Il testo che sto per andare a esporvi è un capillare esploso. Un capillare esploso dentro al vasto e complicato sistema di affetti, pratiche, desideri, fantasmi e produzioni della cosiddetta seconda ondata femminista negli Stati Uniti. I pezzettini di questo capillare rotto diventano schegge vive che riecheggiano anche nel nostro contesto italiano. Parlano di soggettività in parte intrappolate all’incrocio di più identità, profondamente marcate fino a diventare dei punti neri che tuttavia sono invisibili o, forse peggio, esposti come trofei. Lavoratrici nel settore della cura, migranti, studiose. Sturano i cessi della stazione o ti permettono di essere libera e perseguire carriere sfavillanti (che indubbiamente incontrano altri ostacoli, altri livelli di potere), correggono bozze, protestano e resistono. Ma soprattutto, navigano spazi liminali, spazi della società che sono ibridi, esponendo diverse vulnerabilità e tessendo numerosi rapporti, comunità. E non sono una. Sono molte donne, diverse, accomunate dal doversi confrontare con forme di egemonia a volte sottili quanto uno sguardo e a volte brutali quanto uno sputo, un naso che si arriccia, una spinta.
Il capillare esploso rappresenta quello che è successo a molte donne non-bianche all’interno di collettivi, ritiri, riunioni femministe. Esclusione, gerarchizzazione delle cause, proiezione del senso di colpa, o pura e semplice ignoranza. Ma Gloria Anzaldua va ben oltre questa denuncia che è effettivamente una partenza. Militante dei movimenti contro la guerra e contro l’imperialismo, parte della Nuova Sinistra degli anni ‘60 e ‘70, Anzaldua si ritrova con altre compagne non-bianche e proletarie a raccogliere testimonianza e a pensare altrimenti, a comprendere meglio la propria condizione, a fare bilanci dei due decenni passati e allo stesso tempo a fare proposte, a rilanciare nuove forme di femminismo. La pubblicazione di The Bridge is called my Back, al cui interno si trova la Lettera alle Donne del Terzo Mondo che andremo a esplorare, risale difatti al 1981, alla fine di un’era e all’inizio della nostra contemporaneità neoliberale
La natura eterogenea di questa lettera, che mischia poesia, prosa epistolare, pezzi di diario, riflessioni teoriche, mi sembra comprimere da un lato il magma di cause da cui si produrrà il discorso del femminismo decoloniale, dall’altro una delle linee di continuità, di storie personali e collettive, che compongono il complesso e storico insieme di lotte che va dalle rivolte anticoloniali (in parte raccolte e raccontate da Stella Dadzie in A Kick in the Belly, libro di cui parleremo nei prossimi articoli) alle soggettività razzializzate che protestano tutt’oggi nel mondo occidentale.
La lettera, che in realtà si rivela discorso — un discorso muto, scritto alle generazioni passate, presenti e future — segue frammenti di vita e li connette nel suo confronto con il mondo, con l’occhio della società e l’occhio dell’interiorità. Il posto del suo corpo apre la lettera, ma in maniera indiretta. Anzaldua cerca innanzitutto di immaginare il proprio pubblico: la donna nera che si riflette sulla propria scrivania in un appartamento a New York, la donna chicana che prova a scrivere sul portico della propria casa in Texas, la donna indiana schiacciata tra vari lavori che prova a buttare giù due righe negli interstizi di tempo libero. Ripensa a tutte le donne non bianche compresse dai ruoli e dai lavori, mariti, amanti, ex-amanti, figli e figlie, che coltivano la scrittura.
Di fronte a questa massa ben distinta di sorelle, il primo afflato della scrittura si manifesta in forma di poesia.
«I lack imagination you say
No. I lack language.
The language to clarify
my resistance to the literate.
Words are a war to me.
They threaten my family.
To gain the word
to describe the loss
I risk losing everything.
I may create a monster
the word’s length and
body swelling up colorful and thrilling
looming over my mother, characterized.
Her voice in the distance
unintelligible illiterate.
