Quando nel programma di storia di quarta si incontra la Rivoluzione Francese, le/i docenti ingranano la marcia del riconoscimento dei diritti di cittadinanza, dell’universalismo, dell’uguaglianza, della libertà, insomma parlano di quello che siamo anche grazie a quel cambiamento radicale che investì uno dei Paesi europei più fedeli all’assolutismo e ad un’organizzazione sociale fondata sul privilegio e sulle disuguaglianze.
Leggere il libro di Vinzia Fiorino (edito da Viella) offre la possibilità di considerare le cose da un altro punto di vista: l’autrice, infatti, non si sofferma su chi ottenne il diritto di cittadinanza, ma ci racconta la storia dei soggetti esclusi e soprattutto delle grandi escluse: le donne. Quando leggiamo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dovremmo sempre ricordare alle nostre classi che quell’uomo e cittadino è maschio e bianco, e che in quella Dichiarazione non sono annoverate le donne di qualsiasi provenienza, i neri, i domestici, i folli e i criminali. L’autrice tiene comunque a sottolineare che i principali criteri di esclusione furono edificati sulla base di differenze naturali come il genere e il colore della pelle: la loro immodificabilità non permise a questi gruppi nessuna forma di inclusione. Uno degli elementi più interessanti dell’opera, a mio giudizio, sta proprio nell’attenta riflessione sulle analogie tra la battaglia contro la discriminazione di genere e quella razzista. Il modus operandi per offuscare il gruppo escluso che rivendica i diritti è sempre lo stesso: generare universali neutrali che abbiano la funzione di maschera nei confronti dell’esclusione. Uno degli aspetti centrali del femminismo francese contemporaneo è stato proprio la necessità di delineare un soggetto universale femminile attraverso un percorso peculiare che ha visto le donne protagoniste nel tentativo di capovolgere le convinzioni alla base della loro mancanza di diritti, ma nel contempo le ha costrette a fare i conti con esse avendo acquisito e introiettato le rappresentazioni e i ruoli loro assegnati. Come spiega l’autrice, i movimenti femministi, e quello francese in particolare, hanno tentato di plasmare un modello femminile razionale, liberato dalla tutela maschile, in grado di presentarsi come autonomo in netta contrapposizione con la tradizione nata in seno al Code Napoléon, sul quale si sarebbero basati i sistemi giuridici ottocenteschi, che riconosceva alle donne dei diritti, ma sempre sulla base delle loro posizioni in seno alla famiglia, ovvero l’istituto investito del ruolo di mantenimento dell’ordine sociale precostituito e nel contempo fonte prima della disuguaglianza di genere. Ecco dunque che la famiglia, presentata alle donne come il luogo in cui realizzare pienamente sé stesse, diventava gabbia, prigione, trappola. Per tutelare il principio di cittadinanza, nato dalla Rivoluzione sotto il vessillo di un falso universalismo, di fatto si escludevano le donne dalla sfera pubblica per relegarle in quella privata.
Prima di ripercorrere il lungo cammino delle francesi verso il riconoscimento di una piena cittadinanza, Fiorino esplicita la scelta lessicale da lei fatta relativamente ai seguenti termini: usa l’aggettivo femminista per le donne e i gruppi politicamente attivi tra la Rivoluzione del 1789 e il 1880/90 anche se il termine non era ancora stato coniato; il sostantivo femminismo per indicare la volontà di apportare un cambiamento profondo negli assetti politici e culturali a partire dalle asimmetrie di genere; l’aggettivo emancipazionista per definire il raggiungimento di un’uguaglianza formale senza rimettere in discussione i ruoli di genere.

