La donna etrusca

L’enigmatico popolo etrusco, stanziato nell’attuale Toscana da dove si espande poi in quasi tutta l’Italia centrale, dà vita a una grande civiltà fra l’VIII e il III secolo prima di Cristo, allorché viene sottomesso dai Romani.

Interessanti sono molti aspetti del suo modo di vivere e di pensare. Uno dei più affascinanti, che ci fa particolarmente amare quella misteriosa civiltà, è la felice condizione femminile.

La donna etrusca è la più libera, indipendente, emancipata e moderna di tutto il mondo antico: raffinata, elegante, autonoma, tutt’altro che sottomessa all’uomo, un unicum che cozza violentemente contro lo standard millenario della creatura docile alla volontà maschile. L’universo femminile etrusco si apre ai nostri occhi con la sua sconvolgente attualità che annulla oltre duemila anni di storia. Una modernità e un’emancipazione che fa gridare allo scandalo non pochi scrittori del tempo, ma che invece ci fa sentire le donne dell’antica Etruria straordinariamente vicine e vive. E mai come in questo caso è importante parlarne al presente.

«Le donne etrusche sapevano essere custodi del focolare, ma allo stesso tempo erano in grado di tenere a bada la folla di servi e domestici. Semplicemente, a differenza di Penelope e Andromaca, esse non si accontentavano di attendere pazientemente a casa il ritorno degli sposi, ma prendevano legittimamente parte a tutti i piaceri della vita», scrive lo storico francese Jean-Paul Thuillier.

È un processo di emancipazione che inizia molto presto fin dal VI secolo a.C. e va avanti fino al IV sec., quando, con l’avanzata del potere di Roma, i costumi etruschi cominciano a subirne pesantemente l’influenza, e quindi, via via che si assimilano gli usi e costumi dell’Urbe, la condizione femminile conosce una fase di regresso rispetto alle conquiste precedenti.

La donna etrusca esce dalle mura domestiche, rompendo il cliché della casalinga, buona moglie e buona madre, angelo del focolare, segnando di fatto la prima tappa dell’emancipazione, molto in anticipo rispetto alle contemporanee di altri popoli. Emancipazione si sposa con l’idea di libertà e di partecipazione alla vita pubblica e sociale nonché con il godimento di diritti pari a quelli degli uomini.

Figura di giovane donna in terracotta,
fine IV-inizi III secolo a.C.

Questo rapido processo di affrancamento dalla soggezione maschile si riscontra dapprima in Umbria, in Toscana e nel Lazio per espandersi poi a tutte le aree che cadono sotto il dominio etrusco.

Come testimoniano le fonti letterarie di autori romani, le nobili partecipano ai banchetti, affiancano il marito nell’accogliere gli invitati, bevono e mangiano fianco a fianco con gli uomini e nessuno se ne meraviglia, è un fatto assolutamente normale laddove presso Greci e Romani è disdicevole e sconveniente per una donna partecipare ai conviti, ai quali sono ammesse solo le cortigiane.

Le signore delle classi elevate prendono parte agli spettacoli pubblici, alle feste profane o religiose, alle danze, e assistono perfino a gare sportive.

Negli affreschi della tomba delle Bighe (in foto), conservata nel Museum of Fine Arts di Boston, nelle tribune del pubblico che assiste alle competizioni, oltre a donne d’ogni età, si vede anche una giovane che abbraccia l’uomo che le è seduto vicino. Una scena di sbalorditiva modernità che riporta ai nostri giorni. Nella tribuna raffigurata sulla parete destra, in particolare, una matrona con velo (forse una sacerdotessa) è rappresentata in prima fila e due ragazze, più dietro, assistono ai giochi sedute in mezzo agli uomini. La matrona con un gesto solenne sembra dare inizio alla gara delle bighe.

Essendo libere di muoversi e di andare dove vogliono senza dover chiedere nessuna autorizzazione, le donne gestiscono in proprio anche le attività commerciali. Lo testimoniano le iscrizioni di proprietà ritrovate su alcuni vasi destinati alla conservazione di prodotti alimentari.

