Si ferma, si gira e contemporaneamente mentre sorride cerca di riprendere il suo fiato che correva prima di lei. Ha un mazzo di mimose nella mano sinistra, che fa compagnia alla sua borsa strapiena di oggetti che, non avendo abbastanza spazio là dentro, hanno la testa tirata fuori e si godono l’aria fresca di una giornata di pioggia. Con l’altra mano, invece, cerca di tenere fermo l’ombrello che tra la pioggia e il vento sembra avere voglia di fare i capricci traballando sopra la testa del suo padrone. Una donna mora, magra e di altezza media che, nonostante la bellezza, dimostra molto di più rispetto alla sua vera età − ovviamente non ho mai parlato riguardo a questo mio pensiero con lei, ma credo che purtroppo lei lo abbia già capito, esattamente la prima volta che ci siamo conosciute:
«Che bella bambina, lei è la nonna?»
«No, io sono la sua mamma».
Ormai sono passati sei anni da quel giorno, e anche se lei non l’ha presa male o almeno in quel momento ha cercato di nascondere il suo disagio, ancora quando ci incontriamo mi sento in colpa per la mia stupida domanda. Dopo un lungo silenzio, infatti, era stata proprio lei a rompere il ghiaccio e a fare conoscenza.
«Di dove sei?»
«Afghanistan»
«Ah, il Paese dei talebani»
Non era la prima volta che quando parlavo del mio Paese d’origine la persona che avevo davanti pronunciava quella parola come se i talebani ne fossero un simbolo… ma ormai ero abituata, quindi non ci ho fatto caso. Ho pensato: la sua ignoranza va via con la mia.
Ci sono voluti ancora diversi incontri al parco giochi, quando lei finalmente ha deciso di condividere la sua storia con me. A dire la verità non so se fosse stata una sua decisione o solo un caso, ma era proprio l’8 marzo, la giornata internazionale della donna, non era una giornata di pioggia ma faceva molto freddo. Forse l’unica cosa in comune tra quel giorno e oggi è solo lei e la sua fretta. Io ero ferma davanti al cancello e stavo sistemando mio figlio nel passeggino per tornare a casa quando l’ho vista arrivare da lontano, con un’aria preoccupata: spingeva il passeggino di sua figlia alla velocità del lampo, sembrava non vedere niente e nessuno, e voleva solo aprirsi la strada per andare avanti ma, mentre ci stava sorpassando, i due passeggini si sono sfiorati ed è là che finalmente la donna per un attimo ha fatto volare i suoi pensieri che ne ostacolavano la vista, e si è accorta che la persona che aveva intenzione di superare ero io, e non una sconosciuta qualsiasi, quindi si è fermata − in realtà all’inizio ho pensato così − ma c’ è voluto solo un secondo per capire il motivo principale della sua sosta.
«Anche tu dalla pediatra?»
«Per la visita di controllo»
«Invece la mia scotta, ha la febbre da ieri sera»
L’ho fatta passare e ci siamo salutate ma mezz’ora dopo ci siamo incontrate di nuovo mentre aspettavo il tram, la bambina stava dormendo nel suo passeggino, le ho chiesto cosa le aveva prescritto la pediatra. Mi ha risposto alterata: «Tachipirina», il suo tono per un attimo mi ha dato la sensazione di essere la causa della febbre della piccola, quasi quasi stavo per domandare scusa ed ero anche indecisa se chiedere o meno il motivo della sua rabbia, ma alla fine ho pensato: sarà stanca, sicuramente non ha dormito bene. Un attimo dopo, mentre fissavo il binario del tram, ho cambiato pensiero: «Uffa, però quando arriva ‘sto tram! » e come se fosse contagioso, anche lei ha cominciato a sbuffare, ma a differenza di me si lamentava ad alta voce, e sembrava che ce l’avesse non solo con il tram ma con tutto il mondo. Con l’inverno, l’influenza, la pediatra, la macchina che è passata con il rosso, addirittura con l’8 marzo. «Sì sì come no? Giornata dedicata alle donne e io che nonostante abbia la figlia con la febbre devo andare al lavoro». Da mamma potevo capire la sua rabbia, che proveniva dalla stanchezza, quindi non potevo fare altro che sorridere e ascoltare, ho lasciato che si sfogasse e lei l’ha fatto.
