Harriet Tubman, la liberatrice

«Ogni grande sogno comincia con una persona che sogni. Ricordati sempre, tu hai la forza, la pazienza, e la passione per arrivare alle stelle e cambiare il mondo».
Chi di noi non ha sognato almeno una volta nella vita di cambiare il mondo? Si potrebbe obiettare che non tutte le persone possano nutrire grandi ambizioni, più comunemente sognare in grande. Vero – la libertà intellettuale deriva dalle cose materiali, aveva teorizzato per prima Virginia Woolf nel suo brillante saggio Una stanza tutta per sé: «Per poter scrivere le donne devono avere del denaro e una stanza tutta per sé» – ossia indipendenza economica, spazio e tempo a disposizione. Se William Shakespeare poteva permettersi il lusso di sedersi di fronte al camino e lasciare che i suoi pensieri fluissero in una cascata, lo stesso non avrebbe potuto fare Judith, la sorella immaginaria, troppo occupata nelle faccende quotidiane per scrivere i suoi drammi, pur dotata delle stesse capacità del fratello. Le porte dei teatri le sarebbero state sbattute in faccia, sarebbe da ultimo morta di parto. Eppure poteva almeno sognare di diventare una drammaturga e ottenere la propria libertà.

E se il prezzo della libertà è alto, a ricordarci che i sogni non sono appannaggio di poche persone, ma anzi, forse, il più grande esercizio di democrazia, è una donna che ha trovato la forza e il coraggio di trascendere ‘l’irrealtà’, per utilizzare un lessico di morantiana memoria, un mondo fatto di violenza e soprusi, costruendone uno più equo e giusto, quello reale: Harriet Tubman, una donna nata schiava e nera, che si è battuta in prima linea per l’abolizione della schiavitù e, in seguito, per il suffragio femminile.

Spesso, come donne e attiviste, abbiamo ricordato l’importanza di nominare: dare il proprio nome alle cose, alle persone è un atto politico poiché conferisce una voce e con essa corpo e consistenza, assieme riconosce uno spazio fisico e sociale. E se non ci è dato sapere con precisione la data né il luogo della nascita della protagonista della nostra storia di lei sappiamo che vede la luce fra il 1820 e il 1825 nella contea di Dorchester, nel Maryland possiamo e vogliamo celebrare i suoi tre nomi, e con essi la sua r-esistenza: nata Araminta “Minty” Ross, e però nota ai più come “Mosé della sua gente” per la portata epocale del suo operato, una schiava che liberò sé stessa e centinaia di schiavi neri, proprio come si narra avesse fatto il profeta con il popolo ebraico, guidandolo fuori dall’Egitto. La sua genealogia matrilineare risale alla bisnonna che aveva raggiunto gli Stati Uniti su una nave di schiavi proveniente dall’Africa, i suoi stessi genitori sono a loro volta schiavi, come pure lo saranno lei e i suoi otto tra fratelli e sorelle. Insomma, apparentemente un destino già scritto, la ‘Storia’ con la esse maiuscola, per citare un titolo significativo di Elsa Morante, quella degli oppressori che si ripete.

Costretta a lavorare sin da bambina nelle piantagioni, qui subisce regolari vessazioni da parte dei suoi aguzzini: per essersi rifiutata di fermare uno schiavo che stava scappando, il padrone le lancerà un pesante oggetto di metallo in testa. Le conseguenze delle ferite riportate dolori, capogiri, disturbi del sonno, non ultimi attacchi epilettici mineranno la qualità della sua esistenza e del suo lavoro tanto che i padroni proveranno a più riprese a venderla. Eppure non si piegherà mai a quella barbarie, ma anzi farà di questi episodi nutrimento per il suo grande sogno di giustizia e libertà. A vent’anni sposa John Tubman, un uomo libero, e modifica il suo nome in Harriet, lo stesso della madre, e prende il cognome del marito. Il suo status di schiava sarebbe stato inevitabilmente ereditato dalla prole, per questo sente maturare in lei una consapevolezza sempre più profonda: «C’erano due cose a cui avevo diritto: la libertà o la morte; se non potevo avere l’una, avrei avuto l’altra». Il 17 settembre 1849 mette in atto con successo un piano di fuga assieme ai fratelli Henry e Ben che però tornano indietro per timore di eventuali ritorsioni: sulla loro testa viene posta, infatti, una taglia da cento dollari. Questo non intimorisce Tubman, la quale riesce a mettersi in salvo: «Quando ho scoperto di aver superato quel confine, ho guardato le mie mani per vedere se fossi la stessa persona. C’era gloria sopra ogni cosa. Il cielo mi è sembrato d’oro tra gli alberi, sui campi e ho creduto di essere in paradiso. Avevo superato quella linea. Ero libera: ma non c’era nessuno ad accogliermi in quella terra di libertà. Ero una straniera in una terra straniera; e la mia casa, dopotutto, era ancora nel Maryland, perché là erano mio padre, mia madre, i miei fratelli e sorelle, i miei amici. Ma io ero libera e anche loro dovevano essere liberi». Era libera, ma si può esserlo veramente quando gli altri non lo sono? Decide pertanto di tornare indietro, per liberare non solo i fratelli, le sorelle e il marito che si rifiuta poiché nel frattempo si era risposato ma tutte le persone che lo desiderassero.

