Prima Dicembre 1977: nella stagione del Movimento esce il primo numero di Un’ambigua Utopia, rivista di fantascienza e critica mar/x/ziana redatta da un collettivo di giovani appassionati che gravitano su Milano. La testata, che ha vita breve (nove numeri in cinque anni), deve il suo nome al sottotitolo di un romanzo di Ursula Le Guin pubblicato negli Stati Uniti nel 1974: The dispossessed. An ambiguous utopia (stampato in Italia nel 1976 con il titolo I reietti dell’altro pianeta), compreso nel cosiddetto Ciclo dell’Ecumene, o Hainish Cycle, che conta (o conterebbe, le scuole di pensiero a riguardo non sono univoche) sette romanzi e diciassette racconti. I romanzi, tranne uno più tardo, sono scritti negli anni Sessanta e Settanta, così come i primi quattro racconti; i restanti tredici, invece, si collocano negli anni Novanta. E il Ciclo dell’Ecumene, come si vedrà, rappresenta soltanto una parte (quella presa in considerazione in questa sede: i sette romanzi e tre dei diciassette racconti) dell’immensa produzione di Le Guin…
Ma perché Ecumene, e perché ambigua utopia? Ursula, attraverso le parole di Genly Ai, protagonista di The Left Hand of Darkness (1969), così rivisita il concetto di «casa comune» mutuato dalla cultura greca: «L’Ecumene, essenzialmente, non è affatto un governo. È un tentativo di riunire il mistico con il politico […]. È una società e possiede, sia pure potenzialmente, una cultura. È una forma di educazione; sotto un certo aspetto è una specie di grandissima scuola… […] sotto un altro aspetto si tratta di una lega, o di un’unione di mondi, in possesso entro certi limiti di un’organizzazione convenzionale centralizzata. […] agisce attraverso la coordinazione, non attraverso il governo. Non impone la legge; le decisioni sono raggiunte in virtù di un comune consenso e di un comune consiglio, non in base a un ordine o a una deliberazione obbligata». Tra gli oltre ottanta mondi che compongono la lega, vi sono Urras e Anarres, pianeti speculari, il primo basato sul sistema capitalistico, il secondo sull’utopia libertaria (qui si sono rifugiati The dispossessed, i “reietti”). Ma l’utopia, una volta resa istituzione, scivola nell’ambiguità, vira verso la distopia, cosicché tra l’uno e l’altro mondo occorrerebbe poterne scegliere un terzo, per trovare un luogo ove l’individuo possa essere sé stesso, donna o uomo libero.

(fotografia di autore non noto)
Ursula Kroeber nasce a Portland, California, il 21 ottobre 1929, da Alfred Louis Kroeber e Theodora Kracaw: il padre è un noto antropologo, anzi uno dei fondatori della disciplina, la madre è scrittrice e pure antropologa, entrambi sono studiosi della cultura dei nativi americani. La piccola cresce così in un ambiente intellettualmente vivace (la sua casa è frequentata da scrittori e scienziati, tra i quali Robert Oppenheimer) e al contempo attento e rispettoso delle differenti comunità e delle loro tradizioni (viene da qui la consapevolezza della complessa relazione tra cultura e ambiente, centrale nell’opera di Le Guin); è anche un’appassionata lettrice, di fantasy e science fiction, tanto che nel 1939, a dieci anni, invia il suo primo racconto alla rivista Amazing Stories, che lo rifiuta. L’adolescenza e la prima giovinezza sono dedicate a studi accademici: si laurea in letteratura del Rinascimento francese e italiano con una tesi sulla metafora della rosa (che, dal Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean De Meun al Fiore attribuito a Dante, rinvia alla donna e al sesso di questa) e si specializza con una dissertazione sul concetto di morte nella poesia di Ronsard.

Prosegue la carriera di studiosa in Francia, ove conosce il marito, lo storico Charles Le Guin, nel 1953: i due si sposano a Parigi pochi mesi dopo, il 22 dicembre dello stesso anno, poi fanno ritorno negli Stati Uniti; lui prosegue la carriera universitaria, lei no. La coppia vive dapprima ad Atlanta, Georgia, poi a Moscow, Idaho, per approdare infine a Portland, Oregon; in questi anni (nei quali nascono le figlie Elisabeth nel 1957 e Caroline nel 1959 e il figlio Theodore nel 1964) Ursula riprende a leggere e a scrivere fantascienza (lo farà fino alla morte): a trentacinque anni, nel settembre 1964, pubblica su Amazing Stories (forse memore dell’antico rifiuto di venticinque anni prima) il racconto capostipite del Ciclo dell’Ecumene.

