Il G8 di Genova segna uno spartiacque epocale nei vissuti individuali e collettivi.
Le cariche violentissime nel strade, i pestaggi della scuola Diaz, le torture praticate a Bolzaneto, lo spettro degli omicidi di piazza che torna a incombere sull’Italia sono fatti sconvolgenti per chiunque li abbia subiti o vi abbia assistito. Vedere compagni con la testa spaccata o scappare dalla carica di un blindato in corsa sono traumi difficilmente cancellabili. L’obiettivo non era difendere la zona rossa ma terrorizzare un’intera generazione. L’accanimento degli agenti a Bolzaneto e la loro violenza, morale oltre che fisica, serve esattamente a lasciare un segno nel vissuto individuale e far sì che le persone coinvolte non tornino a manifestare. Strappare capelli e piercing, minacciare di violenza sessuale una ragazza immersa nei propri escrementi, sodomizzare un ragazzo con il manganello o fargli bere la propria urina sono gesti che lasciano, nel corpo e nella mente delle vittime, segni ben più duraturi del livido procurato da una manganellata.

Foto di Andrea Zennaro
Per l’intera generazione di Genova (chi nel 2001 aveva vent’anni o poco più), il G8 è stata l’ultima esperienza politica. A morire a Genova è stato il movimento, tutto. Le sue idee, le sue speranze, le sue modalità. Davanti alle armi chimiche, la disobbedienza civile in stile Tute Bianche diventa pressoché inutile. Chi ha perso tra le fiamme un’automobile o la vetrina del proprio negozio finirà per odiare l’intera categoria dei manifestanti, anche se prima votava a sinistra. Con la confusione, diffusa dai media, tra manifestanti pacifici, disobbedienti, e membri del Black bloc, il movimento perde tutto il consenso di cui godeva prima di Genova; ciò fa sì che la repressione sia considerata normale e approvata dall’opinione pubblica.
Molte persone sono rimaste talmente traumatizzate da non parlare più di quanto accaduto. Un tale trauma collettivo fa sì che chi ha consapevolezza dei fatti di quei giorni non considererà mai più la polizia come un’entità di cui fidarsi o da cui sentirsi protetto, né lo Stato come un qualcosa di democratico o di cui sentirsi parte. La rottura a questo punto è totale, reciproca e insanabile.

Foto di Andrea Zennaro
In questo senso si può dire che l’esperienza genovese abbia costituito una scuola anche per lo Stato e le sue istituzioni: nella vicenda del G8, le forze armate, i media e la magistratura, fatte salve poche eccezioni di giornalisti indipendenti e giuristi democratici, hanno lavorato unite nel preparare la repressione e legittimarla, compierla e poi giustificarla, processando chi ha sfasciato delle vetrine e non chi ha assassinato un ragazzo e dando risalto solo al lato violento del movimento. Dopo Genova, il fronte polizia-media-magistratura ha continuato a lavorare insieme, e la Val di Susa ne è stata un esempio. La creazione della “zona rossa”, nuova in quegli anni, è stata usata per sospendere i diritti democratici.
Anche la gestione dell’epidemia in corso nell’ultimo anno, secondo qualcuno, ha seguito una sorta di “modello Genova”: l’emergenza è stata affrontata tagliando in modo significativo i servizi pubblici a vantaggio delle spese militari e delle “grandi opere”, senza ammettere le responsabilità politiche dei tagli alla sanità, utilizzando una comunicazione ambigua e inefficace.

Foto di Andrea Zennaro
Un mese prima del G8, le armi da fuoco contro i No Global sono state usate anche a Göteborg, in Svezia, cosa insolita per una socialdemocrazia scandinava: le forze dell’ordine italiane sono sempre state notoriamente più problematiche di quelle nordeuropee, ma la repressione del “Popolo di Seattle”, evidentemente, non era una questione esclusivamente italiana.
Mentre polizia e carabinieri insanguinavano la città ligure, all’interno del Palazzo Ducale non veniva deciso assolutamente nulla di rilevante, non una parola sull’Aids, sul debito pubblico dei Paesi del terzo mondo da ridimensionare, sulla crisi economica argentina in corso, su quella climatica né sul Protocollo di Kyoto (che, già allora, gli Stati Uniti e la Cina non stavano rispettando). Sembra che il G8 sia stato una trappola per topi, un invito per far confluire un movimento troppo grande e fastidioso e poi annientarlo dopo aver preparato l’opinione pubblica. Con il Popolo di Seattle ancora forte, invadere prima l’Afghanistan (ottobre 2001) e poi l’Iraq (settembre 2003) sarebbe stato deleterio in termini di consensi per i governi occidentali. E il compito di sbarazzarsene è toccato all’Italia, la cui polizia è tanto inefficiente da far passare un massacro premeditato per una serie di incidenti. Ma come si può sostenere che un morto non fosse previsto, se di bare ne erano state preparate duecento?
A livello nazionale, durante la cosiddetta “prima repubblica”, uno sciopero generale o una manifestazione oceanica avevano la forza di imporre la propria voce e a volte addirittura di far cadere un governo. Un esempio si è verificato proprio a Genova il 30 giugno del 1960, quando l’insurrezione dei camalli (gli operai portuali) ha impedito il congresso del partito neofascista e fatto cadere il governo Tambroni. Dopo il 2001, la voce delle piazze diventa totalmente irrilevante. Reprimere duramente una manifestazione è considerato normale, sia per il governo sia per l’opinione pubblica (ne abbiamo avuto esempi in Val di Susa e a Roma nel 2010 e nel 2011…) e, anche in assenza di una brutale repressione, l’esecutivo non si considera più in dovere di ascoltare la popolazione e le cosiddette parti sociali. Un coro da stadio contro la polizia è considerato sufficiente a legittimare una carica.

Foto di Andrea Zennaro
La narrazione mediatica dell’omicidio di piazza Alimonda ha sconvolto anche il concetto di violenza. Cos’è la violenza? E cos’è la difesa, e quando è legittima? Qual è stata la vera violenza e quale la vera difesa in quella giornata? È più violento rompere una vetrina o rompere una testa? Perché, anche a vent’anni di distanza, diamo più peso a un estintore o a una trave di legno che a un’arma da fuoco? Eppure ci è chiarissimo quale arnese sia il più pericoloso tra i due. Perché, davanti a un omicidio (come davanti a un femminicidio) diamo più rilievo al comportamento della vittima che a quello dell’aggressore? Chi ha conosciuto Carlo Giuliani sa bene che il suo carattere era pacifico e che la sua non è stata altro che la reazione davanti all’ennesima grave violenza a cui assisteva. Ma, anche se così non fosse stato, come può il suo gesto pesare più delle ore e ore di caroselli e armi chimiche che hanno condotto alla tragedia?

La Repubblica democratica nata dalla Resistenza dovrebbe sempre tenere a mente che la “violenza” è quella di chi impone e la “resistenza” è di chi si oppone. Che la difesa, per essere legittima, deve essere proporzionata all’attacco. Tra puntare una pistola e reagire raccogliendo da terra il primo oggetto che capita, qual è la violenza e quale la difesa?
Queste domande etiche e morali si affidano alla coscienza di ogni persona. A quelle militari e giuridiche avrebbe dovuto rispondere un processo che non si è mai tenuto.
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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.