Credo fosse il mese di maggio del ’95. Ricordo che si stava bene, la temperatura era ottimale per i campionati studenteschi. Alcune mie compagne guardavano la pista dagli spalti, godendosi il sole, mentre, come tutti gli anni da quando avevo iniziato la scuola superiore, io mi trovavo ai blocchi di partenza, con il cuore a mille e gli occhi sgranati, a maledire i secondi che mi separavano dalla fine di quello strazio. Corsia numero due, mi ricordo ancora. Ogni santa volta, senza possibilità di eccezione, il mio professore di educazione fisica, il prof. Ambrogio Sfondrini, amatissimo e storico docente del Liceo Gandini di Lodi, mi iscriveva d’ufficio alla gara più odiata dal mondo studentesco e, forse, dal mondo in generale: i cento metri a ostacoli. Maledettissima, difficilissima specialità. La peste nera degli inesperti. Perché nessuno, che non fosse costretto o non avesse qualche grave turba al cervello, si sognerebbe mai di fare una gara tanto tecnica senza un adeguato allenamento. Nessuno, dico. Neppure io, che non sono mai stata né una temeraria, né un’imbecille. Ma, per chissà quale misterioso dispetto del destino, avevo due caratteristiche che mi rendevano la vittima perfetta da immolare sulla pavimentazione di tartan: la prima era che, per debolezza di carattere, non sapevo dire di no al mio professore, che adoravo; la seconda è che con gli ostacoli, accidenti, ci sapevo fare. Tre passi, gamba destra sull’asticella, la sinistra di riporto, piegata quel tanto che basta per passare a filo del legno e si ricomincia coi tre passi. Quel passaggio mi veniva piuttosto naturale, non ho mai saputo perché. Mi riusciva, sì, ma lo odiavo lo stesso. E tutte le volte mi ritrovavo con le scarpe da ginnastica sui blocchi, in uno stato di agitazione tipo svenimento imminente, con la voce di mia mamma nella testa «Mi raccomando, non farti male» e quella della mia coscienza nel cuore «Sei la solita scema. Potevi dire di no. Cosa ci vuole? Due letterine facili facili e te ne saresti stata anche tu lassù a prendere il sole con le tue amiche». La starter intima che è giunta l’ora di mettersi ai posti. Qualche secondo infinito e poi lo sparo. Parto un po’ in sordina, come sempre, raddrizzo la schiena e dopo tre ostacoli sono già in testa. Come tutti gli anni, accidenti a me. Sto superando con agilità anche il quarto trabiccolo, quando la ragazza accanto a me, in corsia tre, rovina a terra, picchiando il ginocchio e sbattendo la faccia contro il legno dell’ostacolo. Mi basta il suono per capire che si è rotta qualche dente. D’istinto mi fermo. Questione di frazioni di secondo. Mai saputo che si potesse passare così rapidamente dalla propria velocità massima all’immobilità più assoluta. Mi volto e sto per superare la linea che separa le corsie per andare a soccorrere la poverina, che ha iniziato a rannicchiarsi, singhiozzando. È allora che il mio professore, a bordo pista, comincia a gridare come un matto e a sbracciarsi. «Baldini, pezzo di somara, vai avanti!». La pista di atletica è a senso unico. Solo avanti si può andare, altrimenti sei eliminata. Tornare indietro o andare di lato non è contemplato. Sono confusa, resto immobile. Vedo la ragazza a terra che sanguina, piange a dirotto. E i paramedici che corrono verso la pista. «Somara di un somara, vai avanti ti ho detto!» continua il professore, battendo le mani, come per risvegliarmi da uno stato di trance. Il trucco funziona. Mi volto e continuo a saltare quei luridi, schifosissimi, maledetti, odiati ostacoli di legno e metallo. Accidenti a loro. Ormai però ho perso il ritmo e le altre ragazze sono già avanti di qualche metro. Arrivo alla fine lo stesso, con caparbietà. Seconda. Senza più fiato e frastornata. Il professor Sfondrini è lì che mi aspetta scuotendo la testa. «Cosa mi combini, Baldini? Non vedi che ci sono tre ambulanze? Cosa pensi che stiano qui a fare, coreografia?». «No, solo che…». «Solo che come sempre hai pensato che dovevi risolvere tu la situazione, che dovevi essere tu ad aiutare. Ci sono persone più preparate di te. Tu sei qui per correre e saltare, altri per curare. Saresti stata solo d’intralcio. Devi fidarti degli altri, per certe cose. Come del tuo professore, che ti iscrive alla gara degli ostacoli perché sa che sei brava e puoi vincere, anche se tu non ci credi mai. O combini qualche casino, come oggi.» Poi mi diede una pacca sulla spalla, come faceva sempre dopo una gara, e andò a guardare le mie compagne che lanciavano il peso o saltavano in lungo, riscuotendo molto più successo della sottoscritta.
