Fantascienza, un genere (femminile). Ursula Le Guin. Parte seconda

Si deve ad Harlan Ellison la prima pubblicazione di The Word for World is Forest (letteralmente: La parola per ‘mondo’ è ‘foresta’, con evidente gioco lessicale; titolo della traduzione italiana, del 1977, è Il mondo della foresta): il geniale e controverso autore di science fiction inserì infatti il romanzo breve di Ursula Le Guin (con cui lei vincerà il Nebula Award) nell’antologia da lui curata Again dangerous visions, del 1972.

È un libro bellissimo, un assoluto capolavoro, una dolorosa metafora della guerra del Vietnam. Come noto, nel marzo 1965 gli Stati Uniti, guidati dal presidente Lyndon Johnson, intervengono direttamente nella nazione asiatica, con una escalation relativa all’impiego di uomini, armi, mezzi, fino al ripiegamento seguito alla vittoriosa offensiva nordvietnamita del Têt del gennaio 1968, al progressivo ritiro delle forze americane e alla tregua dell’ottobre 1972 (il conflitto, iniziato nel 1955, finirà soltanto tre anni più tardi, nel 1975). La guerra del Vietnam è anche una guerra mediatica: la rivoluzione planetaria del 1968 ne fa l’esempio dell’aggressivo imperialismo del primo mondo nei confronti del terzo, mentre le immagini dei civili vietnamiti in fuga dai villaggi incendiati dal napalm fanno il giro del pianeta (è il caso della celebre fotografia scattata l’8 giugno 1972 che inquadra la bimba Kim Phúk, allora di nove anni, che corre completamente nuda con altri bambini e bambine, il viso stravolto dal dolore e dal pianto, le braccia aperte ustionate). Gli stessi autori e autrici di fantascienza statunitense si schierarono, su Galaxy Science Fiction del giugno 1968, a favore o contro l’intervento in Vietnam: tra questi ultimi Ursula Le Guin.

Fotogramma che ritrae Ursula Le Guin negli anni Settanta, dal documentario
Worlds of Ursula Le Guin di Arwen Curry (Sheffield Doc/Fest 2018)

New Tahiti per i terrestri, Athshe (‘Foresta’) per i nativi creechie, è un pianeta da «ripulire e addomesticare». I colonizzatori sono alti e bianchi, violenti e suprematisti, i colonizzati piccoli e verdi, inizialmente rassegnati, poi implacabili: l’opposizione si gioca sui personaggi del capitano Davidson, il militare che incarna un campione di razzismo occidentale, volgare e ossessivo (senza tuttavia la grandezza tragica di un heart of darkness), e del nativo Selver, visionario e paziente, un dio per il proprio popolo, che dai nemici impara a uccidere. Le Guin è abilissima nel contrapporre due mondi, due popoli, due stili di vita differenti: «i creechie sono pigri, sono stupidi, sono traditori, e non sentono il dolore» afferma Davidson; «questi umani ci uccidono con la leggerezza con cui noi uccidiamo i serpenti» osserva Selver. I coloni terrestri importano su New Tahiti qualche centinaio di «femmine da accoppiamento», i colonizzati Athshiani affidano alle proprie donne la responsabilità di ciò che deve essere fatto, che gli uomini hanno veduto in sogno. A questo proposito, è probabile che l’autrice riproponga in chiave letteraria la teoria del «lucid dream», diffusa negli Stati Uniti negli anni Sessanta e mutuata dalla cultura Senoi, popolo malese che pratica la cultura dei sogni, la discussione collettiva di questi, il loro valore per l’armonia della società e dell’ambiente. Così, non solo per depredare il mondo della foresta della preziosa risorsa del legname (ormai quasi scomparso da Terra), ma perché «incapaci di sognare e di agire come uomini», gli invasori militarizzati «si aggirano nel loro tormento, uccidono e distruggono», con elicotteri, bombe a mano, mitragliatrici. E napalm: «bastava portare un elicottero su una delle loro aree e trovare laggiù un gruppo di creechie, con i loro maledetti archi e frecce, e cominciare a lanciare napalm e starli a guardare mentre scappavano da tutte le parti e bruciavano». Ma, afferma il vecchio colonnello Dongh, «Non puoi sconfiggere con le bombe una struttura militare basata sulla guerriglia, è stato dimostrato; anzi, è stato dimostrato proprio nella parte del mondo dove sono nato io: l’hanno dimostrato per circa trent’anni, scacciando le grandi potenze militari l’una dopo l’altra, nel ventesimo secolo». La deumanizzazione di cui sono stati vittime i creechie si rovescia, per contrappasso, sui terrestri, in una nuova, inevitabile, sanguinosa, offensiva del Têt. Nessun incontro possibile tra i due mondi, la mediazione tentata da Lyubov, terrestre amico di Selver, fallisce, sul pianeta degli alberi nulla potrà più essere come prima.

