Libertà di parola, hate speech e DDL Zan

Un argomento di attualità, legato soprattutto ai social ma non solo, l’hate speech, viene discusso nell’ambito di un tema squisitamente filosofico quale la libertà di esprimere le proprie opinioni, durante un incontro online con la filosofa Michela Marzano, invitata da Bergamo News per «definire il con-fine tra libertà di espressione e istigazione all’odio». Lucia Cappelluzzo è la giornalista della testata che dialoga con la filosofa, introdotta da Mariella Cesareni, presidente dell’associazione di promozione sociale Politeia, nata a Bergamo nel 2009 al fine di incrementare la presenza delle donne in politica, nell’ottica di un’etica di genere.
Michela Marzano, autrice di molti saggi con un’attenzione particolare alle tematiche delle donne e dei diritti civili, al momento è docente di filosofia morale all’Università di Parigi René Descartes, ha diretto il Dipartimento di Scienze sociali alla Sorbona ed è stata parlamentare italiana nella scorsa legislatura. Dopo l’esperienza parlamentare è tornata all’insegnamento universitario, continuando però a collaborare come editorialista con Repubblica e la Stampa.

La prima richiesta che le viene posta è di ricostruire da un punto di vista storico-filosofico il concetto di libertà di opinione, per indagarne poi il significato attuale nel mondo web. La risposta parte col dire che noi viviamo in una democrazia, in una repubblica dove c’è la salvaguardia della libertà di esprimersi, di pensare, e questa è una conquista che si deve sempre tenere ben presente ricordando l’impossibilità, per i nostri nonni, di potersi esprimere liberamente solo settantasei anni fa, quando vivevano sotto una dittatura. Naturalmente libertà di parola non significa poter dire qualunque cosa, nel senso che il linguaggio, proprio dal punto di vista filosofico, ha una caratteristica che è la performatività: ossia quando noi parliamo non stiamo solo parlando, ma agiamo! Esemplifica così Marzano: «Se io descrivo la stanza in cui mi trovo, il mio atto è descrittivo; se dico “io prometto di fare una cosa” non sto solo enunciando qualcosa, ma mi sto impegnando. Gli atti linguistici sono molti e diversi tra loro e fra questi c’è anche l’offesa, l’insulto, l’hate speech: il linguaggio dell’odio. Quando si utilizza questo linguaggio l’intento non è quello di esprimere un’opinione, ma di far male alla persona che abbiamo di fronte, di metterla a tacere: che cosa si può rispondere a un insulto? Come uno schiaffo è un atto di violenza fisica, un insulto è un atto di violenza linguistica e occorre non confondere ciò che è discussione e confronto, anche di visioni valoriali diverse, con ciò che è un’offesa personale e non è la manifestazione di un’idea, ma la negazione stessa del dialogo.

La giornalista chiede a questo punto come ci si deve comportare in una situazione in cui si riceve un insulto: è meglio far finta di niente, lasciar cadere l’insulto o controbattere? Marzano risponde che siccome la caratteristica dell’insulto è quella di paralizzare, di voler far paura, la reazione più consona è quella di proteggersi e di allontanarsi, anche perché spesso l’insulto verbale è il primo passo prima di arrivare alla violenza fisica. Ecco perché quando si parla di violenza contro le donne si cerca proprio di sensibilizzare al fatto che prima arrivano gli insulti, le degradazioni, le umiliazioni e poi si arriva all’aggressione fisica. Quando si hanno gli strumenti giuridici per farlo, è opportuno sporgere denuncia e il Disegno di Legge Zan va proprio in questa direzione, del dare da un punto di vista legale delle sicurezze e degli strumenti difensivi per combattere gli atti di aggressione o di marginalizzazione fisica, simbolica e linguistica. Avere, quindi, la possibilità di sporgere denuncia nel momento in cui si viene insultate perché donne, insultati/e perché omosessuali o perché trans.
Avere uno strumento giuridico per contrastare gli insulti e le violenze è necessario ma non sufficiente; pensiamo alla convenzione di Istanbul fatta propria anche dal Parlamento italiano, per cercare di costruire una strategia basata sulle cosiddette 3P punire-proteggere-prevenire: si puniscono i colpevoli, si proteggono le vittime, ma soprattutto si previene. E anche nel DDL Zan c’è tutta una parte importante consacrata proprio alla prevenzione, soprattutto volta all’educazione nelle scuole, perché il rispetto, che è l’esatto opposto rispetto alla violenza, è qualcosa che si insegna, sia attraverso la spiegazione di ciò che è l’essere umano, del riconoscimento del valore che ogni essere umano ha e è che lo stesso per tutte e per tutti indipendentemente dalle differenze di sesso, di genere e di orientamento sessuale, sia poi mostrandolo con il proprio esempio. Purtroppo è proprio rispetto all’educazione, sottolinea Marzano, che è sorta un’assurda polemica sull’espressione “identità di genere” da un lato e sul “gender”, per l’ennesima volta, dall’altro. Concetti necessari che vanno colti nel loro giusto significato, perché noi non siamo soltanto corpo, genetica, biologia, non siamo solo sesso, ma siamo anche ciò che da subito percepiamo di noi stesse/i come appartenenti al genere femminile o al genere maschile, sviluppando quindi identità di genere, e rispetto al gender, non è certo insegnare a bambini e bambine a diventare qualunque cosa, ma educare al rispetto dell’identità altrui e contrastare l’omofobia, la transfobia, la misoginia o l’abilismo. È questa educazione al rispetto di tutti e di tutte che fa venir meno la necessità di passare attraverso gli insulti, così diffusi oggi molto probabilmente perché si è persa la capacità logico-argomentativa, la capacità di dialogare, e quando non si riescono a trovare le parole giuste per esprimere la propria opinione, per nominare le mille sfumature dell’esistente, allora si ricorre all’insulto.