La Rivoluzione dell’89 viene presentata a chi legge come un cantiere in cui le donne ci sono sia nelle piazze a manifestare e protestare, sia nei Club a confrontarsi e discutere, ma anche nei cahiers de doleancés in cui rivendicano per loro uno spazio pubblico e una pluralità di diritti e di doveri. Un elemento comune della storia raccontata da Fiorino è proprio la presenza di personalità singolari che con la loro forza e passione hanno contribuito a far rimanere vivo il dibattito sul riconoscimento della cittadinanza femminile anche quando intorno a loro c’era il vuoto oppure il proliferare di un cospicuo numero di gruppi, leghe e alleanze femminili faceva perdere di vista l’obiettivo. Nel periodo della Rivoluzione, ad esempio, l’autrice si sofferma su Mary Wollstonecraft che mise in luce le questioni chiave del femminismo francese, ma anche italiano quali l’attribuzione di una soggettività razionale; nonché il ruolo centrale della maternità per il riconoscimento sociale delle donne e la proposta di nuovi modelli educativi in grado di ribaltare il canone tradizionale fondato sulla grazia e l’obbedienza necessarie a forgiare docili animali domestici. A ciò Wollstonecraft contrapponeva l’esercizio ginnico e la presa di coscienza di sé stesse attraverso la riflessione critica e l’autodisciplina, anticipando uno dei temi più discussi dalle femministe degli anni Settanta e cioè quello dell’autocoscienza. Un altro personaggio chiave del periodo è poi Olympe de Gouges che, con la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina,oppone al falso universalismo quello più autentico difendendo i diritti di tutti gli esseri umani ― dalle donne alle persone in schiavitù ― e rivendicando un’uguaglianza en droit.

Nonostante la forza dirompente dell’autentico universalismo proposto dal documento di de Gouges, di fatto il soggetto titolare dei diritti che emerge dalla Rivoluzione del 1789, e che rappresenta la nuova società, è l’individuo maschio, autonomo, uscito dalla sua condizione di minorità, per dirla alla Kant, attraverso un atto di disubbidienza, ma che pretende l’ubbidienza da quei gruppi considerati inferiori per i loro caratteri biologici fra cui le donne, non completamente escluse dalla legislazione rivoluzionaria acquisendo alcune prerogative come una legislazione matrimoniale egualitaria e il riconoscimento del divorzio; inizia dunque un intenso dibattito sul riconoscimento dell’uguaglianza dei sessi nel diritto successorio anche se alle donne sposate non veniva riconosciuto il diritto di amministrare i propri beni. Questo “trend egualitario”, seppur nella sua parzialità, si interruppe nel 1793 e vi fu addirittura una regressione con il Code Napoléon che si fondava sulla disuguaglianza tra i coniugi e poneva le donne in una condizione di svantaggio in caso di divorzio, relegandole all’interno della cellula familiare a conduzione maritale e negando loro quella soggettività che sta alla base del riconoscimento dei diritti.
Una prima battaglia delle donne francesi per ottenere i diritti civili e politici si combatte già durante il periodo rivoluzionario anche attraverso la loro iniziativa di formare una Guardia Nazionale Femminile o comunque di poter difendere la propria patria con le armi e, quindi, conquistarsi sul campo il titolo di cittadine, un po’ quello che accadrà molto tempo dopo in Italia durante la Resistenza che rappresentò per le italiane un’eccezionale palestra democratica. Tra le teorizzatrici della difesa armata della patria come via d’accesso alla cittadinanza, l’autrice propone la figura di Théroigne de Mèricourt e ci racconta di come alcune donne avessero accettato di travestirsi con abiti maschili come soluzione estrema per far parte dei gruppi armati, visto che quelli femminili vennero ben presto vietati, destabilizzando l’universo maschile con uno scambio di ruoli giudicato molto pericoloso e sovversivo.

Un’ampia parte del volume è poi dedicata all’indagine sulla nature féminine a partire dal passaggio dal razionalismo illuminista all’idealismo ottocentesco quando questa venne caricata di connotati morali: l’indagine scientifica sulla fisiologia della donna giudicata tenera, fragile, volubile portò ad associarla alla struttura cognitiva ed emotiva femminile mettendone in luce le stesse caratteristiche. Non solo: la facile eccitabilità degli organi femminili diventò lo specchio dell’incostanza dell’animo femminile fino al punto di negare qualsiasi capacità intellettuale alle donne. Questo assist che la scienza ottocentesca offrì al sistema politico uscito dalla tempesta rivoluzionaria si rivelò vincente e fu una delle argomentazioni più difficili da scardinare per permettere il riconoscimento dei diritti. Interessante è anche il parallelismo proposto cronologicamente più avanti dall’autrice tra questa concezione intellettuale femminile e l’inferiorità attribuita alle popolazioni dei territori coloniali, in piena temperie imperialista, per giustificarne la dominazione e l’oppressione. Da segnalare in tale frangente è la figura di Hubertine Auclert, che Fiorino indaga attentamente in quanto appartenente a quel filone di pensiero che lega le ragioni del femminismo a quelle del pacifismo e a quell’internazionalismo attento alle condizioni delle donne negli altri Paesi. Non solo: a lei dobbiamo anche l’intensa battaglia linguistica contro l’uso del neutro universale ritenuto preludio del mancato riconoscimento femminile.

