Questa volta sono riuscita a leggere fino in fondo Lasciami andare, madre di Helga Schneider uscito in Italia per Adelphi la prima volta nel 2004. Per il suo contenuto doloroso lo avevo interrotto alle prime pagine, più volte, in attesa del momento giusto. Il libro parla di un amore filiale. La madre di Helga è stata impegnativa ma lei non ha mai smesso di cercarla. È un’autobiografia che parla di un incontro che avviene in una grigia giornata a Vienna. La protagonista Helga Schneider parte dall’Italia, dove risiede dal 1963, sollecitata da una lettera che le è stata inviata da Gisella Freihorst, amica della madre. In un Seniornheim, una casa di riposo per anziani, risiede sua madre ormai novantenne. È ancora viva ma molto malata. L’accompagna in questo viaggio sua cugina Eva. Nel 1941 ha lasciato i suoi figli per lavorare come guardiana nei campi di concentramento e di sterminio. Helga allora aveva solo quattro anni e Peter, suo fratello, appena diciotto mesi. La loro separazione è durata cinquantasette anni. Una vita intera, possiamo dire, ma con il pensiero sempre presente a quella mancanza. L’incontro avviene all’interno della residenza per anziani. La protagonista cerca in questo confronto rimandato e rifiutato per molto tempo, gli strumenti interiori per continuare a vivere. Forse la verità, la cruda verità di quello che succedeva ad Auschwitz o a Birkenau potrà aiutarla a odiare quella madre non madre e a liberarsi definitivamente del passato.
Che cosa spinge Helga veramente, dopo tanto tempo, ad accettare questo appuntamento? Non può solo essere curiosità o dovere di figlia. Forse cerca o si aspetta qualcosa. Qualcosa che l’aiuti a capire, ad accettare e infine a perdonare. Ma un pensiero terribile le passa per la mente. «Dentro di me, nei miei geni c’è qualcosa di lei?» Una forza interiore la spinge a procedere.
Il dialogo tra le due donne è terribilmente faticoso. Vuole sapere o non vuole sapere? C’è una tensione forte, Helga potrebbe mollare, andare via e rimanere con le proprie certezze. Ma poi rimane. «Lo sai che a Birkenau leggevo Kant? Il mondo non ci capiva e tutti alla fine hanno contribuito ad annientarci». Il racconto è sempre più agghiacciante. Non aiuta certo a procedere verso il perdono. Rimane una corda tesa tra le due donne, un filo di speranza anche. È un viaggio nell’orrore dell’Olocausto ma anche nell’anima umana.
Allora torna alla memoria Hanna Arendt. «Eichmann non era un aguzzino sanguinario, né un esaltato devoto alla causa hitleriana, ma un uomo qualunque». Le parole di Hanna Arendt ci possono aiutare a comprendere la testimonianza di questa madre, ex S.S. ancora fermamente convinta di essere stata dalla parte giusta della Storia? Possono aiutare le lettrici e i lettori a non chiudere il libro, forse a rimanere fino alla fine.
Le parole della madre sono terribili. Ha fatto quello che andava fatto, che le dicevano di fare. Come lei tanti tedeschi hanno eseguito delle indicazioni. Sempre Hanna Arendt ci viene in aiuto. Usa una metafora alla portata di tutti per sottolineare la mancanza di assunzione di responsabilità del mondo intero. Per fare una frittata, bisogna rompere le uova. Molti hanno fatto finta di niente. Si sono sottratti a quello che accadeva, hanno messo la testa sotto la sabbia. Cosa è avvenuto allora? Dice Arendt: «Un orrore senza voce di fronte a ciò che l’essere umano può fare e il mondo può diventare. È mancato il coinvolgimento, bisognava schierarsi!»
In qualche modo la colpevolezza di questa donna va condivisa con la mancanza di coinvolgimento di chi doveva e poteva intervenire, fare qualcosa. La madre di Helga è una persona convinta e irremovibile, adesso come allora ma non l’unica responsabile, vittima lei stessa di questa tragedia umana. Anche se tormentata da un dolore antico, la protagonista procede nella relazione. Non può più andarsene ormai, non solo perché la madre la vuole accanto a sé ma anche perché ormai non può più tornare indietro. Tutto il suo passato preme per sapere. Il suo futuro forse per perdonare.
In poche pagine si consuma una relazione concentrata tra madre e figlia, la storia mancata di una madre e di una figlia, una non storia. Helga cerca una carezza materna che non trova, sua madre mantiene le sue convinzioni. Forse vuole farsi odiare per liberarla dai fantasmi del passato? Forse. Ma vince il sentimento. Helga dice: «È mia madre, nonostante tutto è mia madre». Ma come si arriva a perdonare? Forse il bisogno d’amore può spingersi fino all’inverosimile pur di colmare un vuoto.
Quest’opera ricca di contenuti forti e di momenti lirici, è qualcosa tra una pièce teatrale e una seduta psicanalitica. Scava nel profondo per illuminarlo, per purificarlo e farci nascere un fiore. Il dolore è concentrato, non vedi l’ora di arrivare alla fine del tunnel e rivedere la luce. Ma insieme è anche una narrazione positiva. Uscire dalla rimozione, dare parole al dolore vuol dire accettare il passato e andare avanti.
In copertina: Helga Schneider.

Helga Schneider
Lasciami andare, madre
Edizioni Adelphi, Milano, 2004
pp. 132
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Articolo di Luciana Marinari

Insegnante di scuola primaria per quasi quarant’anni, ha conseguito nel 2010 il Master Insegnare italiano agli stranieri presso la facoltà di Lingue di Urbino. Studiosa del pensiero della differenza, ha frequentato seminari di lettura e scrittura con Gabriella Fiori, studiosa di Simone Weil. Relatrice a incontri culturali sul tema della differenza, ha pubblicato articoli su riviste specializzate. Insegna italiano per stranieri presso il comune di Senigallia (AN) dove risiede.