Tomba delle Bighe, Museum of Fine Arts di Boston

Su una pisside di ceramica risalente al 630 a.C. circa, conservata al Louvre, c’è la scritta “Kusnailise”, che vuol dire “nella bottega di Kusnai” e Kusnai è un tipico nome femminile etrusco. È la prova che la proprietaria della bottega è una donna che firma l’oggetto che vende. Su un vaso da Capua (V secolo a.C.) è scritto “mi culixna v(e)lthura(s) venelus”, cioè “io (sono) il vaso di Velthura Venel”.

La donna continua a portare il proprio patronimico o il proprio nome anche da sposata. Su un sarcofago da Tarquinia si legge “Larthi Spantui, figlia di Larc Spantu, moglie di Arnth Partunu”. Ed è libera di disporre di un proprio bene: una fibula d’oro del 650 a.C. reca l’iscrizione “mi velarunas atia” (“io sono della madre di Velaruna”).

Un’epigrafe su un sepolcro da Tarquinia del IV-III secolo a.C. attesta addirittura una donna ascesa alla carriera della magistratura: “la giudice Ramtha è stata moglie di Larth Spitus, è morta a 72 anni, ha dato alla luce 3 figli”.

I corredi funerari, come quelli ritrovati nella grande area archeologica dell’Ipogeo dei Volumni, sono una fonte incredibile di informazioni sulle abitudini quotidiane delle etrusche. Nelle tombe si trovano molti strumenti per la tessitura e la filatura, classiche attività femminili, diffuse anche fra le donne di rango elevato.

Non ci sono grandi differenze nell’abbigliamento tra i due sessi: tunica e mantello sono i due capi base del vestiario, peraltro elegante nella sua semplicità. La tunica è in tessuto leggero e drappeggiato. Ai piedi stivaletti stringati e appuntiti. Nelle tombe sono stati trovati specchi finemente decorati, gioielli sontuosi, balsami e unguenti, una prova che le donne di alto rango amano vestire bene, con gusto ed eleganza, e dedicano molto tempo alla cura del corpo e dei capelli e alla creazione di elaborate acconciature che cambiano col vento della moda. Ve ne sono rappresentate di vari tipi nei bassorilievi e nelle sculture funerarie.

Specchio etrusco inciso,
fine IV secolo a.C. Parigi, Louvre

Bassine sì (sul metro e 55 circa), ma libere di depilarsi, andare in palestra e stare in mezzo agli uomini, le donne d’Etruria sono fiere dei loro capelli lunghissimi e scuri. Le più remote testimonianze di acconciature mostrano chiome fluenti divise sul davanti in due bande che incorniciano il viso e scendono fin sul petto, mentre all’indietro sono lasciate sciolte in piena libertà a guisa di velo orlato ai margini da due trecce, una per parte, inserite, al di sotto delle spalle, in una sorta di fodero, chiuso da un ornamento e cadente fino a terra. Una statuetta in pietra da Vulci raffigura una signora i cui abbondantissimi capelli, composti in nove trecce, si spandono su tutta la schiena, riuniti all’estremità da un nastro che li stringe. Sul davanti due trecce per parte sfiorano il seno, mentre ciocche artificiosamente inanellate incorniciano la fronte.

Nel celeberrimo Sarcofago degli sposi (Roma, Museo nazionale etrusco di Villa Giulia) lei sfoggia quattro trecce (due per lato) che scendono sul petto. Le donne sposate portano spesso il tutulus, caratteristico copricapo a calotta, fatto di stoffa leggera, fermato con preziose fibule d’oro. In seguito, vengono fuori idee nuove. Le capigliature, armoniosamente avviate all’indietro come nella Grecia classica, sono fermate da un nastro o striscia di stoffa che gira intorno all’occipite. La giovane Velia, una sposa raffigurata in un affresco che decora la Tomba dell’Orco a Tarquinia, sfoggia una ricca collana di ambra, un paio di orecchini a grappolo, e ha i capelli ricci raccolti sulla nuca con una reticella, ornati con una graziosa coroncina di alloro, che dà all’insieme una nota di inconfondibile grazia. Tra gli ornamenti più comuni troviamo diademi e fermagli in oro, bronzo, osso e avorio.

