Comunicazione: la più inflazionata è diventata la più vuota delle parole. Nessuna società come la nostra ha ritenuto vitale la comunicazione. Nessuna si è compiaciuta tanto dei propri mezzi di comunicazione. Nessuna ne ha avuti tanti e tanto diffusi, capaci di percorrere il pianeta in lungo e in largo, così veloci, immediati, disponibili. Nessuna ha mostrato però altrettanta incertezza rispetto alla loro credibilità e alla loro stessa funzione sociale. Nessuna li ha usati con tanta superficialità.
È il segnale che qualcosa si è spezzato, nei Paesi dell’Occidente. Smarrito il senso della convivenza, atomizzata la società, finita la fiducia; dissolti i corpi intermedi, travolti dalla crisi della politica, percepiti come meri ingranaggi del potere; non resta più nulla a elaborare i bisogni e i desideri, se non la pulsione indistinta di aggregati provvisori o l’esplosione livida del malcontento individuale.
È lo spettro di una regressione. Quando il linguaggio dimentica il rispetto e diventa strumento di esclusione anziché mezzo per mettere a confronto punti di vista diversi, allora la convivenza diventa giungla, le istituzioni perdono di legittimazione, la democrazia stessa è in pericolo.
La lingua fonda la communitas. Poiché essa è il collante della società, il suo deteriorarsi significa che si sono deteriorati i legami, le relazioni, la struttura stessa del nostro stare insieme e prima ancora del nostro pensiero. La sua distruzione è lenta, inavvertita: anche le cose più inconcepibili in Italia oggi vengono assorbite, metabolizzate senza difficoltà. Ci siamo rassegnati, assorbendo le nostre dosi omeopatiche di veleni quotidiani: è questa la nostra colpa maggiore. Mentre ci abituiamo allo stravolgimento e all’uso feroce del linguaggio il nostro palato man mano si fa più insensibile, la nostra soglia di disagio si abbassa.
In Italia esiste da tempo una cultura razzista, omofoba, sessista che amplifica i borborigmi della pancia del Paese. Negli ultimi decenni abbiamo permesso che diventasse forte.
Tanto più un soggetto avverte intorno a sé un clima sociale di legittimazione o di sottovalutazione, tanto più indulge a discorsi d’odio. Fra la violenza verbale e il suo sviluppo in quella fisica dovrebbe stare il rigetto sociale: non basta sollecitare leggi che da tale rigetto siano motivate se non esprimiamo riprovazione esplicita nei contatti quotidiani. La retorica putrida del “così fan tutti” non è una scusante ma un’aggravante: è la soglia di una nuova inciviltà anche se proviene da fonti insospettabili, anche se la classe dirigente è la prima ad aver perso ogni ritegno, magari mimetizzata dietro il comodo paravento dell’apertura mentale, dei costumi evoluti, della strizzata d’occhio postmoderna. Sostenere che la libertà di pensiero e la libera espressione delle idee abbiano assonanza con la licenza di offendere e ingiuriare è quanto di più lontano si possa immaginare dalle logiche elementari della civiltà, è un imbroglio costruito ad arte alla ricerca di consenso facile.
C’è un crescendo singolare quando i discorsi riguardano le donne: in questo caso si perde ogni freno, la lingua è più sfrenata, l’insulto più pesante, l’aggressione più violenta e rabbiosa. L’odio ha bisogno di degradazione, vuol mortificare l’identità del bersaglio. La misoginia prende principalmente la forma dell’oggettificazione sessuale. Quando si vuole ferire, insultare, dileggiare, umiliare una donna — non importa se casalinga o scienziata, ministra o giornalista — le parole che si usano sono sempre quelle che investono o la sua forma fisica o la sua sessualità.
Si parte dal dileggio e si arriva alla stigmatizzazione che legittima la discriminazione, e poi alla deumanizzazione che legittima la minaccia e la violenza. Il fenomeno è talmente cresciuto e si è a tal punto diffuso da aver generato un paradosso: è tollerato perché la sua stessa diffusione impedisce che lo si consideri importante. Basta nominarlo per scatenare i benaltristi, quelli che ti esortano a cambiare prospettiva perché “i problemi sono ben altri!”.
Le parole non sono strumenti inerti ma definiscono l’orizzonte nel quale viviamo: noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare, per stimolare comportamenti civili o incivili: bisogna prestarvi attenzione, perché è il mezzo privilegiato attraverso cui costruiamo i significati. Nessuna pratica sociale può esimersi dal passare dal discorso: ecco perché è così importante imparare a riconoscere alla radice le narrazioni tossiche che alimentano la cultura dell’odio. L’influenza che esercitano sugli individui e sulle loro attività mentali va cercata nel modo in cui organizzano “normalmente” i dati e le situazioni, creano le definizioni, stabiliscono le differenze.
La lingua non ha solo la funzione di rispecchiare i valori, ma anche quella di concorrere a determinarli, organizzando le nostre menti. Nel corso della socializzazione avviene l’adattamento spontaneo e irriflesso del soggetto alle pratiche linguistiche già in uso nella propria comunità linguistica. Insieme alle parole trucide i bambini e le bambine apprendono che il tessuto delle relazioni può non tener conto della gentilezza, della cortesia e del rispetto.
Lavorare sul linguaggio equivale a lavorare sull’organizzazione della coscienza, per questo lo si deve fare fin dall’infanzia. È nella zona più inavvertita del nostro cervello che le parole disegnano i perimetri delle sfere concettuali, tracciano le frontiere del dicibile e dell’indicibile, suggeriscono il senso cui rimandano. L’accettazione acritica di un linguaggio violento diviene inaccettabile nel momento in cui se ne prende coscienza, ma è necessario che qualcuno aiuti a farlo.
Chi, se non adulti e adulte?
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Articolo di Graziella Priulla
Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.