In occasione del pomeriggio dedicato alle rose, all’interno del IX Convegno nazionale di Toponomastica femminile, avevamo preparato dei pannelli espositivi sulle pittrici che hanno dipinto rose che, causa Covid, non è stato possibile esporre. Spero di rimediare raccontandovi in questa breve serie di articoli, anche attraverso le immagini, la frequenza con cui questo soggetto ricorre nelle opere d’arte, cominciando, per evitare discriminazioni di genere al contrario, da illustri esempi nell’operato maschile.
Henri Matisse ebbe a dire: «Non c’è niente di più difficile per un pittore veramente creativo del dipingere una rosa, perché prima di tutto deve dimenticare tutte le altre rose che sono state dipinte». A lui è dedicata una varietà di rosa particolarmente apprezzata per i suoi colori accesi e le sue screziature, com’era il suo stile, caratterizzato da colori forti e violenti. La rosa, regina dei fiori per il profumo inebriante, l’aspetto inconfondibile, così complesso e irregolare, la varietà e il fascino dei colori, è simbolo universale d’amore ed è stata fonte di ispirazione per tanti artisti e artiste. Appena abbozzata, in modo da farci sentire la sua fragilità, o indagata minuziosamente nella sua complessa struttura con spirito scientifico, da sola o in ricche composizioni floreali, in vasi, ciotole, giardini, sempre protagonista, la rosa dipinta ha il vantaggio, rispetto a quella recisa, di non sfiorire mai.

L’affresco della Casa del Bracciale d’Oro è tra le più accurate rappresentazioni di giardino appartenenti al Terzo stile della pittura romana e risale alla prima metà del I secolo d.C.. La cura dei dettagli con la quale è raffigurato il lussureggiante giardino fiorito permette di riconoscere diverse specie di piante dell’epoca, oltre a varie tipologie di uccelli. A ogni elemento si accompagna anche un possibile significato simbolico: la rosa, simbolo di seduzione e di grazia, era associata alla dea dell’amore, Venere, a cui era sacra. Una mano femminile o maschile ha disseminato di rose le pareti delle antiche case romane a Pompei? Non lo sapremo mai, ma temo sia stata una schiera di artisti appartenenti al genere maschile, data l’esclusione delle donne romane dalla vita sociale, tranne poche eccezioni. La rosa, che noi oggi chiamiamo “di Pompei”, fioriva due volte l’anno ed era rossa. Veniva usata come pianta ornamentale, ma anche nell’alimentazione e nella cosmesi. Ricercatori e ricercatrici del Parco Archeologico di Pompei e del Dipartimento di Agraria dell’Università “Federico II” di Napoli l’hanno riportata in vita, e oggi l’associazione “La rosa antica di Pompei” coltiva questa varietà in alcuni giardini delle domus pompeiane.

Altre rose le troviamo affrescate nel ninfeo sotterraneo della Villa romana di Livia a Prima Porta, costruita tra il 30 e il 25 a.C., una grande sala ipogea, realizzata per Livia Drusilla, la terza moglie dell’imperatore Augusto. Una staccionata di canne e una balaustra cingono un giardino ricco di arbusti, fiori e frutta, dove volano alcune specie di uccelli e il vento muove i rami alti degli alberi.
Dal culto di Afrodite, dea della lussuria, la rosa passa a simboleggiare quello di Maria Vergine e Madre, che viene spesso appellata come rosa mystica; la rosa rossa in particolare diventa parte integrante del culto mariano e simboleggia il Sangue versato dal Figlio per la nostra liberazione. Viene associata anche a quello versato dai Martiri. Le chiese si tappezzano di fiori, alcune feste cristiane, come la Pentecoste, vengono chiamate anche feste delle rose, e Rosario è il nome di una delle preghiere più popolari del cattolicesimo, adatta sia alla recitazione individuale che collettiva.

Ed ecco allora le tante Madonne del Roseto a cominciare da quella datata 1435 e attribuita a Stefano da Verona o a Michelino da Besozzo, dove la Madonna col Bambino è adagiata su un tappeto di rose, alla presenza di santa Caterina d’Alessandria, di tanti angeli svolazzanti intenti a raccogliere petali di rose e due pavoni che, secondo una simbologia cristiana, alludono all’immortalità di Cristo. La Madonna del Roseto (1469/70), di Sandro Botticelli, dall’atteggiamento pensoso, tiene il Bambino sulle ginocchia, seduta su un trono, sotto un arco; dietro di lei si apre un giardino in cui spiccano soprattutto i fiori di rosa.

Il soggetto è frequente anche nella scultura, come testimonia l’altorilievo in terracotta invetriata (1460/70), opera di Luca della Robbia (Firenze, 1400 – 1482), dove la Madonna con Bambino, dolcemente composta nella sua aulica semplicità, si staglia su un fondo di rose.
Tante rose anche nelle nature morte del XVII secolo, epoca in cui il genere era molto praticato.

In questa Vanitas del 1630 di Jan Davidsz de Heem (Utrecht, 1606 – Anversa, 1683/1684) la bellezza delle due rose recise, disposte su un tavolo accanto al teschio e a un libro, rischiara l’atmosfera cupa, ma sottolinea la caducità della vita umana, come quella dei fiori recisi destinati ad appassire.