Si tratta di Dowry of the Angyar, o Semley’s Necklace (il titolo italiano è La collana di Semley), poi ripubblicato nel 1966 come prologo del primo romanzo Rocannon’s World (Il mondo di Rocannon). «Credo che sia la più tipica delle mie opere di science fiction e di fantasy di quei tempi» scrive l’autrice presentandolo nell’antologia The Wind Twelve Quarters (1979): protagonista è una giovane donna, Semley, sposa di Durhal di Hallan, della razza dei Liuar e del popolo degli Angyar, del pianeta che prenderà il nome di Rokanan; è bella e coraggiosa, non teme né morte né dolore, per amore e per orgoglio parte alla ricerca della propria dote, un leggendario gioiello di famiglia, splendida collana d’oro con pendente in zaffiro, sottratto alla sua stirpe da tempo immemore. Semley incontra e affronta i Fiia minuscoli e amanti della luce e i Gdemiar abitatori del mondo ipogeo, fino ai Signori delle Stelle, arrivando alla conclusione (prevedibile ma ugualmente malinconica) del suo cammino e della sua vita.
In continuità con questo racconto è Rocannon’s World (apparso in Italia nel 1973 con il titolo L’ultimo pianeta al di là delle stelle), pure ambientato sul remoto pianeta n. 62 dell’area galattica 8, ove approda Rocannon, unico sopravvissuto di una spedizione interstellare della Lega di Tutti i Mondi (la futura Ecumene), sterminata da oscuri nemici che si sono insediati su quel corpo celeste. Una terra rappresentata come medioevo fiabesco e rivisitato, con castelli e foreste, donne gentili e codici cavallereschi, spade e grifoni. Nello spiccato gusto fantasy del romanzo, condotto con grande capacità narrativa e certo memore della lezione di Tolkien, si inserisce il tema centrale della narrativa di Le Guin, perseguito per tutta la sua lunga carriera di scrittrice: un protagonista maschile compie un viaggio iniziatico alla ricerca di sé, nell’incontro con l’altro (che assume la forma di razze, popoli, mondi differenti) e nell’esperienza del dolore acquisisce unitamente alla conoscenza il dono della consapevolezza, per quanto, una volta concluso il cammino e giunto a un precario punto di arrivo, nulla potrà mai essere come prima. Ecco, dunque, che il «Signore delle Stelle» diviene l’«Errante», poiché «il mondo stesso è divenuto un granello di sabbia sulla spiaggia della notte». Altro tema fondante, che ricade a cascata nelle opere successive, è quello del tempo, variabile soggettiva, che è possibile rallentare o sospendere, così che chi viaggia nello spazio interstellare ne subisce gli effetti e i danni in misura minimale rispetto a chi conduce la propria vita su uno dei tanti mondi che popolano l’universo; è la distorsione temporale (è l’amaro insegnamento già appreso da Semley) che rende impossibile il ritorno di Rocannon: «Se tornassi indietro su Davenant o sulla Terra, gli uomini e le donne che ho conosciuto sarebbero morti da cento anni», confida a un giovane compagno di viaggio. Viaggio avventuroso, per terra, attraversando deserti e scalando montagne, per mare e per cielo, che offre a Ursula la possibilità di disegnare paesaggi di straordinaria suggestione, di creare mondi altri pur ricorrendo a scenari terrestri, miscelati e sovrapposti con originalità. La lotta del protagonista con l’oscuro male rappresentato dai «Nemici», che «hanno ucciso e deportato gli abitanti di sei domini», rinvia alla resistenza della Compagnia dell’Anello a Mordor; Le Guin inserisce tuttavia nella narrazione elementi fantascientifici, con esito non sempre felice, quanto meno straniante: è il caso del giovane eroe Mogien, che a cavallo di un grifo si scaglia contro un nero elicottero avversario (come la cavalleria polacca contro i panzer nazisti) o dello stesso Rocannon, che utilizza telepatia e tecnologia per sferrare in solitudine l’attacco decisivo, prima della conclusione, bella e malinconica, che riscatta alcune debolezze del romanzo.

