La diversità come espressione della propria originale identità; la guerra come conseguenza di una originaria paura di essere contaminati dal diverso.
Il film è stato presentato e discusso in diversi ambiti educativi: nelle scuole — a partire da un gruppo di alunne/i di cinque anni fino alle scuole secondarie di primo grado — in progetti di sostegno alla genitorialità, a insegnanti e educatori impegnati in un ciclo di incontri su tematiche relative allo sviluppo dell’autonomia/identità/diversità. Il tema della diversità, e di conseguenza dell’identità e autonomia personale, è qui esplorato attraverso la storia di un bambino a cui improvvisamente i capelli diventano verdi. È questa una strana e contagiosa malattia? Oppure è un segno distintivo, speciale di cui andare fieri perché «Nessuno al mondo ha i capelli verdi»?
Sono queste le domande che interrogano il soggetto del film e noi adulti come interlocutori nei confronti del soggetto portatore di una difformità. Noi generalmente pensiamo la diversità come sinonimo di mancanza, difficoltà, disagio, una condizione che suona come penalizzante per l’individuo, che può generare esclusione, discriminazione, avversione, se non, addirittura, atti di bullismo, come avverrà, a un certo momento, nei confronti del protagonista. Nel film, invece, la diversità ci viene presentata come quella componente che distingue la persona rendendola unica, quindi speciale, preziosa. Ma soprattutto nella sceneggiatura si dà ragione di questa difformità, e cioè, ogni individuo, proprio per la sua specificità, ha un suo compito sulla terra. E qui sta il senso della vita, di ogni esistenza. In quest’ottica è evidente che non esiste una diversità che possa essere sentita come deficienza o discriminante sociale; piuttosto come realtà che, proprio in virtù del fatto che ogni individuo è ugualmente diverso (paradosso), è segno di uguaglianza.

Analisi del film. Questo film, del 1948, prodotto quindi a tre anni di distanza dalla tragedia di Hiroshima, racchiude molteplici possibilità di lettura che lo rendono significativamente attuale, offrendo compositi spunti di riflessione. Infatti, se da un lato la vicenda che vi si narra costituisce una interessante pagina di psicologia dell’età evolutiva in quanto percorre la storia della crescita e della faticosa conquista di una identità personale da parte di un bambino, sotto un altro aspetto costituisce motivo di riflessione sugli atteggiamenti che spesso caratterizzano il complesso rapporto fra adulti e bambini,specie quando questi ultimi sembrano deviare dalle attese conformiste del mondo dei grandi. Inoltre, il film tratta il difficile e scottante tema della diversità nella prospettiva di un messaggio pacifista che, sebbene collocato nel periodo storico immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, assume una particolare attualità nell’ambito della cronaca del nostro tempo.
Il messaggio di cui il film è portatore assume, poi, una particolare importanza in campo educativo, poiché, come le immagini stesse suggeriscono, la diffidenza o, addirittura, l’odio verso il diverso non fa parte del mondo infantile, ma è sempre il prodotto di un condizionamento che proviene dagli adulti e che induce a pensare come la violenza e le guerre, al di là delle motivazioni tradizionalmente addotte, economiche o legate alla ragion di Stato, si costruisca soprattutto durante l’infanzia attraverso gli atteggiamenti che i grandi (genitori, insegnanti e altri) trasmettono pedagogicamente alle/ai piccoli. Il film, infatti, presenta diverse tipologie di comportamento degli adulti nei confronti del bambino rispetto a uno stato di diversità che suscita, in chi ne subisce la condizione, sentimenti di solitudine, di abbandono, di paura, ma anche di attesa e di speranza. Il film, quindi, sebbene in una forma un po’ didascalica, ci consente, attraverso il confronto con il comportamento dei diversi personaggi, di riflettere su alcuni dei nostri comportamenti, sul nostro modo di entrare in relazione con bambini e bambine e con la loro originale diversità. Contemporaneamente rappresenta uno stimolo a individuare quelle metodologie che possano aiutare i ragazzi e le ragazze nella scoperta, nell’accettazione, nel riconoscimento di quegli aspetti di sé che rappresentano la propria identità, cioè il proprio specifico modo di essere, sentire, pensare, agire, sostenendoli nello sviluppo del processo di autonomia.