Del 1974, il racconto The day before revolution (Il giorno prima della rivoluzione), è il prequel di The dispossessed. An ambiguous utopia (I diseredati. Un’ambigua utopia) che data allo stesso anno ed è «l’ultimo grande romanzo della fantascienza classica» (così la guida critica Nei labirinti della fantascienza, a cura del collettivo “Un’ambigua utopia”, 1979). Il racconto vince il Nebula Award, il romanzo sia l’Hugo sia il Nebula. Il primo è pubblicato in Italia nel 1979, il secondo (con il titolo I reietti dell’altro pianeta) nel 1976.

«Il principale bersaglio dell’anarchia è lo stato autoritario, capitalista o socialista che sia; la sua principale componente morale-pratica è la collaborazione (solidarietà, aiuto reciproco): di tutte le teorie politiche è la più idealistica e per me la più interessante — così Le Guin nella presentazione del racconto — inserirla in un romanzo, cosa che prima non era mai stata fatta, fu per me un lavoro duro e lungo e mi assorbì completamente per vari mesi. Quando lo terminai mi sentii perduta, esiliata: una persona senza più patria. Perciò fui molto riconoscente quando Odo uscì dalle ombre del golfo delle probabilità e volle che scrivessi un racconto non più sul mondo da lei realizzato ma su lei stessa». Laia Asieo Odo è una memorabile figura di saggia, malferma anziana (al pari del vecchio capo Wald del Pianeta dell’esilio), icona malgrado sé stessa, «la nonnina di tutti, la cara vecchietta, il buon vecchio monumento», la madre della rivoluzione che ha sperimentato la persecuzione e il carcere, e che ora non ha tempo per sé, e allora «che senso c’era a lottare tutta la vita per la libertà per poi finire col non averne neanche un briciolo?».

Ursula in una fotografia presumibilmente dei tardi anni Novanta o primi anni Duemila, autore non noto

Sull’antinomia è costruito anche The dispossessed, una delle opere più celebri di Ursula (per quanto marcatamente didascalica) ovvero sull’opposizione tra utopia e distopia, capitalismo e anarchia, opulenza e povertà. Due gli spazi e due i piani temporali, alternati con l’eccezione del primo e dell’ultimo capitolo, che incorniciano la duplice vicenda, chiudendone il cerchio; in apertura della narrazione un muro: «come ogni altro muro, anch’esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo si osservava». All’interno Anarres, il pianeta su cui, in un tempo precedente e indeterminato, si sono rifugiati i seguaci di Odo, che hanno dato vita a una società di uguali, libertaria e comunistica, ove si svolge la narrazione del passato prossimo, della giovinezza del protagonista Shevek; all’esterno Urras, il pianeta madre, che ha mantenuto un’organizzazione politica, economica, sociale con forti disparità e ingiustizie, ove scorre il presente di una nuova vita, dettata dal desiderio di conoscenza. Shevek (ispirato al fisico Robert Oppenheimer, ma anche portavoce di Ursula Le Guin) appartiene ad Anarres, ma chiede e ottiene di potersi recare su Urras per proseguire lo studio sui principi di simultaneità (e creare così l’ansible, il comunicatore istantaneo che compare in diversi romanzi della scrittrice), per incontrare e confrontarsi con altri scienziati: la prospettiva della partenza dal proprio mondo guadagna a lui l’appellativo di «traditore», alla moglie e alla figlia bambina il disprezzo e l’emarginazione dalla comunità, una comunità non così rispettosa della libertà dell’individuo, che condanna alla solitudine Bedap, alla pazzia Tirin, entrambi dall’adolescenza amici di Shevek.