In soli quindici minuti si è aperta con me raccontandomi la sua triste storia: veniva da genitori separati e con problemi di dipendenza dall’alcol. Sin da piccola, e finché la nonna era in vita, era vissuta con lei. Dopo la sua morte si sentiva completamente sola e triste ma era anche una ragazza sognatrice e tra i suoi sogni c’era quello di formare una famiglia, ed era il più grande. Dopo alcuni fidanzatini, finalmente, trova un ragazzo che all’epoca vedeva come il suo principe azzurro; la stessa persona che adesso, invece, odiava di più al mondo. Dopo tre anni di convivenza nell’appartamento della nonna, che si trova in una zona lussuosa nel centro storico di Roma, condivide con il compagno il desiderio di diventare mamma, ma l’uomo, adducendo varie scuse come quella di non avere un lavoro stabile, rifiuta l’idea. Lei invece, avendo ormai 35 anni, ogni giorno si preoccupa di più, temendo di non poter mai avverare il suo grande sogno; cerca quindi di convincere il compagno aiutandolo con tutto quello che aveva ereditato dalla nonna, ma proprio quando tutto sembra a posto e lei è al quinto mese di gravidanza, lui sparisce con i soldi che dovevano essere usati per aprire un’attività e costruire una famiglia…
In momenti del genere non riesco ad avere una reazione adeguata, forse perché sono una persona troppo sensibile e quando sento storie così mi perdo nella storia, mi tuffo e ci vado dentro, cerco di capire i motivi, di ricucire gli strappi. Sin da piccola, davanti a ogni ingiustizia, mi sentivo di dover fare qualcosa, nella fantasia mi vedevo una super eroina che può risolvere tutto, può convincere i cattivi a smettere. E visto che ero la super eroina, mi davano ascolto. Purtroppo, crescendo anche la mia fantasia è diventata più realistica, adesso sono diventata un pochino più dura; la super eroina che ho dentro sa che non è facile convincere i cattivi, quindi è meglio punirli, prendendoli per un orecchio e portandoli dove dovrebbero essere, in questo caso portare quel finto principe dalla sua vera regina e principessa.
Quando ho sistemato tutto con la mia fantasia mi sono trovata ancora là, alla fermata del tram, in una giornata fredda d’inverno, vicino a una donna che sembrava più tranquilla. L’ho guardata negli occhi e con il sorriso che già da un bel po’ si era seccato sulle mie labbra, ho detto solo due parole: «Mi dispiace».
Vero è che da quel giorno siamo diventate più amiche, tant’è che se ci vedevamo per caso, ci fermavamo sempre per un saluto, ma non sono mai riuscita a fare qualcosa per lei, non le ho nemmeno mai parlato dicendole che una super eroina ha già risolto tutto e lei non si deve più preoccupare… anche perché mi sembrava molto buffo che una donna afghana potesse fare qualcosa per una donna italiana, una donna come me che viene da un Paese dove le donne da sempre subiscono ogni tipo di violenza e dove da sempre vengono seguite da diversi lupi: da quelli con le barbe lunghe, chiamati talebani, da quelle barriere che ci ostacolano e non ci lasciano essere libere, lupi che non ci lasciano studiare e lavorare, lupi che non ci lasciano scegliere liberamente, decidere quando e con chi sposarci, decidere quando diventare mamme. Adesso che ci penso forse non è colpa mia se quel giorno al parco ho pensato che lei fosse la nonna della bambina, perché io vengo da un luogo dove a quarant’anni la maggior parte delle donne ha già dei nipoti…
Negli ultimi quattro anni la incontravo spesso al parco giochi, nel supermercato, per strada mentre correva con il passeggino di qua e di là. Qualche volta ci mettevamo a chiacchierare, ogni volta era una nuova puntata di una serie tv che non aveva una fine. Mi ha pure raccontato che tramite un amico ha rintracciato il suo compagno che viveva beato negli Stati Uniti, poi ho saputo che finalmente era riuscita a parlare con lui e gli aveva chiesto di venire a conoscere sua figlia. Altre volte, invece, parlava solo di sua figlia che desiderava tanto incontrare il papà…
Nei due anni successivi mi sono trasferita in un’altra zona e ci siamo perse di vista. Ultimamente però, tornando di nuovo là dove ci incontravamo, mentre parcheggio la macchina la trovo di nuovo, con la mascherina sotto il mento e sempre di corsa, come allora. I miei occhi però sono puntati solo su quel mazzo di mimose. Piove ma lei sorride, io sorrido e quando le donne sorridono tutto il mondo sorride.
Dedico questa storia a tutte le donne coraggiose che sanno dire di no per loro e combattere per le altre, ma anche a quelle che non hanno la stessa grinta, tuttavia dentro sognano di essere delle super eroine, alle donne che rinunciano ai tacchi alti per spingere il passeggino e alle donne che per onore della famiglia sopportano tutte le ingiustizie che vengono fatte loro. Alle donne con occhi feriti e cuori spezzati che non rinunciano a sorridere e a sperare. Alle donne che non ce l’hanno fatta e a quelle che ancora stanno andando avanti. Insomma, la dedico a tutte le donne del mondo, perché ormai so che per noi donne i lupi esistono ovunque.
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Articolo di Fatema Qasim

Immigrata in Italia, quando frequentava l’università nel campo dell’ingegneria gestionale, i suoi genitori decisero di tornare nella loro patria, l’Afganistan. Affascinata da Kabul, ha vissuto lì per due anni e ha studiato scienze politiche con l’obiettivo di poter un giorno difendere i diritti della parte più debole della sua patria, le donne. Nel settembre 2011 si è sposata e trasferita a Roma, con Kabul sempre in cuore. Ha un grande interesse per la lettura e la passione per la scrittura.