La storia di Piero. La storia che Piero, questo il nome del protagonista, comincia a narrare al dottore dei bambini inizia dalla sua nascita, quasi a significare che il destino di ciascuno è racchiuso nel mistero del nostro emergere all’esistenza in modo unico e irripetibile, forse con una missione altrettanto unica da portare avanti nella vita. Il racconto prosegue con la rievocazione d un’infanzia felice, dove tutto aveva il sapore di una magica festa (il compleanno, il Natale, il Carnevale…) nella cornice ovattata e protettiva dell’amore dei genitori fino al momento in cui l’arrivo di un misterioso telegramma spezza bruscamente il cerchio magico del primo incantato mondo infantile. Da questo momento, in cui i genitori scompaiono repentinamente, il bambino, sradicato dall’ambiente familiare, è costretto a peregrinare di casa in casa, senza sicurezza alcuna, privo di identità e di appartenenza. Il pellegrinaggio di Piero giunge comunque a una svolta quando egli, pieno di paure e diffidenze per le esperienze di rifiuto cui è stato esposto, approda in una cittadina degli Stati Uniti, ospite di una nuova figura adulta: il nonno, un lontanissimo parente che, vedovo e solo, presenta comunque le qualità di un nonno autentico; una straordinaria presenza mediatrice in grado di riconciliare il bambino con la realtà ostile che lo ha, fino a quel momento, respinto. Mediante la relazione con il nonno è possibile per Piero cominciare ad accettare la realtà, anche quella drammatica della morte dei genitori, i quali come medici hanno scelto di restare in ospedale sotto il fuoco dei bombardamenti per salvare altri bambini e altre bambine.

Ma quale particolare significato assume nella storia personale del ragazzo questo evento? Egli ce lo rivela attraverso il suo racconto. Tramite la narrazione, il protagonista esprime l’immediato sentimento di disagio conseguente alla condizione di orfano in cui la scomparsa dei genitori lo ha posto; una condizione che egli violentemente rifiuta poiché lo pone in uno stato di diversità rispetto agli altri bambini (emblematica la scena a scuola in cui, costretto a prendere atto della triste realtà, la nega quasi fosse una colpa di cui vergognarsi). La diversità, e qui comincia a delinearsi il messaggio del film, separa dagli altri. Ma la differenziazione dagli altri rappresenta anche un momento fondamentale nella vita della persona, quello che Jung definisce come processo di individuazione riferendosi al percorso di crescita attraverso il quale il soggetto si costituisce come individuo. E diventa uno, o unico, quindi solo.
Chi è il ragazzo dai capelli verdi? Il film inizia in una centrale di polizia dove un bambino rapato rifiuta di comunicare ai poliziotti che lo interrogano il proprio nome, cioè la propria identità. Il suo silenzio lascia trasparire chiaramente un atteggiamento difensivo-aggressivo, di opposizione nei confronti dell’autorità adulta che, in piedi, sta incombendo, anche fisicamente, su di lui, obbligandolo a conformarsi a un generico modello di presentazione. Questa comprensibile resistenza del bambino di fronte all’atteggiamento inquisitorio dei poliziotti si svelerà ben presto come la conclusione di una storia di cui egli è il protagonista; una storia che sarà disponibile a raccontare solo quando ai poliziotti si sostituirà un nuovo personaggio: il dottore dei bambini (pediatra-psicologo), il quale assumerà nei suoi confronti un atteggiamento empatico e rispettoso, attraverso una comunicazione alla pari. In sostanza, il bambino accetterà di narrare la propria storia e di rivelare il proprio mondo solo a questo adulto il quale, dialogando a sua volta con la propria parte bambina, è riuscito a porsi in sintonia con lui, parlando e condividendo il suo stesso linguaggio.
Ecco che il film può, allora, essere letto come il susseguirsi delle tappe di un percorso evolutivo che, dall’indifferenziato, porta il soggetto alla conquista della propria identità, quella di un ragazzo con i capelli verdi. Ma il cammino non è certo esente da difficoltà e disagi; la paura della solitudine, che è alla base delle spinte conformistiche, induce la persona a cercare rassicurazione nel gruppo o meglio nelle somiglianze con gli altri e ad escludere, in quanto rappresentazione di una minaccia profonda, il diverso. Possiamo, alla luce di questa riflessione, ricondurre a una paura profonda, all’incapacità di accettare la propria e altrui diversità, la lotta al diverso, cioè la radice degli odi e delle guerre? Il film, con il susseguirsi delle vicende, sembra indicare questo. Piero, infatti, dopo l’episodio della scuola in cui ha preso atto della morte dei genitori e con essa della propria condizione di diversità rispetto ai compagni che, non casualmente, lo additano, includendolo nella categoriaorfani di guerra ed escludendolo da quella di bambini normali, manifesta la paura della guerra, l’evento che, prematuramente, lo ha lasciato solo, segnando, in tal modo, la sua persona. Sarà il nonno che, interpretando la paura del bambino, lo rassicurerà, attraverso l’introduzione di un elemento simbolico, la piantina verde, come principio di vita, di rinascita, che coltivata in casa può contrastare i venti di guerra, cioè quegli impulsi aggressivi e regressivi (che possiamo definire piccini o immaturi) che spingono le persone a combattersi e distruggersi.
