Diverse testimonianze ci tramandano che in molti paesi di mare le donne, tramite la recita di orazioni tramandate di madre in figlia, erano le uniche in grado di placare le tempeste marine. Nonostante questi poteri straordinari, antiche superstizioni invece ritenevano le donne a bordo di natanti portatrici di maledizioni e sfortune.
Non ci sono testimonianze su donne pescatrici e quindi si è sempre pensato che questo mestiere fosse esclusivamente riservato agli uomini.
Anche in Sicilia non c’era traccia di donne di mare. Si è creduto così che le siciliane non si fossero mai avventurate per mare, fino a quando l’antropologa Macrina Marilena Maffei ha scoperto una storia che era stata fagocitata dall’oblio.

La studiosa ha scoperto che fino al 1950, nelle sette isole Eolie, c’erano delle donne che, anche da sole, andavano a pesca fino a quindici-diciotto miglia lontano dalla costa. Affrontavano coraggiosamente il mare in burrasca, si spostavano di isola in isola per vendere il pescato, arrivando a volte fino a Milazzo o a Palermo.
Queste pescatrici hanno segnato profondamente la storia dei loro territori ma nelle ricostruzioni storiografiche locali non se ne trova alcun cenno. Inesorabilmente sono state estromesse dalla memoria, è stato negato loro il diritto del ricordo di tutto quello che sono state capaci di realizzare per la sopravvivenza delle loro famiglie e delle loro comunità.
Il libro di Maffei Donne di mare nasce con l’unica finalità di strapparle «dal mondo della trasparenza», di raccontare la loro vitalità, la forza e le fatiche, l’energia ed il loro patire.
Raccogliendo interviste e testimonianze, pare di rivederle quando toccavano terra spossate dalla stanchezza, spesso inzuppate d’acqua salmastra con quei lunghi abiti di certo non adatti allo svolgimento del loro lavoro.

Le pescatrici delle Eolie sono state donne che hanno imparato a dare il nome ai venti, ad intuire la pericolosità delle onde violente, a leggere le ore nelle stelle.
E dopo il duro lavoro correvano a casa, ad accudire i familiari, a riordinare, a cucinare, a lavare i panni e spesso anche a zappare la terra per coglierne i frutti e alleviare la miseria.
Le pescatrici delle Eolie hanno generato ed allevato figli e figlie e qualcuna li ha partoriti sulle spiagge, li ha allattati sulle barche sballottate dal vento.
Raccontare la loro storia significa abbattere uno stereotipo che ci ha sempre rappresentato le donne siciliane confinate fra le mura di casa o nei lavori agricoli.
A Stromboli la sera le donne si riunivano in gruppi formati da tre o quattro pescatrici e “andavano a totani”. Nelle altre isole la maggior parte usciva all’alba, verso le quattro del mattino. Quelle che avevano figli si portavano dietro un sacco che facevano diventare culla.
Troviamo loro tracce addirittura in alcuni scritti dell’arciduca Luigi Salvatore d’Austria del 1894 e dello studioso Michele Lojacono Pojero: «A Panarea le donne remano sulle loro barche e vanno alla pesca». Ma queste tracce sbiadiscono con il passare degli anni, nonostante queste donne vadano considerate «un’icona straordinaria di cui le Isole Eolie possono fregiarsi».
Le pescatrici delle Eolie, oggi, hanno recuperato, grazie ad un’altra donna, il loro diritto alla memoria.
Sarebbe opportuno che in quelle bellissime isole, visitate ogni anno da milioni di turisti/e, una targa, una via, una statua o un monumento ne tramandasse ai posteri la memoria.
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Articolo di Ester Rizzo
Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) di Licata per il corso di Letteratura al femminile. Collabora con testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra edit. ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo, Le Ricamatrici e Donne disobbedienti.