Vélia Spurinna (affresco dalla Tomba dell’Orco)

La presenza nei corredi anche di morsi di cavallo fa pensare che molto probabilmente le donne etrusche viaggiano in carrozza da sole senza essere accompagnate dal marito o dal padre, come invece è prassi consolidata altrove nel mondo antico.

Nella società greca e romana ogni individuo è identificato esclusivamente con il nome del padre (patronimico). Tra gli Etruschi, invece, il nascituro prende i nomi di entrambi i genitori, quindi anche quello della madre.

Le donne romane hanno solo il nome della gens, ovvero della famiglia di appartenenza, ad esempio Tullia, Iulia, Cornelia, e così via: quando ci sono due donne nella stessa famiglia, vengono indicate con i numerali: prima,  secundatertia, o con gli aggettivi maior e minor se sono due. Solo a partire dalla tarda età repubblicana sono indicate con il cognomen (una sorta di soprannome). Le etrusche hanno, invece, un nome proprio che si aggiunge a quello della famiglia, l’equivalente del nostro nome e cognome.

Madre e figlio etruschi, 500-450 a.C.

Le iscrizioni sugli oggetti appartenenti alle figure femminili ci fanno conoscere i nomi più comuni, come Thesathei, Velelia, Anthaia, Thania, Larthia, Tita, Velcha, Nuzinai, Ramutha, Velthura…

Su un recipiente conservato al Museo Gregoriano Etrusco, nei Musei Vaticani, si legge la scritta “mi ramuthas kansinaia”, ovvero “io sono di Ramutha Kansinai”, dove la proprietaria del vaso è dunque identificata con nome e cognome. Le etrusche possiedono pure un certo livello di cultura, sanno leggere e scrivere, cosa molto rara fra le donne del loro tempo in altre aree geografiche e in altri contesti socio-culturali.

Attraverso le testimonianze artistiche, affreschi, reperti, sarcofagi, possiamo ricostruire la personalità e la vita quotidiana della classe femminile nobiliare, mentre non è dato conoscere con certezza la condizione di vita delle donne del popolo.
Le immagini di spose ce le mostrano solitamente sdraiate sul letto conviviale con acconciature ricche e raffinate, spesso di grande effetto e finezza.

Sarcofago di Chiusi, statua in terracotta dipinta, conservata a Karlsruhe

Larthia Seianti, la dama del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, è vestita con una lunga tunica stretta in vita decorata con borchie e porta preziosi gioielli d’oro, un paio di vistosi orecchini a disco e un braccialetto sul bicipite. La fanciulla, una scultura a grandezza naturale, conservata al Metropolitan Museum, veste una tunica aderente che mette in evidenza il seno e porta elaboratissimi e ricchi gioielli con raffigurazioni di divinità.

Tra i passi più celebri sulle donne etrusche figura quello dello storico greco Teopompo di Chio, vissuto nel IV sec. a.C. , il quale giudica con eccessiva severità il comportamento delle donne etrusche: «Le donne etrusche curano molto il loro corpo, spesso fanno ginnastica anche insieme agli uomini, e a volte da sole; non hanno vergogna a mostrarsi nude; stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle da vedere

La danzatrice della Tomba delle Leonesse di Monterozzi

Non è riprovevole per i Tirreni abbandonarsi ad atti sessuali in pubblico o talora circondando i loro letti di paraventi fatti con rami intrecciati, sui quali stendono dei mantelli… I Tirreni allevano tutti i bambini ignorando chi sia il padre di ciascuno di essi; questi ragazzi vivono nello stesso modo di chi li mantiene, passando parte del tempo ubriacandosi e facendo sesso con tutte le donne indistintamente». Sarà del tutto veritiera la descrizione di Teopompo? Qualcuno nutre deidubbi. Aristotele scrive che «gli Etruschi mangiano insieme con le mogli giacendo sotto la stessa coperta». Non c’è niente di malevolo da insinuare.