Planet of exile (1966), il secondo testo del Ciclo, è pubblicato in Italia nel 1979, con titolo tradotto alla lettera Il pianeta dell’esilio: non è tra le opere più celebri dell’autrice, ma è un romanzo riuscitissimo. Riuscito il tema centrale dell’incontro, o scontro, tra civiltà (o meglio tra donne e uomini che a queste appartengono): sul pianeta Werel (che i provenienti dal pianeta madre Hain chiamano Alterra) a incontrarsi sono i nativi Tevar e gli esuli «nati lontano», che presentano caratteristiche fenotipiche differenti (chiari di carnagione i primi, scuri i secondi) ma che sono entrambi riconducibile alla comune umanità. Gli elementi che uniscono possono però prevalere su quelli che dividono: i Tevar si sono dati una struttura sociale tribale e patriarcale (sono poligami), vivono in accampamenti di tende idonei ad affrontare inverni lunghissimi (determinati dai cicli di rotazione del pianeta intorno al proprio sole, che dilatano a dismisura le stagioni rispetto a quelle terrestri), non conoscono la ruota, la scrittura, la telepatia; i «nati lontano» dispongono di una organizzazione più complessa ed egalitaria (e sono monogami), vivono in una città fortificata e quasi imprendibile (un po’ rocca di Mont Saint Michel in Normandia, un po’ fortezza del Fosso di Helm nel Signore degli anelli), non hanno dimenticato la scienza e la tecnologia portate con sé nel «pianeta dell’esilio». Riusciti sono i protagonisti: l’anziano capo Wald, indimenticabile grande vecchio, tra smemoratezza, tolleranza e fierezza, capace di trovare in extremis senso e ragione alla propria esistenza; la figlia nata «fuori stagione» (è perciò incline all’individualismo ribelle) Rolery, altra figura di giovane donna coraggiosa e tenace; la guida dei «nati lontano» Jakob Agat, il personaggio maschile nel quale si riflette (come quasi sempre) Ursula Le Guin, saggio e appassionato a un tempo. Due variabili impreviste danno origine alla vicenda: la discesa dei Gaal, orda barbarica in movimento in una migrazione/invasione epocale, in cerca di terra e di cibo, e l’amore tra Jakob Agat e Rolery, osteggiato come i grandi amori tra alieni o nemici (da Romeo e Giulietta, i dui infelicissimi amanti di Matteo Bandello, a The Lovers di Philip J. Farmer), fortissimo contro ogni difficoltà o smentita. Riuscita è la narrazione, equilibrata tra avventura e descrizioni paesaggistiche, azione e riflessioni esistenziali.
Rallenta il ritmo narrativo, a tutto vantaggio della dimensione interiore, di ricerca e speculazione antropologica, umanistica, filosofica, il romanzo successivo, City of illusion (1967), pubblicato in Italia nel 1975, pure con titolo tradotto alla lettera Città delle illusioni: una sorta di romanzo ponte tra la prima parte del Ciclo (di cui è terzo) e la seconda, che annovera le prove più mature e celebri di una ormai affermata Ursula Le Guin. Un uomo senza nome e senza memoria, smarrito nel tempo e nello spazio, certo straniero, forse nemico, giunge al rifugio della casa di Zove e della sua famiglia, isolata nella radura sul bordo della foresta, in una Terra colonizzata da una razza aliena infida e malvagia, gli Shing. La mente di Falk (è il nome che gli è dato dalla piccola comunità che lo accoglie) è vuota, ma l’uomo (alieno o terrestre, certo umano) possiede «ciò che gli uomini hanno perduto: un destino, una missione da compiere» e seguendo il proprio destino può portare speranza all’umanità schiava e sottomessa. A Falk, dunque, non resta che partire, come nuovo Odisseo lasciare il precario punto di approdo dell’isola felice ove è naufragato e l’amore appena sbocciato per Parth, per tornare al punto di origine sconosciuto, scoprire il proprio nome, essere finalmente sé stesso: soltanto «quando tutte la vie eran perdute, la Via restava chiara», come recita il Vecchio Canone, o ancora «andare alla ricerca del proprio vero nome: quale strada migliore di questa da percorrere?», come afferma lo stravagante ma saggio Principe del Kansas, che accoglie il protagonista. Non tutti gli incontri sono felici: battuto, irriso, derubato, come viandante in un mondo ostile, Falk conosce uomini violenti e malevoli, feroci tribù barbariche, ospiti bizzarri e leali (eremiti o principi che siano), sperimenta insomma la straordinaria varietà e imprevedibilità del mondo. Conosce anche la solitudine, e nella solitudine prova acuta nostalgia per l’umanità (e per la Casa della Foresta dalla quale è partito) e al tempo stesso orrore per la malvagità che ha sperimentato: «Non sono più solitario del ruscello del mulino, o di un gallo segna-tempo, o della stella polare, o del vento del sud, o del temporale di aprile, del disgelo di gennaio, del primo ragno in una casa nuova… Non sono più solo dell’anatra nello stagno, che ride tanto forte, e nemmeno più solo dello stesso stagno di Walden». Thoreau, e non poteva essere altrimenti per un’intellettuale avviata all’ecologismo pacifista come Le Guin: il riferimento all’opera di maggior successo del filosofo della natura (Walden, or Life in the Woods di Henry David Thoreau, 1854) e a Walden Pond, Massachussets, collega la narrativa science fiction (sarà ripreso anche da Kate Wilhelm) alla rivolta della beat generation di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, che appartengono alla stessa generazione di Ursula.