Un carattere trasversale della battaglia delle femministe francesi, ampiamente indagato dal volume e che le differenzia da quelle anglosassoni, è la priorità attribuita al riconoscimento dei diritti civili rispetto a quelli politici. Il rapporto tra il femminismo francese e i movimenti politici, in effetti, è difficile e complesso e portò molte militanti ad allontanarsi da gruppi politici a cui avevano aderito, oppure continuarono a farne parte accettando però di mettere in secondo piano la battaglia femminista. Ad esempio, nel libro si affronta il binomio femminismo-socialismo con interessanti approfondimenti sulle sansimoniane e sul sexualisme che propone una lettura delle asimmetrie di genere mediante gli strumenti analitici e linguistici del marxismo. Come insegna la vicenda di casa nostra con il singolare scontro Turati-Kuliscioff, una parte della responsabilità dell’insuccesso della causa suffragista di inizio Novecento va ricercata nell’ostilità al riconoscimento del diritto di voto da parte della cultura socialista, oltre che naturalmente quella cattolica, per cui il femminismo francese, in linea un po’ con quello europeo, decise di dedicarsi all’ambito sociale e assistenziale, rimandando agli anni Venti del XX secolo la battaglia per il voto.
Altro tratto peculiare del femminismo francese contemporaneo proposto da Fiorino è la gradualità della battaglia e il ricorso a strumenti come la stampa innanzitutto, le petizioni, i contatti con alcune figure politiche maschili particolarmente sensibili alla causa, le manifestazioni. Contrariamente al femminismo anglosassone, in quello francese le azioni estreme non si registrano anche se non mancano gesti sovversivi di alcune militanti che, ad esempio, presentarono provocatoriamente la propria candidatura alle elezioni amministrative non preoccupandosi dei divieti, oppure fecero disporre delle urne riservate alle donne in prossimità dei seggi elettorali fino ad arrivare ad un gesto sovversivo e contemporaneamente simbolico consistente nel rovesciamento dell’urna dei voti al fine di simulare il necessario e ormai improrogabile cambiamento relativo alla partecipazione femminile. In un quadro così variegato e complesso, l’autrice, pur delineando i tratti peculiari della battaglia delle francesi per i propri diritti, non manca mai di presentare figure d’eccezione come Madeleine Pelletier la cui riflessione si concentra sulla lotta al patriarcato e su quella da lei definita come «guerra tra i sessi», mostrandosi favorevole alle libere unioni e alla libera maternità. La sua è una proposta che si concretizza nel cambiamento radicale della famiglia e in una messa in discussione della sessualità maschile giudicata aggressiva. Individua nel nubilato l’elemento imprescindibile per la libertà femminile; rivendica una maternità consapevole, autonoma, responsabile; è tra le sostenitrici dell’importanza dell’educazione sessuale e critica certi connotati identitari femminili tanto da mostrarsi favorevole a camuffare alcuni elementi esteriori delineando una nuova figura androgina in abiti maschili. Tanti furono i suoi tentativi di farsi ascoltare, scarsi i successi in una personalità veramente singolare in cui i tratti dominanti sono la solitudine, ma anche la forza e l’ostinazione di voler essere una persona, un essere umano, non un sesso.

La peculiarità del volume di Vinzia Fiorino sta proprio in questo: nella capacità di presentare il tema del genere della cittadinanza in Francia tra fine Settecento e i primi anni del Novecento in chiave diacronica, fornendoci uno sguardo d’insieme, ma senza privarci della possibilità di avvicinarci all’esperienza di alcune militanti; ci mostra in tal modo come la conquista dei diritti civili e politici delle donne sia stato un percorso caratterizzato spesso da andate e ritorni, da moti guidati da spinte centripete, ma anche centrifughe come del resto è la definizione della soggettività e dell’individualità femminile per ciascuna di noi.

Vinzia Fiorino
Il genere della cittadinanza. Diritti politici delle donne in Francia (1789-1915)
Edizioni Viella, Roma, 2020
pp. 260
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Articolo di Alice Vergnaghi

Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.