Come i diritti che se concessi a chi li richiede, non si perdono, ma si moltiplicano, il suo sogno di libertà condiviso con altre persone dà vita a vere e proprie missioni di liberazione degli schiavi: nottetempo, a piccoli gruppi, Tubman favorisce la fuga di centinaia di persone, supportata dalla Underground Railroad, una rete di attivisti abolizionisti che la istruiscono sugli itinerari segreti da seguire e sui luoghi sicuri dove nascondere i fuggitivi, prima di trasferirli in Paesi come il Canada o il Messico. Si narra che non avesse mai perso un “passeggero” e che durante le missioni si aggirasse con due polli vivi che agitava di fronte alle persone per non essere riconosciuta. Nel 1861, durante la Guerra civile, presta servizio nell’esercito dapprima come cuoca e infermiera, poi si mette alla guida di una spedizione armata, e ancora si veste da informatrice durante una missione nella Carolina del Sud, a seguito della quale furono liberati oltre settecento schiavi. Nel 1865, al termine del conflitto, ritorna nella sua casa di Auburn, nei pressi di New York. 

Quattro anni dopo sposa Nelson Davis e insieme adottano una bambina. Alla morte del marito, ammalatosi di tubercolosi, resta sola e in povertà, tuttavia non smette mai di prodigarsi per quella che chiamava “la sua gente”: quando viene fondata la Federazione nazionale delle donne afroamericane, nel 1896, è la prima oratrice dell’evento; in seguito sostiene la causa del suffragio femminile, tenendo numerosi discorsi nelle principali città degli Stati Uniti, pur non essendo istruita; non ultimo trasforma la sua casa in un centro per la cura delle persone anziane di colore. Una sua sostenitrice, Sarah Hopkins Bradford, scrive la sua prima biografia: Scenes in the Life of Harriet Tubman (1869) quando ancora Tubman era vivente; e nel 1886 pubblica un altro volume: Harriet, the Moses of her People, donandole i proventi derivanti dalla vendita dei volumi che Tubman spende interamente per aiutare gli ex-schiavi che le chiedono aiuto. Tubman muore nel 1913: da allora è divenuta un simbolo della lotta per i diritti della comunità afroamericana negli Stati Uniti. 

La sua storia è celebrata in numerosi libri, pellicole – dal recente Harriet (2019) a The quest for freedom del 1992, fino alla mini-serie americana A woman called Moses del 1978, per citarne alcune – poi ancora graphic novel, come The Saga of Harriet Tubman The Moses of Her People, della Golden Legacy. Nel 2014 l’asteroide 241528 è stato nominato Tubman.

Il 20 aprile del 2016 l’amministrazione Obama propone di raffigurare sulla banconota da venti dollari il volto di Harriet Tubman sostituendolo a quello del presidente Andrew Jackson, una delle figure più controverse della storia americana per le sue azioni contro la popolazione nativa. L’amministrazione Trump decide però di bloccare il progetto, attualmente ripreso dal Dipartimento del Tesoro del presidente Biden, nella speranza che la circolazione delle banconote con il suo volto si faccia quanto prima non solo strumento di diffusione di massa della storia di questa straordinaria donna, nata nera e schiava, ma anche opera restitutiva del valore simbolico che il suo sogno di libertà ha rappresentato e rappresenta per le minoranze, e con esse di tutte le donne. Per usare il corsivo di Audre Lorde, un’altra grande donna nera, attivista per i diritti civili e poeta statunitense: «Non sono libera se una qualsiasi altra donna non lo è. Anche se le sue catene sono molto diverse dalle mie». Liberare sé stessi per liberare gli altri. O, per parafrasare un altro cantore rivoluzionario: «Perché nessuno sia più schiavo».

Tratto da un pannello della mostra Le Giuste. La presentazione della mostra in Prezi è visibile al link: https://www.giovani.toponomasticafemminile.com/index.php/it/progettitpg/percorsi-digitali/

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Articolo di Eleonora Camilli

Eleonora Camilli è nata a Terni e vive ad Amelia. Nel 2015 consegue la Laurea Magistrale in Italianistica presso l’Università Roma Tre, con una tesi in Letteratura Italiana dedicata a Grazia Deledda. Dedita allo studio della letteratura e della critica a firma di donne, sommelière e degustatrice AIS — Associazione Italiana Sommelier — conduce anche ricerche e progetti volti a coniugare i due settori.

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