City of illusion è un romanzo giocato sul ritmo binario: la prima parte consta del viaggio di Falk alla ricerca della propria identità, nel quale il protagonista ha per compagna Estrel, che incarna lo stereotipo femminile della curatrice, fedele e fidata, fino all’arrivo nella città di Es Toch, la città dell’illusione, o della menzogna, la capitale dell’impero Shing. Qui, ove nulla è ciò che sembra, Falk è riconosciuto come Agad Ramarren, componente di una missione spaziale partita da Alterra e approdata sul pianeta alcuni anni prima, solo sopravvissuto dell’equipaggio insieme con un giovanissimo, allora bambino. «La Menzogna che gli uomini attribuiscono a noi è essa stessa una menzogna», afferma uno dei notabili Shing: la seconda parte del romanzo è tutta giocata sull’opposizione realtà/apparenza, tanto che Falk/Ramarren non comprende, inizialmente, quale sia la verità, se gli esseri umani siano «una razza di bambini protetti dalla ferma e amorevole guida, oltre che dalla inattaccabile forza tecnologica della casta degli Shing» oppure «uomini, brutalizzati, sofferenti, e terrorizzati». Accettare la propria identità duplice, non rinnegando Falk ma al contempo legittimando Ramarren, è la chiave di volta per giungere alla soluzione dell’enigma, per affermare sé stesso nella propria interezza e conquistare il diritto al futuro (in un finale, a dire il vero, piuttosto sbrigativo).
Il romanzo, come ben si comprende, è di grande interesse, ma decisamente virato alla dimensione dello spazio interiore, all’approfondimento teorico delle discipline più care a Le Guin: le scienze umane con le articolazioni di antropologia, filosofia, linguistica… E così è anche per il quarto capitolo del Ciclo dell’Ecumene, il celeberrimo The Left Hand of the Darkness (1969), apparso in Italia nel 1971 con il titolo La mano sinistra delle tenebre, che vale all’autrice l’assegnazione in contemporanea sia dell’Hugo Award sia del Nebula Award, in una sorta di unanime plebiscito da parte di pubblico e critica. Un libro ampio, impegnativo, amatissimo dai più. Letto in sequenza con i precedenti, denota maggiore maturità, ma risulta meno fluido, certo più ambizioso nella costruzione di mondi, razze, lingue, e nella struttura composita della narrazione, orchestrata a più livelli, con alternanza di registri stilistici: in dimensione soggettiva (avvalendosi di punti di vista differenti), documentaria (attraverso relazioni scientifiche), spirituale e mitica (grazie all’inserimento di apologhi e leggende). Il punto di debolezza (o di forza, a seconda dei punti di vista) della narrativa di Ursula Le Guin è proprio questo: scrive, per progressivi allargamenti e approfondimenti, sempre lo stesso libro, il cui protagonista (umano e maschio) rappresenta altrettante variazioni rispetto al modello iniziale, costantemente alla ricerca della propria identità, conteso tra realtà e finzione, talvolta condizionato da stereotipi ma capace di sospendere il giudizio, perennemente in viaggio, tra le stelle o sulla superficie di un pianeta gelido e inospitale.