Uno dei vantaggi nel dipingere i fiori è quello di poter mettere insieme in un’unica composizione fiori che sbocciano in diversi periodi dell’anno e che, nella realtà, non potrebbero mai coesistere uno accanto all’altro, come si evidenzia nell’opera di Hans Bollongier (Haarlem, 1600 – 1645) dipinta nel 1639 con lo scopo di simboleggiare la caducità di un mondo terreno troppo spesso fondato su delle falsità: il bouquet dipinto da Bollongier mette insieme tulipani, rose, anemoni e garofani.

Vaso con rose rosa è stato dipinto nel 1890 da Vincent Van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890) a Saint-Rémy. All’epoca in cui l’opera fu dipinta, l’artista si stava preparando a lasciare il locale manicomio per la tranquilla cittadina di Auvers-sur-Oise, fuori Parigi.

Arrivato ad Auvers-sur-Oise Van Gogh dipinge ancora rose: siamo nell’ultimo suo anno di vita; non ci sono colori contrastanti caratteristici dei precedenti periodi, piuttosto sfumature pastello e la composizione non è chiara: si accenna solo a un vaso di vetro e le rose sembrano spinte fuori dal piano dell’immagine verso chi osserva. Questo e le altre rose rosa, datate nello stesso anno, riflettono l’ottimismo che l’artista provava in quel momento sul suo futuro, sia nella scelta dei fiori come soggetto che nei colori usati.

Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 – Parigi, 1931), maestro nel catturare con un pennello veloce e incisivo la realtà anche nelle sue manifestazioni più frivole e caduche, sparge, in questo dipinto del 1905, su una panchina un fascio di rose. Sono bianche, gialle, rosa e rosse, poggiate disordinatamente, quasi come un dono a una donna mai venuta all’appuntamento che il deluso spasimante lascia sul luogo dove avrebbero dovuto incontrarsi.

Boldini amava sostanzialmente due cose: le belle donne, aristocratiche, e le rose, che spesso sceglieva di porre a ornamento delle stesse donne ritratte, per sottolineare il loro fascino e la loro sensualità. Sono quasi sempre rose Tè, ibride provenienti dalla Cina e introdotte in Europa agli inizi del XIX secolo, una novità dell’epoca, caratterizzate da una ricchezza di colori sfumati e dal profumo appunto del tè. Il ritratto dell’attrice Marthe Régnier è del 1905, quello della cilena Olivia de Concha è del 1916 e appartiene alla tarda maturità dell’artista, che, nonostante l’età avanzata, continuava ad attirare nel suo atelier donne dell’alta società provenienti da ogni parte del mondo.

Claude Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926) visse metà della sua vita nella dimora di Giverny e noi, attraverso le sue opere, percepiamo il fascino che la natura, che circondava la casa, esercitava su di lui. Queste rose, del 1925/26, appartengono all’ultimo anno di vita dell’artista che, nonostante la malattia agli occhi, continuava a dipingere e a dipingere fiori. «Forse devo ai fiori l’essere diventato un pittore».
La rosa ha ispirato anche i pittori simbolisti, che l’hanno percepita come simbolo di un ideale irraggiungibile. “Blue Rose” è un’associazione di artisti simbolisti che a Mosca dal 1906 al 1910 ritrassero immagini astratte sulle loro tele richiamandosi al poema Fiore blu di Novalis.

Il famoso pittore futurista Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958), dopo l’adesione al fascismo e le delusioni subite, torna al figurativismo con queste raffinate rose del 1941, nella convinzione che l’arte pura è nell’assoluto realismo.

Il dipinto, realizzato nel 1950, testimonia quanto la malattia abbia condizionato lo spirito di De Pisis (Ferrara, 1896 – Brugherio, 1956). In questa natura morta tutto concorre a suggerire la solitudine dell’individuo di fronte alla fragilità della vita: la rosa ancora bella, ma senza vita, appare come prigioniera in una gabbia di vetro.

In questo famoso dipinto di Salvador Dalì (Figueres, 1904 – 1989), realizzato nel 1958, una grande rosa rossa, dalla forma perfetta e dai minuziosi dettagli, fluttua sopra un paesaggio minimalista e scarno. L’artista ha usato la tecnica del trompe-l’œil per creare l’illusione ottica di profondità e conferire alla rosa un effetto tridimensionale. Il particolare di una piccola goccia d’acqua, dipinta con un realismo impressionante sopra un petalo del fiore, crea un effetto luminoso. Vuole alludere forse alla “Bellezza” che salverà il mondo?
Licinio Barzanti (Forlì, 1857 – Como, 1944) presenta rose di diverse varietà: bianco, rosa, rosso. Molte di loro non sono state incluse nel vaso, anche se questo pare abbastanza capace, e sembrano destinate a un secondo vaso, più piccolo. Entrambi i vasi poggiano su una tovaglia bianca, e nell’angolo ci sono diversi libri. L’artista nelle sue opere, paesaggi e composizioni floreali, fonde la tradizione classica con le tendenze veriste.
In copertina. Licinio Barzanti, Rose in un vaso e alcuni libri sul tavolo
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Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.
Bello!! Bello, bello, bello!
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