Fu una lezione importante, che non ho mai dimenticato, anche se credo di avere impiegato anni a capirla. Il mio professore aveva ragione. Come sempre, del resto. Avevo perso perché avevo peccato di presunzione. Avevo perso di vista il mio obiettivo, perché volevo sostituirmi ad altri. Certo, in buona fede, ma avevo comunque sbagliato. Perché a volte, nella vita, bisogna sapersi affidare. Bisogna fidarsi di chi è lì per fare il proprio dovere o mestiere con maggior competenza di noi. Avere l’umiltà di fare un passo indietro, di lasciar fare.
In questi giorni ho ripensato spesso a quell’episodio. Ho uno zio ricoverato a Brescia per Covid, un nonno in ospedale con la polmonite. Ho perso alcune persone care in questi lunghi mesi di pandemia. In corsia non si può entrare, le notizie arrivano con il contagocce. Anche queste, come la pista di atletica, sono a senso unico. Bisogna fidarsi. Fidarsi e affidarsi a chi fa della cura del prossimo la propria professione o, se si vuole, missione. L’atto del dare fiducia alla cieca, senza garanzie né promesse, è quanto di più coraggioso e difficile possa venir chiesto a un essere umano. Perché è un atto di abbandono assoluto, senza compromessi. Affidarci ad altri/e è tutto ciò che possiamo fare, una volta constatata la nostra impotenza. Quanti racconti ho ascoltato e letto di migranti, donne e uomini, nelle cui parole questo sentimento riempiva ogni scelta, ogni tappa del viaggio. Un gesto quasi disperato, l’affidarsi all’altro, eppure possibile. Un gesto eroico, fidarsi di chi non si conosce, ma insieme profondamente umano. Mentre piccoli segni natalizi, addobbi, alberelli e presepi spuntano tra le corsie degli ospedali, accanto a essi accade una cosa che a me piace molto e che, a mio parere, vale più di mille simboli. È l’abitudine che ha preso il personale medico e paramedico di segnare il proprio nome sulla divisa. Alcuni/e hanno addirittura attaccato sopra la tuta la propria fotografia. Lo trovo un gesto di grandissima attenzione e umanità. Perché è più facile fidarsi di una infermiera che si scrive il nome sulla tuta, rispetto a un automa intabarrato fino alla punta dei capelli. È più rassicurante sapere che ci sono Sara, Laura, Luigi accanto ai miei cari, invece che un anonimo operatore o una primaria di reparto. Se mi devo affidare a te, voglio almeno guardarti in faccia. E se non posso scorgere i tuoi occhi, perché nascosti dietro mille visiere e mascherine, voglio almeno conoscere il tuo nome. Allora sì, saprò chi sei. E ti affiderò la mia vita o quella delle/dei miei parenti e amici con più coraggio. E quando tu pronuncerai il mio nome, io risponderò con il tuo, per scacciare, almeno per un attimo, il senso di solitudine. Per fortuna i sorrisi non sono a senso unico. So che mio nonno dorme molto durante il giorno. È stanco e sedato. Ma lo immagino sorridere ai suoi infermieri e alle sue infermiere, alle sue dottoresse e al personale che lo accudisce ogni giorno, quando apre gli occhi. Così come ha sempre fatto con noi.
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
Ho trovato l’articolo di Chiara Baldini bellissimo, commovente e molto ben scritto. A volte l’umilità è rendersi conto dei propri limiti e del proprio posto. Bravissima
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