La crescita dei capelli verdi. Al mattino Piero ha i capelli verdi. Scomparsa la paura, egli può cominciare a manifestare la propria diversità, affermando la sua individualità e unicità. «Quanti hanno i capelli verdi? Nessuno», dirà gonfiando il petto, orgoglioso. Il verde, in questo senso, rappresenta il colore della speranza in un mondo nuovo, dove, essendo possibile affermare la propria individualità: «Io ho i capelli verdi» e riconoscere la diversità altrui: «Tu ce li hai rossi» senza sentirsi da questa minacciati, è possibile instaurare un dialogo con le parti diverse e avverse, scoprendo le meraviglie del nuovo essere. Nella storia di Piero emergono tutte le fatiche e le contraddizioni che accompagnano il processo di consapevolezza, dove il ruolo giocato dagli adulti acquista un peso e un’importanza determinante.
Di fronte alla scoperta dei capelli verdi, il nonno, pur preoccupato dalle inevitabili conseguenze che una tale esplicita manifestazione di disuguaglianza può provocare, rassicura il bambino, intuendo, dietro l’evento alquanto bizzarro e incomprensibile, la possibilità di una motivazione profonda, una missione speciale di cui il ragazzo, inconsapevolmente, sarebbe portatore. Piero, pur allettato dalla nuova situazione esistenziale, che lo pone in una condizione privilegiata, unica, non è pronto ad ascoltare questo messaggio che lo vuole adulto, in grado di affrontare la responsabilità e l’impegno che ne conseguono («Se dovessero tornare neri non faremo nienteper impedirlo, vero nonno?») e confida in un magico, quanto improbabile ritorno al passato. La paura che inizia a prendere corpo, manifestandosi poi in modo chiaro nell’improvvisa frase «Io a scuola così non ci torno» ha come oggetto il confronto con gli altri e il loro possibile rifiuto.
La paura del contagio. Ma osserviamo, nello svolgimento della vicenda filmica, la reazione sociale all’elemento strano (o estraneo) di cui Piero è portatore e che si distingue a seconda che gli altri siano bambini/e o adulte/i.
La prima risposta dei bambini ai capelli verdi è di ammirazione ed è solo conseguentemente ai comportamenti discriminanti degli adulti che anche il loro atteggiamento cambia («La mamma mi ha detto di starti lontano»). Gli adulti parlano di contagio, diffondendo e trasmettendo la paura del contatto con Piero. Ma di che cosa hanno in realtà paura? Se analizziamo il termine — contagio — da essi utilizzato per descrivere il loro sentimento, questo si associa immediatamente al concetto di malattia e alla discriminante sanità, ovvero l’utilizzo del termine contagio pone immediatamente un limite al di qua e al di là del quale si formano due categorie: quella dei sani e quella dei malati. E quindi alla possibilità che i sani si ammalino (cioè diventino uguali ai malati).
Nel sentimento di appartenenza alla categoria dei sani è naturalmente insito un atteggiamento di presunzione che inevitabilmente attribuisce una posizione di inferiorità all’altro, quello appartenente al gruppo malati. Da qui la paura di perdere la propria privilegiata posizione. Questo comportamento ci induce a supporre che il bisogno concettuale di dividere, escludere, classificare corrisponde a un bisogno emotivo profondo, quello di contrastare, far fronte all’angoscia di perdere la propria identità, e ciò, coincidendo con il senso di appartenenza, si traduce in comportamenti sociali razzisti o discriminanti.
Semplificando possiamo concludere che, attraverso la cultura del simile (buono) e del diverso (cattivo), si alimenta un modello comportamentale conflittuale-aggressivo, che, trasmesso ai bambini e alle bambine, entra a far parte integrante del loro mondo e della loro personalità. È significativa allora la frase «La guerra fa tanto male ai bambini» la quale assume, in questo contesto, un duplice senso. In conclusione, nel film viene evidenziato il ruolo che le persone adulte, educatori ed educatrici a vario titolo, svolgono nello sviluppo della personale relazione con la propria e altrui diversità, una specificità fondamentale per apprendere i valori fondamentali alla convivenza civile.
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Articolo di Paola Malacarne

Psicologa clinica e di comunità, ex insegnane di scuola dell’infanzia, progetta percorsi formativi per le P.O. e corsi di formazione pittorica per docenti, che hanno come fine, oltre alla formazione stessa, il benessere professionale.
Si occupa di cine-terapia e conduce gruppi di incontro e counseling, incentrati sull’esperienza filmica.