Leggendo il più recente notiziario del Fai (n. 156) di cui sono socia da anni, sono rimasta molto colpita da una figura di donna che – faccio mea culpa – conoscevo solo di nome e di cui ho scoperto la meravigliosa vitalità, a 95 anni. Si tratta di Pinin Brambilla Barcilon, che su quelle pagine viene intervistata dal vicepresidente dell’associazione, Marco Magnifico, in occasione del suo rientro al lavoro sul cantiere del Monastero di Torba (Gornate Olona), a distanza di 40 anni.

Nel 1977 fu acquisito da Giulia Maria Crespi il complesso monastico che era in pessime condizioni; fu dunque chiamata Brambilla che cominciò a studiare il poco rimasto e poi a lavorare, rintracciando sotto l’intonaco affreschi di epoca longobarda. Un’opera certosina, ricorda, perché togliendo l’intonaco si rischiava di portar via anche il dipinto sottostante. Ma i risultati furono confortanti, come dimostrano le monache “salvate”.
Il sito fu aperto al pubblico nel 1986 ed è diventato – con la torre e il parco archeologico di Castelseprio – patrimonio mondiale dell’umanità Unesco. Anche se negli anni tutto il complesso è stato tenuto costantemente sotto controllo, ora c’è bisogno di un nuovo restauro in cui Pinin può riprendere il lavoro con una intera squadra.

Quando iniziò lei, tanti anni fa, visto che è nata a Monza nel 1925, le cose non andavano così: racconta nell’intervista che era l’unica donna a praticare questo mestiere e il grande restauratore Pellicioli non la voleva sulle impalcature, nella basilica milanese di Sant’Eustorgio; appena arrivava lui Pinin doveva allontanarsi e sedersi in disparte, spesso piangeva per l’umiliazione. «Nessuno ti aiutava, nessuno ti incoraggiava.» Tuttavia quella scuola così dura le è servita a osservare e quindi a imparare. Afferma a un certo punto: «il restauratore è un artigiano. Lavora con le mani, ma anche con la testa e con il cuore. Deve capire chi era il pittore, quali erano le sue titubanze, le difficoltà che può avere incontrato, se le ha superate. Un dialogo muto per capire cosa voleva dire, come ha risolto i suoi problemi. Adesso la tecnica ha prevalso su tutto questo. Nessuno si mette in ascolto, e si vede, c’è una freddezza di restituzione, di ripulire tutto in maniera dura, che è sbagliata.»
Interessanti le riflessioni, sollecitate da Magnifico, sul metodo di restauro in rapporto alle mancanze: l’uso del bianco e del grigio per far comprendere a chi guarda la differenza fra la preparazione sottostante gli affreschi e quanto invece era del tutto mancante; nel tempo anche su questo c’è stata una evoluzione e Brambilla dice: «Nel passato si intonacava tutto per avere un ambiente liscio, poi nell’800 molte cose si sono recuperate, penso al famoso Salone sulla Rocca di Angera; è emersa l’idea di restaurare tornando a rifare le parti mancanti, insomma la restituzione.» Alla domanda: «Il suo rapporto fra neutro e integrazione è cambiato negli anni?» risponde: «Leggermente. A favore di un’integrazione piccola, visibile, che si noti che quello è un rifacimento. Come il velario sotto il Cristo di Torba, abbiamo sottolineato le pieghe altrimenti il visitatore non capisce che quella è una stoffa.»
Ricorda con piacere di aver lavorato per il Fai anche nel castello della Manta vicino a Cuneo dove si è molto divertita nel ridare vita a fanciulle con abiti principeschi, eroi, cavalieri.

Sintetizzando la sua prestigiosa carriera professionale, ricordiamo che fra il 1978 e il 1999 fu l’artefice del restauro dell’Ultima cena di Leonardo che le portò grande notorietà internazionale; una attività memorabile, che l’ha completamente assorbita per 22 anni.
Sull’esperienza ha scritto il libro La mia vita con Leonardo (2015).
Racconta una collaboratrice di allora che difficilmente la si vedeva sorridere, era una donna dal carattere forte, e ce ne voleva tanta di forza per svolgere un lavoro che richiedeva dedizione totale, per resistere a pressioni continue, pareri di comitati, giudizi di esperti internazionali, visite dei personaggi più vari, per superare le mille difficoltà tecniche e i frequenti cambiamenti di aiutanti. Si era dunque creata una forma di difesa per superare stereotipi e pregiudizi in relazione a un mestiere tradizionalmente maschile. Nelle foto degli anni Cinquanta, mentre sta lavorando, la si vede in gonna e scarpe con il tacco: i pantaloni erano fuori luogo, ma per salire sui ponteggi, durante i successivi restauri di grande ampiezza e rilevanza, divenne indispensabile un abbigliamento più pratico.

Nella lunghissima carriera – iniziata nel 1954 – ha operato a Padova sui dipinti di Giotto nella cappella degli Scrovegni; ha restaurato opere di Filippino Lippi, Piero della Francesca, Mantegna, Caravaggio, Tiziano, Tiepolo, insomma tutti i maggiori sono passati dalle sue mani instancabili e sapienti. Ha restaurato anche gli affreschi altomedievali di Oleggio, quelli quattrocenteschi al palazzo Borromeo a Milano e il battistero di Castiglione Olona, opera di Masolino da Panicale. Si è occupata pure di arte moderna e contemporanea: da Fontana a Man Ray. Ha fornito consulenze all’estero: al Louvre e al Museo nazionale d’arte della Catalogna di Barcellona, ed è stata chiamata – sempre a Parigi – per il restauro dell’opera leonardesca Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino (nel 2012). Non si contano i convegni, le conferenze, i seminari a cui ha partecipato in tutto il mondo. Per venti anni (dal 1970 al ’90) ha fatto parte del comitato nazionale italiano dell’International Council of Museums; lo scorso anno è stata voluta dal Mibact nel comitato per le celebrazioni leonardiane. Il 27 settembre 2019 l’Università di Torino le ha conferito la laurea honoris causa in Conservazione e Restauro dei beni culturali.
Nel 2005 ha fondato il Centro per la Conservazione e il Restauro “La Venaria Reale” che ha sede nel comune omonimo, alle porte di Torino, e che ha diretto fino al 2012. Proprio lì ora si trova l’archivio relativo alla documentazione del suo lavoro, nell’arco di tempo che va dagli inizi al 2016.
Concludendo l’intervista citata, Pinin Brambilla suggerisce una buona regola per parecchi mestieri e attività umane: «La materia può raccontare molto, se uno ha la pazienza di ascoltare. È questa la cosa fondamentale che s’impara: ci vogliono esperienza e sensibilità.»
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Articolo di Laura Candiani
Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume e Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
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