«La luce è la mano sinistra delle tenebre,/ E le tenebre la mano destra della luce./ Due sono uno, vita e morte, e giacciono/ insieme come amanti in kemmer,/ come mani giunte,/ come la meta e la via». Yin e Yang, secondo la filosofia del Tao. L’idea intorno alla quale l’opera è costruita è senza dubbio geniale: gli abitanti di Gethen (che Genly Ai, inviato dell’Ecumene, chiama «Inverno» per il suo clima rigidissimo) sono nella fase somer androgini assoluti, capaci tuttavia nella fase kemmer, di attivazione dell’impulso sessuale e fertilità riproduttiva, di virare indifferentemente in uomini o donne. Per un umano uomo (una donna appare soltanto nelle ultime pagine del testo), dunque, l’alterità assoluta e lo sgomento nel constatare che l’amico getheniano «era una donna, almeno quanto era un uomo», poiché su Terra e su altri pianeti (tutti gli altri) «la cosa più importante, il più pesante elemento singolo nella vita di una persona» è data «dal fatto che sia nato maschio oppure femmina. In quasi tutte le società questo fatto determina le aspettative, l’aspetto, l’ideologia, l’etica, la morale, le maniere di una persona… quasi tutto». Un’androginia non sempre, però, felicemente tradotta (almeno in lingua italiana) negli abitanti di Karhide e Orgoreyn, le due nazioni in cui Gethen è divisa: «in mancanza del “pronome umano” karhidi che viene usato per le persone somer, dovrò dire ‘egli’ e ‘lui’ per gli stessi motivi in base ai quali usiamo il pronome maschile riferendoci a un dio trascendente»; così scrive Ong Tot Oppong, investigatrice «della prima squadra di atterraggio dell’Ecumene su Gethen/Inverno». L’espediente funziona poco e male: i getheniani si connotano infatti inesorabilmente come più maschili che femminili, il desiderio di «essere rispettati e giudicati solo come esseri umani» rischia di trasformarsi, ancora una volta, in negazione o cancellazione del femminile.
Quanto alle nazioni di Gethen, la riflessione espressa nel romanzo è coerente con il pacifismo praticato da Le Guin: «Io conosco la gente, conosco le città, le fattorie, le colline e i fiumi e le rocce, so come il sole al tramonto, d’autunno, discende sul fianco di un certo campo sulle colline; ma qual è il senso di dare un confine a tutto questo, di dare un nome a esso e cessare di amare là dove il nome finisce di essere applicato?» è la domanda che pone Estraven, getheniano compagno di viaggio di Genly Ai. Sì, perché anche l’inviato dell’Ecumene, in missione per cooptare il pianeta nella lega interstellare, compie un viaggio, anzi, più viaggi: da Karhide a Orgoreyn, e poi, divenuto sospetto agli occhi del potere poliziesco della nazione, nel cuore della vasta pianura gelata, fino a un campo di internamento e rieducazione che tanto ricorda un gulag siberiano, e ancora in fuga per fare ritorno nel regno da cui è partito. Non da solo, però: lo stesso percorso è compiuto da Therem Harth rem ir Estraven, primo ministro di Karhide caduto in disgrazia, espulso e avventurosamente transfuga a Orgoreyn, persona la cui apparente ambiguità si scioglie nell’amicizia incondizionata che lo porta a rendere possibile la fuga di Genly Ai e ad affrontare con lui l’epica traversata del Ghiaccio, ottantuno giorni e ottocentoquaranta miglia di marcia nel silenzio e nella neve, portandolo in salvo, fino al finale struggente e bellissimo. E soltanto nel finale l’inviato dell’Ecumene riconosce il sentimento negato che lo lega a Estraven: Ursula Le Guin, infine, riconosce che il principio non è l’uno, ma il due.
In copertina: Gino Andrea Carosini, Ursula Le Guin giovane.
Inizia con questo ritratto la collaborazione di Gino Andrea Carosini alla serie Fantascienza, un genere (femminile).
Carosini, genovese di nascita, è un affermato disegnatore in ambito horror, science fiction, weird: pubblica per diverse testate e case editrici, spaziando dall’illustrazione alla graphic novel. Ingegno versatile, è anche autore di testi teatrali e membro di un coro specializzato in musica sacra.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.