Come questi sperimenta, la posizione delle donne nelle società di Anarres e Urras è antitetica: nel primo, ove vige l’etica del lavoro, vi è assoluta parità tra i due generi nei comportamenti e nelle professioni; nel secondo, invece, gli scienziati sono tutti uomini, perché le donne «non riescono a capire la matematica; non hanno testa per il pensiero astratto, non è roba loro — dichiara un collega universitario al protagonista — lei sa com’è, quello che le donne chiamano “pensare” viene fatto con l’utero!». Non la pensano così, però, le interessate: «Le donne fanno esattamente quello che vogliono — dice Vea, bella, ricca, sensuale — e non devono sporcarsi le mani, o infilarsi elmetti di bronzo, o mettersi a gridare da un banco del Direttorato, per ottenerlo», e quello che vogliono è «comandare gli uomini, naturalmente».

Mentre i giovani di Anarres sono contingentati in attività manuali, inviati nelle diverse aree del pianeta in base alle occorrenze della comunità, chiamati a riscattare con un lavoro durissimo l’inospitalità dell’ambiente, gli studenti di Urras sono «superbamente addestrati», appunto, addestrati: «essi non volevano pensare alle domande, ma soltanto scrivere le risposte che avevano imparato», con stupore e disagio di Shevek, che ritiene che «il procedimento di ficcarsi in testa informazioni per rigettarle a richiesta» sia «quanto di più efficace per disamorare il naturale desiderio di imparare che ciascuno porta in sé».

Le contraddizioni sono destinate a esplodere: così il protagonista parla ai plutocrati: «I nostri uomini e le nostre donne sono liberi… non possedendo nulla, sono liberi. E voi, i possessori, siete posseduti», e ai diseredati: «Non potete comprare la Rivoluzione. Non potete fare la Rivoluzione. Potete soltanto essere la Rivoluzione. È nel vostro spirito, oppure non è in alcun luogo», in una sequenza narrativa di grande impatto emotivo, memore di The Iron Heel di Jack London (1908).

La salvezza, il ritorno («Vero viaggio è il ritorno…»), per Shevek verrà da Terra, nonostante questa sia ormai «una rovina — così l’ambasciatrice Keng — un pianeta rovinato dalla specie umana. Ci siamo moltiplicati e ci siamo ingozzati e abbiamo combattuto finché non è rimasto più nulla, e poi siamo morti. Non abbiamo controllato né gli appetiti né la violenza; non ci siamo adattati. Abbiamo distrutto noi stessi. Ma prima abbiamo distrutto il nostro mondo. Non rimangono più foreste sulla mia Terra. L’aria è grigia, il cielo è grigio, fa sempre caldo. […] Puoi vedere ancora dappertutto le vecchie città. Le ossa e i mattoni vanno in polvere, ma i piccoli pezzi di plastica no… anch’essi non s’adattano. Noi abbiamo fallito come specie, come specie sociale».

Due fotogrammi tratti dal documentario Worlds of Ursula Le Guin di Arwen Curry (Sheffield Doc/Fest 2018)

Ursula era figlia di due antropologhi, tra i principali studiosi della cultura nativa americana; in particolare il padre fu in contatto con Ishi, ultimo rappresentante della comunità californiana degli Yahi: il racconto Buffalo Gals, Won’t You Come Out Tonight (Le ragazze bufalo, del 1987, che vale all’autrice l’Hugo Award) è memore delle frequentazioni familiari: una bimba «caduta dal cielo» (in seguito a un incidente aereo) è accolta da una comunità di «Prime Persone», ovvero di animali totemici che partecipano dell’umanità: Coyote, madre anticonvenzionale ma affettuosa e protettiva per la piccola (che pensa a sé come «Ragazza»), e poi Scoiattolo, Criceto, Gazza, Cavallo, Cincia… Persone così diverse dalle «Persone Nuove» che vivono in «luoghi di metallo, […] luoghi di vetro», in luoghi separati. «E i loro posti sono così pesanti — dice la saggia Cincia — pesano sul nostro, lo opprimono, lo risucchiano, lo mangiano, vi scavano buchi, ne restringono sempre più la dimensione… Forse, tra qualche tempo, ci sarà di nuovo un posto solo: il loro. E non rimarrà nessuno di noi. Conoscevo Bisonte, abitava dietro le montagne. Conoscevo Antilope, che stava qui. Conoscevo Grizzly e Lupo Grigio, che vivevano a Occidente. Spariti. Tutti spariti». Scrivendo questa fiaba bizzarra, ancora una volta Le Guin esprime amore e rispetto per la natura, per il mondo animale, per la cultura nativa, nella consapevolezza che «le cose sono tutte intessute tra loro», che l’infanzia è il tempo del sogno e dello stupore, in cui è ancora possibile passare da un mondo a un altro, intuire l’essenza delle cose.

