
Prima scena
Colloquio tra Edith e la madre Auguste, nella casa di famiglia a Breslavia
Edith: «Non posso agire finché non si manifesti in me un impulso interiore. Le decisioni scaturiscono in me da profondità a me stessa sconosciute. Quando una cosa è entrata alla chiara luce della coscienza ed ha assunto una salda forma mentale, allora nessuno può più trattenermi; ricavavo una specie di piacere sportivo nell’impormi qualcosa di apparentemente impossibile. Ho deciso di andare a Gottinga e ora lo dirò a mia madre… Mamma, mamma, voglio parlarti, qui in cucina, mentre ci mangiamo la zuppa di cavolo»
Madre: «Dimmi, cara Edith, figlia mia adorata!»
Edith: «Sai, son posso più restare qui a Breslavia, voglio andare a Gottinga all’Università per unirmi a un circolo filosofico, là io sarò l’unica donna».
Madre: «A Gottinga? Puoi studiare anche qui! Mi piacerebbe che tu studiassi Legge, qui nella nostra città».
Edith: «Voglio invece seguire le lezioni del prof Husserl e comprendere il suo pensiero filosofico, “la corrente fenomenologica”, solo là lo potrei fare. Husserl ha da poco pubblicato il suo saggio La filosofia come scienza rigorosa, in cui si sostiene che, la filosofia è in grado di soddisfare la pretesa di essere una scienza rigorosa e questo mi affascina molto. È proprio adatto a me, tu lo sai mamma, quanto io sia precisa e determinata. Ma sarà solo per un semestre; tornerò a settembre».
Madre: «Nessuno deve intromettersi nelle nostre vite, nessuno metta del suo nelle nostre cose! Fa quello che ritieni giusto, non ti intralcerò di certo. Ricorda che volere è potere!»
Edith: «Certo mamma, tu l’hai fatto; dopo la morte di papà, ci hai allevati tutti e hai mandato avanti l’attività di famiglia, la falegnameria!»
Madre: «Mi preoccupa piuttosto il tuo abbandono della fede ebraica dei nostri padri. Io seguo con impegno ogni festività e vado sempre al tempio da quando è mancato tuo padre, che tu nemmeno ricordi, ultima figlia mia, l’undicesima, nata nel giorno di Yom kippur».
Edith: «Mi sembra una religione di regole vuote, mamma, sento un’incredulità radicale in me. Mi sono disabituata a pregare. Anche i miei fratelli, che hanno sostituito papà nella guida della preghiera domestica, recitano senza convinzione. Non sopporto tutti quei vuoti precetti. Ricordo un giorno in cui camminavo con un mio collega per strada e dovevo consegnare un pacco. Troppo tardi mi venne in mente che era sabato e che durante lo shabbat non era permesso portare nulla. Solo in strada era proibito, in casa era concesso, mi precisò il padrone di casa a cui avevo consegnato il pacco. Lui si era trattenuto sul gradino di casa e non aveva messo piede sulla strada, in attesa che io mi avvicinassi a lui. Mi ripugnano le cavillosità talmudiche come questa! Scriverò un libro su di noi, mamma, Storia di una famiglia ebrea».
Madre: «Non sono contenta di avere una figlia atea, specie adesso che vai lontana. Stai attenta Edith, la vita in città è irta di pericoli! Aspetterò trepidante il tuo ritorno».
Edith: «Preparo la valigia, metto poco, un semestre passa presto! Addio, mamma, devo seguire la mia strada».
Seconda scena
Friburgo, 2 Agosto 1916. Sera prima della discussione della tesi: Il problema dell’empatia.
Edith riflette, mentre riguarda il testo della sua tesi.

Domani discuterò la tesi di laurea con il prof. Husserl. Avevo seguito il suo seminario nel semestre estivo del 1913 sulla natura e lo spirito e rimasi colpita dalla sua tesi riguardante il problema della conoscenza oggettiva del mondo esterno. Aveva fondato un metodo rigoroso, detto fenomenologico, applicabile a tutte le scienze, che consiste nel ridurre l’esperienza a puro fenomeno. Tale conoscenza è conseguibile solo in maniera intersoggettiva, con più persone in cerchio che si trovano fra loro in uno scambio reciproco. Io ero l’unica donna entrata nel Circolo di Gottinga, cenacolo filosofico straordinariamente fecondo.

