Primi anni Settanta. Da ragazzina trascorrevo i giorni di luglio in Sardegna. I miei genitori mi iscrivevano ai campi estivi di un’associazione giovanile internazionale e, poco dopo la chiusura della scuola, partivo per Olbia e per le mie settimane di totale indipendenza. In quella realtà il tempo era intenso, assoluto, libero dalla suddivisione in giorni, ore e minuti; lo spazio fisico del campo, non vasto, si trasformava in una bolla perfetta, un universo completo e compiuto.
Come nel mondo “reale”, nel campo esistevano dei posti cruciali, centri nevralgici nella vita di un centinaio di ragazzine e ragazzini che, per qualche settimana, si trovavano a vivere lontane/i da casa. Li chiamavamo “la loggia”, “la zona d’ombra”, “la mensa”, punti di incontro con amiche e amici, e anche con noi stesse/i.
I miei ricordi di allora ne rievocano anche un altro, un po’ defilato nella geografia del luogo: il bagno femminile. Ripensandoci adesso, era l’unico luogo del campo in cui entravano le differenze di genere. Altrove, negli spazi comuni, la vita si svolgeva in un’apparente parità fra maschi e femmine: insieme si facevano le prove di nuoto e i giri in kayak, le passeggiate e le gite notturne, l’alzabandiera e le chiacchiere nella zona d’ombra, i canti intorno al fuoco e le gare sportive, partite di calcio comprese.

Molto di me si è formato in quel bagno, una costruzione in muratura bianca molto spartana: porte che chiudevano male, finestre con i vetri appannati dalla salsedine, pavimento reso sdrucciolevole dalla sabbia, trascinata all’interno dai nostri zoccoli e da quel vento teso — che noi chiamavamo Ponente — che si intrufolava attraverso le fessure degli infissi rosicchiati dall’aria salmastra.
Andavamo in bagno più volte al giorno, da sole o in gruppetti, con saponette e asciugamani, cambi di biancheria, spazzolino e dentifricio, trucchi per gli occhi, pettine o spazzola. All’interno si formavano, senza appuntamenti fissi, gruppi di chiacchiere, di risate e complicità. Si entrava e si sceglieva se uscire poco dopo o fermarsi a scoprire una parte della vita.
In quegli spazi ho cominciato a conoscere l’universo femminile, al quale appartenevo senza averne piena consapevolezza. Uno sguardo sul mio essere che mi attraversava l’anima, la mente e il corpo.
La scoperta degli assorbenti interni fu per me una vera rivelazione. La prima volta che ne vidi uno rimasi in silenzio, con una curiosità feroce pari solo alla preoccupazione di dire qualcosa di sciocco. Gli assorbenti esterni, che mi erano stati consegnati non molti mesi prima da mia madre, mi apparvero in un istante oggetti primitivi e inadeguati. Con lei non avevo parlato molto, più per mia ritrosia che per suo imbarazzo, tutto era stato liquidato come un evento naturale e a quell’evento mi ero adattata. Quei piccoli cilindretti di cotone pressato si scontravano con la mia inesperienza, mi tormentavano con continue domande che, in fondo, ruotavano intorno a un unico argomento: la verginità poteva costituire un ostacolo? Non sapevo rispondere e non sapevo neanche come cominciare a chiedere, imbarazzi su imbarazzi bloccavano ogni curiosità.
Dall’interno del pacchetto usciva un foglietto illustrativo che le più esperte non guardavano e buttavano. Poteva essere una soluzione ai miei problemi, ma leggere le istruzioni equivaleva ad ammettere di essere all’oscuro di tante cose, di avere molte idee confuse. Non ricordo tutte le tappe di quel rito di iniziazione, ricordo però che le indecisioni si sciolsero all’improvviso e, pur continuando a bluffare sulle mie conoscenze di anatomia femminile, ne usai uno. Fu più naturale di quanto avessi pensato e, soprattutto, fu naturale affidarmi all’esperienza delle altre, senza domande né risposte, fidandomi unicamente del fatto che fossero ragazze come me. La vera scoperta di quel momento fu anche un’altra: la complicità e la solidarietà femminile, un’alleanza per il futuro.
Nel bagno femminile si parlava spesso di amore.
Nella dimensione di assoluta libertà del campo estivo, ci si innamorava e ci si lasciava, ci si tormentava o ci si rassegnava mille volte, e ogni volta in modo assoluto, esclusivo e unico. In quegli spazi angusti e poco accoglienti, la dimensione affettiva entrava con la forza e l’intensità che solo delle adolescenti possono provare. Non era l’unico luogo che ospitava le nostre narrazioni ma se ripenso ad una parte della mia educazione sentimentale, torno a quelle mura spoglie e a quei mucchietti di sabbia sul pavimento. L’ambiente che proteggeva i nostri discorsi era scomodo, senza possibilità di appoggiarsi da qualche parte se non al bordo dei lavabi, senza possibilità di sedersi se non sui water di ceramica o per terra. Non era importante. Si imparava a conoscere l’amore vivendo ciascuna il proprio innamoramento o la propria delusione. Il disvelamento dei misteri amorosi passava attraverso le narrazioni, le lacrime, le imprecazioni, i sussulti e i languori delle altre che si aprivano al racconto. I discorsi nascevano in modo naturale e immediato, condivisi in maniera spontanea attraverso brevi commenti o lapidarie sentenze, risate o pianti irrefrenabili, abbracci o silenzi gelosi. Erano incontri piuttosto caotici, disordinati, durante i quali le emozioni sgorgavano sovrapponendosi in una mescolanza di sentimenti in cui riuscivo a trovare pezzi di me, che mi apparteneva nonostante fosse capitata a un’altra.

Le più grandi fra noi parlavano anche di sessualità. Io, più piccola, le ascoltavo, non riuscendo a comprendere sempre tutto. Percepivo la serenità e la dolcezza di quella parola, le loro emozioni quasi diventavano le mie; imparai però che dietro la sessualità si potevano nascondere anche molte delusioni, situazioni dolorose, talvolta penose; che alcuni maschi, pur mostrandosi forti, sicuri, conquistatori, avevano le idee confuse e trasformavano la loro inadeguatezza e l’incapacità di comprendere in accuse mortificanti nei confronti delle compagne.
L’amore aveva un difficile sistema di apprendimento, eravamo lì a parlarne, a cercare di comprenderlo e di spiegarlo. Eravamo giovani, inesperte della vita, parlavamo di noi, ci rispecchiavamo negli sguardi delle altre, comprensioni e incomprensioni si alternavano in quel comune avvicinamento alla vita.
«Non prendere mai alla leggera l’amore» ha scritto Hemingway, e noi a modo nostro l’abbiamo fatto. Nonostante fosse al centro dei nostri pensieri però, e per fortuna, non è diventato mai il centro dei nostri destini.
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Articolo di Barbara Belotti

Già docente di Storia dell’arte, si occupa ora di toponomastica femminile, storia, cultura e didattica di genere e scrive per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Toponomastica del Comune di Roma.