In nessuna scena di banchetto compaiono donne nude intente a condividere il momento di convivialità con uomini. È vero che nei corredi funerari sono stati ritrovati calici, brocche e quant’altro possa lasciar presagire che le donne, in Etruria (come, del resto, anche in Grecia e a Roma), amassero bere vino. Ma non è detto che si dovessero ubriacare per forza.

Allo stesso modo, non sappiamo fino a che punto credere al commediografo latino Plauto (III-II secolo a.C.), che nella Cistellaria allude, attraverso le parole dello schiavo Lampadione, all’uso diffuso tra le donne etrusche di prostituirsi per procurarsi la dote: «Io ti chiamo per ricondurti tra le ricchezze, e sistemarti in una ricca famiglia, dove avrai da tuo padre ventimila talenti per dote. Perché la dote non la debba fare qui da te, seguendo la moda etrusca, prostituendo vergognosamente il tuo corpo!». Molto probabilmente, però, è diffusa tra le etrusche la prassi della prostituzione sacra, comune pure tra i Fenici e le popolazioni mesopotamiche. Come è risaputo, le prostitute sacre concedono il proprio corpo a uomini di passaggio nel tempio e si fanno deflorare per offrire la propria verginità alla dea e anche per sostenere le spese del tempio e incrementarne le ricchezze.

Nella Tomba degli Scudi, una delle più grandi di Tarquinia, vediamo marito e moglie, che mangiano semisdraiati sulla klíne, il tipico letto da banchetto, uso testimoniato anche dai sarcofagi che non di rado raffigurano coppie distese in atto di cenare. Lei è stata identificata come Velia Seithiti. Accanto alla coppia stanno Velthur Velcha, padre del fondatore, e la sua sposa Ravnthu Arpthnai.

L’opera più famosa nel mondo, il Sarcofago degli sposi di Cerveteri, conservato presso il Museo Nazionale EtruscodiVilla GiuliaaRoma, mostra i due sposi sdraiati sul letto tricliniare mentre si abbracciano teneramente.

Il sarcofago nuziale di Cerveteri, Louvre, fine del VI secolo a.C.

I Greci evitano di raffigurare madri nell’atto di allattare i propri figli, invece uno dei principali capolavori di arte etrusca conservati presso il Museo Archeologico NazionalediFirenze rappresenta una madre che allatta un bambino avvolto in fasce: è la famosa Mater Matuta, la dea italica del mattino e dell’aurora, protettrice della fecondità, della maternità e della nascita. Indossa un abito a drappeggio e ha i capelli raccolti e trattenuti da una benda.

Mater Matuta, Museo Archeologico Nazionale, Firenze

Mentre le donne greche di elevata estrazione sociale affidano il compito di allattare i figli alle balie, le etrusche danno esse stesse il latte alla loro prole. Ne sono esempi la cosiddetta kourotrophos (“colei che nutre il bambino”) proveniente da Veio, un bronzetto custodito al Louvre raffigurante una madre che tiene per mano il figlio, e la grande statua, pure proveniente da Veio, di Latona, madre di Apollo, colta nell’atto di cullare il piccolo dio.

Sempre al Louvre si conserva una statuetta di bronzo che mostra una madre nell’atto di sollevare le braccia del figlio, come se stesse giocando con lui.

Per quanto la donna possa essere libera ed emancipata, è comunque da smentire l’ipotesi che la società etrusca sia di carattere matriarcale. Secondo gli studi più recenti, le donne in Etruria godono di tutta la libertà possibile e immaginabile (ovviamente, in relazione allo stile di vita di 2500 anni fa), ma non svolgono un ruolo dominante all’interno della famiglia: il fatto che nelle iscrizioni prevalgano i nomi dei padri (anche se talvolta compare quello della madre) porta a escludere che spetti alla donna la posizione principale in seno alla società.

Guardando le donne di oggi che, lottando con le unghie e con i denti, hanno raggiunto o quasi la tanto agognata parità, volgiamoci indietro e andiamo per un attimo col pensiero alle etrusche, che insieme a sumere, egizie e spartane, dopo una lunga collana di secoli restano un faro inestinguibile di eguaglianza e di libertà.

In copertina: Seianti Hanunia Tlesnasa, Sarcofago in terracotta dipinta, 150-130 a.C. ca.

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Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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