Le copertine delle prime edizioni del quinto, sesto e settimo romanzo del Ciclo dell’Ecumene; la locandina dell’edizione italiana del film I racconti di Terramare, di Goro Miyazaki (2006), tratto dal Ciclo di Earthsea di Ursula Le Guin

The Telling (La narrazione) è l’ultimo, tardivo romanzo del Ciclo di Ecumene: Ursula lo pubblica nel 2000, in Italia il titolo (poco felice) è La salvezza di Aka (2003). Qui si incontrano ancora una volta i temi cari a Le Guin: la protagonista (questa volta donna, proveniente da Terra e originaria del subcontinente indiano) che svolge il ruolo di osservatrice per la lega dei mondi; la ferocia di una dittatura tecnologica; la bellezza di una tradizione capace di rispettare l’umano, trasmettendo la saggezza attraverso uno stile di vita in armonia con la natura; il viaggio iniziatico in un gelido clima invernale; la consapevolezza che la narrazione è storia e la storia è narrazione, che la parola è e crea il mondo. Sutty è una giovane esperta di lingue e culture, inviata come osservatrice su un pianeta, Aka, ove il gruppo egemone Dovza, in nome della «Marcia verso le Stelle», ha cancellato e cancella sistematicamente il proprio passato: è inviata in missione in una comunità che vive ancora secondo le antiche tradizioni, utilizza nel linguaggio le formule di cortesia ormai vietate, cucina cibi naturali e salutari rifiutando le monoporzioni surgelate, legge di nascosto i libri ormai da tempo proibiti, venera e ascolta le e i maz, narratori e narratrici di storie, leggende, apologhi nei quali è possibile trovare risposte ai propri perché. Antagonista di Sutty è il Controllore, integralista e fanatico, che giunge a spiarne i movimenti violando gli stessi ordini dell’Azienda, la parola che ha sostituito il vocabolo Governo, del tutto superato.

L’aspetto linguistico è forse il più interessante del libro, perché riprende nella distopia un elemento centrale dei regimi totalitari (si pensi al rinnovamento operato e imposto a livello linguistico da fascismo e nazismo): la lingua è «standardizzata», il sapere (o presunto tale) trasmesso attraverso testi audio, mentre libri e biblioteche sono perseguitati e distrutti (proprio come in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury), alcune parole sono proibite, ma riscoperte dalla protagonista durante il lungo soggiorno nella comunità di Okzat-Ozkat, ove è giunta risalendo il fiume Ereha, andando alle origini, fino quasi al monte Silong, la «Madre», e poi nel «Grembo della Madre», che custodisce il passato e per questo è soglia fertile del presente. Tra le parole bandite, Yoz «un termine definito dall’Azienda un appellativo servile» che significa «più o meno, persona come me, mio simile»; e Maz, le e gli «insegnanti della vecchia lingua e delle vecchie usanze», per lo più anziani perché «ci voleva una vita per imparare a camminare nella foresta», nella foresta delle parole che compongono le narrazioni, tutte diverse, tutte uguali in autorevolezza; ancora, è bandito il «particolare pronome singolare-duale, usato per una donna incinta o un animale gravido e per una coppia sposata» e usato per i maz, che «erano sempre coppie. Una unione sessuale, eterosessuale o omosessuale, monogama, che durava tutta la vita», perché «l’uno fa due». Parole. «Un mondo fatto di parole» è quello che viene scoprendo Sutty, con il suo fardello di dolore indicibile portato da Terra, che tuttavia saprà sciogliersi nella parola: «Noi siamo il mondo. Siamo la sua lingua. Così noi viviamo e il mondo vive. Capisci? Se non diciamo le parole, cosa c’è nel nostro mondo?», così Elyed, anziana e saggia maz, trent’anni prima arrestata con la sua compagna Oni «per devianza sessuale e per avere insegnato ideologia marcia e corrotta» e con lei inviata in un campo di rieducazione. Elyed Oni ne è tornata, Oni Elyed no: in una coppia maz, ciascuno, ciascuna assume accanto al suo anche il nome dell’altro, dell’altra: ecco «i Due che sono Uno». Il dualismo complementare vale anche per la «Narrazione» e per la «Storia», entrambe «modi di trattenere e conservare cose sacre», la sacralità che è in «Ciò che è vero […]. Ciò che è costato sofferenza. Ciò che è bello».