Decisi allora di lavorare sul tema dell’empatia, che era alla base di quel circolo; emerse fin da subito il mio interesse per la persona umana all’interno del suo imprescindibile legame con la dimensione sociale. Ciò che si chiama empatia (Einfühlung) è l’intuizione che ha come oggetto gli altri individui, coglie l’essenza della natura umana, quella di sentirsi membro di un popolo, frammento di un noi. L’empatia rappresenta una delle tante possibilità che l’essere umano ha a disposizione in quanto persona, ma per analizzarla a fondo ho voluto basarmi su principi interni, diversi da quelli della teoria psicanalitica. L’empatia consiste nel cogliere l’emozione di un’altra persona, ad esempio il dolore dell’amico per la perdita di una sorella; egli rimane sempre altro da me, perché io non posso aver vissuto nello stesso modo il suo dolore, non può realizzarsi mai un’identificazione totale, intesa come costituzione di un unico io, come una fusione. Ciò che ci distingue gli uni dagli altri non può essere solo la nostra corporeità, bensì il nostro nucleo di vissuti, le diverse esperienze che facciamo nello scorrere della quotidianità, l’insieme dei sentimenti e degli stati d’animo che accumuliamo, quel mondo di valori verso cui indirizziamo la nostra volontà. Questo insieme costituisce il nucleo personale di ognuno, ciò che ci rende persone irripetibili, totalmente diverse, ma altamente capaci, per natura, di entrare in comunicazione tra di noi. Mentre ascolto e guardo l’altro ci troviamo sullo stesso piano, siamo alla pari, inoltre, acquisisco valori per mezzo dell’empatia e sono valori che prima mi erano sconosciuti e, in quel momento, posso rendermi anche conto di un mio difetto o disvalore. Chiamo questo processo di personalizzazione, che è ciò che conferisce consistenza individuale, man mano che si impara a distinguere i vissuti propri da quelli estranei. Poiché la persona non si costituisce in soli atti teoretici, che si svolgono solo sulla superficie dell’Io, ma anche di vissuti del sentire che portano contemporaneamente alla scoperta di livelli di profondità dell’Io e dell’altro. Eccomi dunque pronta per domani, dove dovrò dimostrare alla commissione, in ultima analisi, che non siamo monadi, che gli esseri umani possono guardarsi negli occhi e che nessuno/a si deve sentirsi sottomesso all’altra/a. Concluderò la dissertazione dicendo che c’è qualcosa in ognuno/a che assomiglia a quello che ha vissuto un altro/a; dirò che lei/lui ha risvegliato qualcosa che è in me che mi arricchisce, ma che mi lascia perfettamente me stessa, consapevole che non ci si possa relazionare in modo uguale con tutti, poiché l’empatia è possibile solo quando l’altro tipo è simile a noi. Chiuderò con l’affermazione della necessità che si debba, nelle scuole, educare all’empatia e alla conoscenza delle proprie parti, per imparare a interfacciarsi con quelle altrui.
Terza scena
Zurigo, gennaio 1932, ultima conferenza sulla donna all’Istituto tedesco per la Pedagogia Scientifica

Husserl mi aveva trattenuta, dopo la laurea, come sua segretaria a Friburgo, per il riordino dei suoi infiniti e confusi scritti, ma dopo due anni non potevo più sottostare al suo carattere, non potevo obbedirgli come una serva, non potevo sopportare di essere a disposizione di qualcuno; posso essere a servizio di una causa, fare una cosa per amore, ma non ubbidire a una persona; per questo me ne sono andata a insegnare, poiché l’ambito pedagogico mi appartiene da sempre. Mi hanno chiamata spesso come conferenziera a giornate di studio pedagogiche come a diversi congressi in Germania e all’estero (Praga, Berlino, Vienna, Zurigo, Salisburgo, Basilea, Parigi…). Ho organizzato cicli di conferenze per la promozione della donna nella società tedesca, dove ho fatto approfondimenti psicopedagogici specifici di cui ha molto bisogno la società, dopo la grande sconfitta. Ho letto l’opera pedagogica di una grande italiana, Maria Montessori, che sta portando rinnovamenti scientifici nella scuola dell’infanzia.

In lei ammiro il senso di fiducia che ripone in ciascun bambino, in ciascuna bambina, lasciando in loro la libertà di far fiorire la loro specifica natura; spero un giorno di incontrarla. Alle donne dico: sono anch’io una tedesca come voi, o meglio, sono una prussiana, questa ancora mi sento e dobbiamo dare una ventata di forza al nostro paese, facendo leva sulle nostre qualità che dobbiamo, innanzitutto, riconoscerci. Non dormiamo! L’ingresso della donna nei rami professionali può essere una vera benedizione per tutta la vita sociale, sia pubblica che privata. Se vi chiedete quali lavori può fare una donna, vi rispondo che ha diritto a tutte le professioni. Non è difficile trovare, per ogni professione, qualche donna capace di affermarvisi in modo eminente, ma ciò non dimostra che si tratta di una attività specificamente femminile; sono solo le varie individualità, le varie differenziazioni, di cui ognuna è portatrice, che avvicinano ciascuna all’attività che le è più propria. Vanno valorizzate tutte le differenze, pur considerando che la donna ha una spiccata attenzione alla persona, oltre a possedere la capacità di una visione globale. Ho posto al centro di queste considerazioni il diritto all’istruzione della donna. Le donne, come gli uomini, sono essenze individuali, e questa individualità deve venir tenuta presente nel lavoro educativo,nel quale è essenziale una declinazione empatica, alla quale vanno preparate le insegnanti. A ognuna di voi dico: tu sei libera e, dopo aver conosciuto il tuo stile cognitivo, devi rispondere solo alla tua coscienza. Vi parlo anche della sessualità, poiché vedo una maggior gioia matrimoniale nelle nuove generazioni, uscite dall’incubo della guerra; ciò è dovuto alla libertà, alla vita sessuale che si sta diffondendo e quindi dico che l’educazione sessuale deve essere inserita nelle scuole.
Quarta scena
La settima stanza