These are the monster’s words»
Si stiracchia verso altre forme e giunge infine alla lettera, cominciando dai vuoti, dalle impossibilità di una vita. La lingua di origine negata, nel caso di Anzaldua lo spagnolo, la degradazione e il senso di impotenza impressi a forza dalla scuola e l’interiorizzazione di un complesso di inferiorità radicale. La scrittura sembra risultare un districarsi da questa impotenza inscritta nel corpo e nella mente, inizialmente una risposta alle spinte assimilatrici delle figure di prestigio, ovvero ad abbandonare completamente le proprie caratteristiche, per sbiancare la pelle, la lingua, le abitudini. L’ottenimento di status di scrittrice e letterata, ad esempio, a costo di perdere le proprie storie, la propria comunità. E d’altro canto, a fianco a questo scambio, Anzaldua individua dietro la costante degradazione e razzializzazione a cui è sottoposta grandi paure, sistemiche, che necessitano di rinchiudere le donne non bianche in stereotipi mansueti. La scrittura diventa quindi in primo luogo riscrittura, rivolta contro i segni incisi sulla carne, gli spazi non concessi. Eppure, nella ribellione Anzaldua riconosce i rischi di svendersi una volta raggiunta la fama, ovvero i rischi di divenire influenti e quindi essere integrati al discorso dominante, normalizzati e depotenziati. E ancora peggio, il pericolo di venire tokenizzati, ossia utilizzati come simbolo di un’emancipazione non ancora avvenuta integralmente, diventare la merce da esporre per provare un egalitarismo inesistente. Perciò Anzaldua insiste sul porre collettivamente come prima priorità i linguaggi e le rappresentazioni delle donne del Terzo Mondo.
La lettera torna costantemente alla domanda: cosa mi spinge a scrivere? E le risposte, inizialmente sparse, si coagulano verso la fine in una cascata di necessità: scrivere per non cadere nella condiscendenza, scrivere perché non c’è altra scelta, scrivere per rivoltarsi, scrivere per paura, scrivere per sconfiggere la paura, scrivere per scoprire sé stesse, distruggere i miti e declamare il non-menzionabile, l’indicibile. E se in un primo momento Anzaldua le sviluppa implicitamente come giustificazioni, dopo la cascata di risposte approfondisce il proprio movimento auto-riflessivo e rigetta la necessità di giustificarsi perché altrimenti in fondo a quel tumulo di giustificazioni dovrebbe spiegare che diritto ha a vivere.
Infine, la forza della scrittura viene identificata proprio nella sua continuità con la vita, nel suo mescolamento incessante che lega le scrittrici, le compagne e le militanti, permette di farle sopravvivere e allo stesso tempo esplora i misteri dell’alterità, impiantata a forza nel cuore dei non-bianchi, dei colonizzati.
Proprio le storie personali riempiono di senso gli orizzonti di ricostruzione della realtà sociale presenti nella militanza femminista, mentre all’esatto opposto esiste il rischio di universalizzare dei punti di vista particolari oppure portare avanti posizioni astratte che servono più allo status quo che alle condizioni materiali delle donne marginalizzate. Ed è questa l’esortazione finale — dopo aver attraversato pezzi di diario, poesie, tranci di testo non classificabile — di scrivere nella maniera più polimorfa possibile. La potenza di questo ultimo pezzo è talmente forte che la devo far affiorare direttamente in questo umile articolo e la traduco qui, all’impronta:
«Scrivi con i tuoi occhi come una pittrice, con le tue orecchie come una musicista, con i tuoi piedi come una ballerina. Tu sei colei che dice la verità con il calamaio e la fiaccola. Scrivi con le tue lingue di fuoco. Non permettere alla penna di bandirti da te stessa. Non permettere all’inchiostro di coagularsi nella tua penna. Non permettere al censore di spegnerti la scintilla, né al bavaglio di soffocare la tua voce. Metti la tua merda (viscere?) sulla carta».

Testo rielaborato a partire dal saggio Speaking in Tongues: A Letter to Third World Women Writers di Gloria Anzaldúa, parte del volume di scritti This Bridge Called my Back, writings by radical women of color (1983), 2002, curato da Cherríe L. Moraga e Gloria Anzaldúa, Third Women Press.
Gloria Anzaldúa (1942-2004), scrittrice, poeta e militante statunitense, discendente di coloni spagnoli e originaria del Texas. Ha prodotto numerosi contributi nel campo della teoria femminista, della teoria culturale chicana e della teoria queer, sia in forma di prosa che di poesia, concentrandosi sul concetto di frontiera come spazio geografico, culturale e spirituale. In Italia sono disponibili in traduzione le seguenti opere: La donna fantasma (Mondadori, 1999), Terre di confine=La frontera (Palomar, 2000) e Senza riserve: geografie del contatto (Progredit, 2013).
In copertina: Gloria Anzualdua.
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Articolo di Riccardo Vallarano

Attualmente studente di Gender Studies all’Università Ucl di Londra, si è laureato all’Università La Sapienza di Roma in Storia moderna e contemporanea. Adora la lettura più della scrittura. È attivo in più campi della cultura ma continua a restare nelle retrovie. Indubbiamente interessato al mondo che verrà.