Molta filosofia (orientale soprattutto) e riflessione linguistica, nonché eccellente capacità narrativa e descrizioni paesaggistiche sontuose, ne fanno un romanzo non tra i più celebrati dell’autrice ma ben riuscito, pur con un finale un po’ troppo affrettato. The Telling, scritto quando Le Guin ha oltre settant’anni e ormai la sua produzione dirada, rappresenta dunque la summa della sua opera e del suo pensiero, della sua visione del mondo, dei mondi.

Ursula Le Guin ha scritto il Ciclo dell’Ecumene e anche tanto, tanto altro: ursulakleguin.com menziona «ventuno romanzi, undici volumi di racconti, quattro raccolte di saggi, dodici libri per bambini, sei volumi di poesia e quattro di traduzioni»; il lemma di Wikipedia a lei dedicato ne articola la produzione in Ciclo di Earthsea, Ciclo dell’Ecumene, altri romanzi e cicli di storie, raccolte di racconti, libri per ragazzi, saggistica, poesia, elencando la messe di premi da lei ottenuti; infine, scorrere la voce Ursula Le Guin sul database ISFDB, significa aprire a centinaia e centinaia di titoli, varianti, traduzioni…

Merita senza dubbio di essere menzionato il Ciclo di Earthsea, più marcatamente fantasy rispetto a quello dell’Ecumene, che tuttavia la scrittrice compone in parallelo rispetto a questo. Il Ciclo di Terramare (così in traduzione italiana) consta di cinque romanzi, pubblicati tra il 1968 e il 2001 e sette racconti, apparsi tra il 1964 e il 2001 (suggestiva, anche se non risolta, la trasposizione cinematografica di Goro Miyazaki, del 2006, che non piacque a Le Guin): la parte cospicua di entrambi i cicli data però agli anni Sessanta e Settanta. Negli anni Ottanta Ursula si dedica ad altri progetti, tra cui si segnala la monumentale impresa di Always Coming Home, data alle stampe nel 1985 (traduzione italiana Sempre la Valle, dell’anno successivo), un esperimento antropologico di creazione ex novo di una civiltà matriarcale, quella dei Kesh, che in un futuro lontano dimora nella Napa Valley, California, e che ha lingua, cultura, arte, musica, tradizioni, miti e riti propri. Intensa anche l’attività negli anni Novanta, fino ai primi anni Duemila, quando progressivamente la scrittura si fa più rarefatta.

Ursula tiene il discorso di accettazione del National Book Award
il 24 novembre 2014 a New York (The Guardian)

Dopo aver vinto, in sezioni diverse, sei Hugo Award e altrettanti Nebula Award (nonché numerosi altri riconoscimenti prestigiosi), il 24 novembre 2014, a New York, Le Guin riceve il National Book Award, che in un discorso memorabile dichiara di accettare e condividere «con tutti quegli scrittori che sono stati esclusi dalla letteratura così a lungo, i miei colleghi autori di fantasy e fantascienza, scrittori dell’immaginazione, che per cinquant’anni hanno visto questi bei premi andare ai cosiddetti “realisti”». E prosegue, lucida e profetica: «Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora, capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall’ossessione tecnologica, altri modi di essere, e immaginare persino nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande». Scrittori e scrittrici di fantascienza.

Disegno di Ursula Le Guin a corredo della nota autobiografica da lei stessa scritta in italiano
per la rivista Robot (n. 23 del febbraio 1978)

Ursula Le Guin muore a Portland il 22 gennaio 2018. In una deliziosa nota autobiografica che scrive in italiano per la rivista Robot (che sul numero 23 del febbraio 1978 ne pubblica un racconto) si legge: «Questa è la verità: non ho biografia. Sono scrittore. Gli scrittori scrivono», e conclude: «Nella prossima vita spero essere rinata come gattina in una casa di Venezia. Pescherò nei rii; canterò sui tetti».

In copertina: © Gino Andrea Carosini, Ursula Le Guin anziana.

***

Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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