A questo punto la domanda è se i social abbiano peggiorato questa situazione, dando alla comunicazione una nuova valvola di sfogo veloce, dato che non si può scrivere troppo sui social e forse l’insulto diventa nell’immediato ciò che dà il senso di ciò che si vuole esprimere, prendendo il posto del dialogo e di quella che potrebbe anche essere una giusta polemica. Rispondendo, Michela Marzano afferma che in realtà dipende dall’utilizzo che si fa dei social, che in quanto strumenti non sono responsabili dell’uso corretto o improprio che se ne fa. Facebook, Twitter, Instagram… sono efficaci strumenti di comunicazione, così come le varie piattaforme che è bene utilizzare nella didattica, proprio per permettere a ragazzi e ragazze di interagire anche con quei mezzi tecnologici che fanno parte della loro quotidianità e che possono essere utilizzati anche per discutere e per dialogare, anzi l’importante è educare a utilizzarli in questo modo. Sono mezzi ricchissimi di possibilità, ci possono essere i commenti scritti ma anche la possibilità di interventi vocali, con invio di immagini e molto altro. Quindi non è il fatto che ci siano a disposizione poche parole a far cadere nell’hate speech, anzi, è bene insegnare anche la sinteticità; esprimere il proprio pensiero in poche battute è fondamentale per esempio nel giornalismo dove spesso c’è un numero limitato di battute a disposizione e talvolta meno sono le battute più il pezzo è intenso, perché bisogna andare immediatamente al punto. Certo i social possono anche essere utilizzati come “vomitatoi”, come luoghi in cui si scarica aggressivamente un proprio malcontento, però il problema non sono i social, ma la presenza della frustrazione e l’assenza di strumenti per rielaborare un’insoddisfazione, che immancabilmente proveremo tutte e tutti prima o poi, perché fa parte dell’esistenza. Importante è imparare a riconoscere le proprie emozioni, ad attraversarle e a rielaborarle per convivere anche con ciò che fa male, ed è così che si riescono a trovare le parole per esprimere ciò che si prova in altro modo rispetto al vomitare insulti addosso a chi si ritiene, spesso a torto, di essere colpevole del nostro disagio. Molto probabilmente coloro che utilizzano i social per insultare, lo farebbero anche indipendentemente dai social, anche se effettivamente un’educazione al rispetto delle opinioni altrui nell’utilizzo dei mezzi tecnologici è fondamentale, a partire dall’infanzia, per avere poi persone adulte che sappiano affrontare i problemi con l’argomentazione.

Spesso, proprio sui social, di fronte ad argomenti “caldi” di tipo politico o anche di cronaca, il primo commento d’odio dà poi il via a una cascata di risposte simili, sempre più accese, e quello su cui si è spesso interrogata Lucia Cappelluzzo, ricordando anche la propria esperienza di giornalista su facebook, è se il bloccare tali commenti possa essere inteso come una limitazione alla libertà di espressione e di opinione. Michela Marzano risponde dicendo che il messaggio che deve passare chiaro in tutte le piattaforme è che tutto è dicibile con massima libertà, nel momento però in cui ci si esprime attraverso un linguaggio che permetta il dialogo; quindi bloccare i messaggi d’odio non è limitare la libertà di espressione ma, in quello che è un mezzo di comunicazione, ha il significato di escludere ciò che è hate speech, insulto, perché è la negazione della comunicazione, non comunica nulla e non permette l’argomentazione: è l’assenza della libertà. Se la regola è la libertà, occorre bloccare chi lancia insulti perché è una persona che, non facendo il minimo sforzo per spiegare la propria posizione con parole argomentate, restringe la libertà altrui, impedendo il dialogo.

Ovviamente impossibile riprodurre nelle battute qui a disposizione tutta la ricchezza degli esempi e dei casi di vita riportati da Michela Marzano nel suo bell’intervento, per cui rimando a questo link, per chi volesse ascoltare tutta l’interessante intervista: https://www.facebook.com/Bergamonews/videos/324997525785325

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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, coordina il gruppo diade e tiene corsi di aggiornamento per docenti, in particolare sui temi delle politiche di genere. È referente provinciale per Lodi dell’associazione Toponomastica femminile. Collabora con con Se non ora quando? SNOQ Lodi e con IFE Iniziativa Femminista Europea. È stata Consigliera di Parità provinciale dal 2001 al 2009 e docente di filosofia e scienze umane sino al settembre 2020.

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