Dialogo in treno tra Edith (ora Suor Teresa Benedetta della Croce) e la sorella Rosa, arrestate nel convento olandese di Echt e deportate ad Auschwitz nell’agosto’42.
Edith: «Rosa, voglio ricordare la mia conversione, nel corso dell’estate 1921 quando ero ospite di nostra cognata e fui invitata a scegliere un libro dalla loro libreria. La mia scelta cadde sul Libro della mia vita di Teresa d’Avila, lo lessi avidamente ed esso cambiò radicalmente la mia vita, ero certa di aver trovato la verità. Chiesi il battesimo e lo ricevetti, il 1° gennaio del 1922. Speravo di entrare al più presto in convento, ma nostra madre, donna profondamente legata alla religione ebraica, non lo poteva accettare. Così mi impegnai a fondo nell’insegnamento a Spira e nelle conferenze in Europa fino a quando, sempre più chiaramente in me, si fece sentire la vocazione al Carmelo, per portare la croce che il nostro popolo stava già portando, con Hitler al potere. Ricordi, Rosa, il mio ultimo compleanno in famiglia? Ricordi che accompagnai in sinagoga la mamma per l’ultima volta, il 12 ottobre del ’33, e la mattina seguente partii per Colonia, dove presi il nome suor Teresa Benedetta della Croce?»
Rosa: «Ricordo ogni cosa che dici, cara Edith».
Edith: «Proprio nel’33, scrissi una lettera al Papa sul pericolo nazista, gli chiesi di intervenire al più presto, ma lui non comprese la gravità della cosa e mi rispose solo mandandomi dei saluti.
Tu mi seguisti in convento pochi anni dopo. Là continuai a scrivere di filosofia, ma ben presto fummo costrette ad andarcene a causa delle persecuzioni anti ebraiche. La badessa ottenne per me un posto in un convento svizzero, ma poiché era solo per me e non per te, io rifiutai. Accettammo di andare nel convento di Echt in Olanda».

Rosa: «Pochi giorni fa, il 26 luglio del’42, dai pulpiti d’Olanda i vescovi hanno reso pubblica una lettera pastorale che si opponeva alle deportazioni degli ebrei. Il giorno successivo, come risposta, vi è stato l’ordine di deportazione, entro la fine della settimana, di tutti gli ebrei cattolici sul suolo olandese. Il 2 agosto siamo arrestate e ammassate su questo treno merci con altri 244 ebrei cattolici; si fa una sosta al campo olandese di Westerbork».
Edith: «Hai visto che calca incredibile c’e? Nella confusione abbiamo intravisto una giovane donna, un’assistente sociale, che cercava di dare aiuto a tutte le povere persone che come noi erano smarrite e affaticate; ci siamo guardate profondamente negli occhi, lei si è avvicinata a noi religiose cattoliche, ci ha detto di condividere la nostra sorte, ha detto di chiamarsi Etty Hillesum e di amare come noi il vangelo…
Oggi, 7 agosto’42, il treno è ripartito verso la Polonia, probabilmente passeremo da Breslavia, la nostra città, ma è Auschwitz la nostra destinazione. Rosa, sai, nel libro Il Castello interiore di Teresa d’Avila, la santa utilizza l’allegoria dell’anima come fosse un castello fatto di sette dimore. Nella settima vi è l’incontro dell’anima con Dio.
È lì che stiamo andando…
Quinta scena
Tre domande al pubblico presente a Paullo nella sera dell’11 maggio 2018:
- Si intravede, oggi, il pericolo basato sui progressi della scienza e della tecnologia fini a sé stesse, prive di un valore teleologico, staccate dai significati sul senso del vivere? A quali conseguenze ciò può portare, sia a livello sociale, sia a quello individuale?
- Quali riflessioni possibili sull’empatia, costitutiva dell’essere umano e studiata così a fondo da Edith Stein? Con chi è più facile, secondo voi, empatizzare?
- Sappiamo che l’indifferenza è un male di cui ci lamentiamo spesso, ma siamo consapevoli del significato corretto di in- differenza? Essa rimarca la mancanza di differenza dell’altro/a da me, cosa che, in realtà, mi salva dalla simbiosi fusionale che annulla l’individualità.

Per la rassegna Con voce di donna, Edith Stein, nata a Breslavia il 12 ottobre 1891 e morta ad Auschwitz il 9 agosto 1942, una vita per la verità.
***
Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.