capre dissenteriche. E stavamo quasi sempre da me perché avevo una mia stanza piuttosto grande, da figlio unico di piccola borghesia. Mia madre dunque sapeva ma, unipara, non aveva termini di confronto. Sorvegliava a distanza i miei lavacri – non le consentivo più parte attiva – come facevano le altre madri, con le quali si confrontava al mercato o durante i ricevimenti delle professoresse, e tutte confessavano sgomente: ma quanto puzza mio figlio! Perché l’evoluzione dei nostri corpi ci aveva portato a quel punto di non ritorno di cui noi stessi subivamo il peso. I nostri strilli divenivano gutturali, pelame animale ci andava crescendo ovunque, pedicelli suppuranti ci perforavano, malinconie a tradimento ci coglievano nel mezzo di tramonti arancio e viola mai esistiti prima. E organi precedentemente adibiti al solo uso idraulico ora pulsavano di vita propria, enfiandosi dolorosamente senza preavviso nei momenti e nei luoghi meno opportuni. Ci sembrava che vi confluissero gli sguardi di tutti. Intuimmo che il controllo totale era illusorio. I bambini sono gregge, gli adulti masnada; sulla soglia si è soli. Le mamme, lavati i pigiami, facevano domande e la nostra evasività a testa bassa ci imporporava le orecchie. Stavamo là, proprio sulla soglia, e non ne uscivamo.
Esaurito l’addestramento di fratel Cecchino ed espletati i Sacramenti, fui ammesso al circolo dei grandi con gli onori e gli oneri relativi. Oltre al campetto di calcio, al ping-pong e al biliardino, fui accolto alla messa domenicale delle nove, alla confessione e ai corsi di catechismo avanzato del sabato. Fu solo dopo il superamento della soglia che il confessore smise di insistere sugli atti “impuri” e cominciò a indagare sui misfatti veri: l’invidia, l’accidia, l’indifferenza. Sul limitare, invece, la formazione ricevuta dal semiprete ci faceva sentire in peccato praticamente per qualunque cosa. Gli Archi lasciavano benevolmente passare ragazzini confusi, che si percepivano sull’orlo della palude senza coglierne i confini. Il sodalizio con gli altri quinqueviri nacque proprio lì, fra dentro e fuori. È rimasto per noi un momento esule dalla Storia, resistente a qualunque tassonomia. Quando fummo fuori dal prima ed entrati nel dopo, conoscemmo il motorino, la poesia, l’ablativo assoluto, i Rolling Stones, il lavoro. Trovammo, chi prima chi poi, la maglia rotta nella rete; alcuni si sposarono; altri si sposarono perché non c’era nient’altro da fare. Il senso del sacro è stato adattato da ognuno in una sua propria forma.
L’appuntamento è agli Archi di Villa Sciarra. Dei quinqueviri, uno si è perso da tempo: anche da ragazzino pareva trovarsi a casa più in galassie remote che a Monteverde. Nel quartiere nuovi semafori, sensi unici, suv parcheggiati in doppia fila, gustoranti e sfizierie; fuori, negli edifici che furono dei Barna, un’università americana che sento blasfema. Si sono aggiunte a noi, passata la soglia, donne che hanno valicato soglie parallele. Siamo sette, ma senza velleità di settemvirato (né di -virato in assoluto). Passeggiamo a Villa Sciarra con le mascherine, osserviamo (rammaricandocene) un’opportuna distanza, intorno a una fontana barocca ma asciutta sfoderiamo thermos di caffè, bicchierini compostabili, dolcetti e una bottiglina di acquavite per un’eventuale correzione da adulti. In lontananza, persone sole con cani. I temi attuali di crisi e pandemia sono urticanti e non abbiamo voglia di dolercene troppo. Si cita il passato con delicatezza e rispetto, senza esagerare. Gli Archi ci hanno ancora una volta permesso il transito benevoli, sapendo che per noi il loro essere limen è ormai solo simbolico. La soglia, quando l’hai passata, te la tieni dentro.
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Articolo di Mauro Zennaro
Mauro Zennaro, grafico, ha insegnato Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico e Progettazione grafica negli istituti professionali e in alcuni atenei. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e qualcos’altro in una blues band.
Il massimo, per me, è quando una cosa che leggo prima mi fa ridere, poi mi commuove e poi mi viene da pensare. Ecco, tutto questo ho trovato nel tuo racconto.
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È proprio quello che speravo di riuscire a fare. Ti ringrazio moltissimo!
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