Prima scena: Zurigo, appartamento nel condominio dove Mileva vive da parecchi anni. Primavera del 1948.
Mileva: «Mi sento sola e triste. Voglio riguardare le foto della mia vita

Il mio primo figlio, Hans Albert, è andato in America nel 1938 come aveva fatto suo padre cinque anni prima. Vive e lavora in California, sono contenta di lui, ha un buon lavoro come ingegnere e una bella famiglia.
Chi mi preoccupa è Eduard, il mio piccolo… così tormentato. Sta al Burgholzji di Zurigo, ricoverato ormai da anni per schizofrenia. Gliel’hanno diagnosticata nel 1930 quando studiava medicina: voleva diventare uno psichiatra, ammirava Freud, ma stava male, aveva attacchi violenti di ira. Forse gli hanno fatto troppi electtroshock! Ho chiamato a visitarlo anche Carl Jung che lavorava proprio in quell’ospedale, ma mio figlio non è guarito. Da bambino era sensibile e malaticcio, aveva un talento nella musica ed era bravo negli studi. È cresciuto a Zurigo con me e il fratello Hans Albert, gli anni dell’adolescenza sono stati gli unici sereni.
Il padre, che viveva a Berlino, arrivava spesso in visita a casa e il ragazzo era in apparenza sereno, ma il suo male era in agguato, e deflagrò nel 1930, quando aveva vent’anni, in forma gravissima. Durante una crisi, mi ha anche aggredita. Nel ’32 si rese necessario il ricovero al Burghölzli, una clinica per malattie mentali di Zurigo, e da quel momento tutto cambiò per lui, poté uscire qualche volta, ma sarà destinato a trascorrere lì gran parte della sua esistenza.
Albert e Eduard si incontrarono una sola volta, come documenta una fotografia.

Fu nel ‘33, quando il padre lasciò fortunosamente Berlino per riparare in America con la seconda moglie. Hitler era diventato cancelliere, e Albert Einstein fu il primo obiettivo dei nazisti. Riuscì a mettersi in salvo e si precipitò a Zurigo per convincere il figlio a seguirlo. Senza riuscirci. Fu quello il loro unico e ultimo incontro, al Burghölzli. Insieme suonarono il piano e il violino, mi riferirono che disse al padre, con tono di sfida: «Venire con te? Meglio crepare». Lui che risolveva tutti i problemi, quello di Eduard non seppe risolverlo. Eduard studiava, scriveva (per esempio poesie) e non faceva mistero del suo essere come schiacciato da un padre insopportabilmente geniale e da un oscuro passato famigliare, che emergeva a poco a poco… Scoprì per esempio dal fratello Hans Albert che prima di loro c’era stata una bambina, nata dalla nostra unione quando eravamo studenti, ancora troppo giovani e squattrinati, la demmo a balia per perderla quasi subito, morta di scarlattina l’anno successivo la sua nascita.
Ma andiamo con ordine. Ecco la foto della casa dove io nacqui».

Seconda scena: Mileva ricorda la sua infanzia e la sua giovinezza.
Mileva: «Sono nata a Titel, non lontano da Novi Sad in Serbia, allora parte dell’Impero Austro Ungarico, il 19 dicembre 1875. Poco dopo la mia nascita mio padre Miloš abbandonò la carriera militare e trovò occupazione all’interno del sistema tribunalizio dell’Impero; lui è stato una figura determinante nella prima parte della mia vita. Mi diceva che dimostravo fin da bambina una spiccata intelligenza, accompagnata da una forte timidezza, accentuata da un difetto alla nascita che mi ha costretta per tutta la vita a zoppicare. Ero una ragazza molto curiosa e quando la famiglia si trasferisce a Zagabria, mio padre riesce a ottenere che io, unica femmina, frequenti il liceo di lingua tedesca.
Lì ho sempre primeggiato su tutti i maschi, ma pur facendo dieci volte quello che facevano i migliori non potei diplomarmi. Il desiderio di studiare, soprattutto le materie scientifiche, spinse mio padre a incoraggiarmi ad andare in Svizzera, dove le donne potevano iscriversi all’università e si parlava il tedesco che io conoscevo fin da piccola. A Berna mi diplomai e a Zurigo superai l’esame di ammissione al Politecnico, dove entrai da matricola nell’autunno del 1896: l’anno che cambiò la mia vita.

Ero così felice a Zurigo, una città all’avanguardia, vivace, aperta, con molti stimoli, ma io volevo solo studiare senza concedermi distrazioni. Ricordo ancora il primo giorno di lezione, nell’aula di fisica… Era ottobre… Il professor Weber fece l’appello, eravamo otto maschi e una sola donna: io. Albert si presentò in un modo che fece ridere tutti, era un burlone, curioso, un bohémien. I compagni mi definivano geniale, metodica e organizzata, certamente non una chiacchierona; avevo una passione per la matematica e la scienza, ma anche una profondità di pensiero e, credo, anche una personalità accattivante. Albert non mi toglieva mai gli occhi di dosso e cercava pretesti per rivolgermi la parola. Fu l’inizio di un sodalizio umano e intellettuale tra di noi, aspiranti scienziati, che presto sfociò in un’appassionata relazione.
In una lettera da Milano, dove i suoi si erano trasferiti, nell’estate del 1899, mi scriveva che «il lavoro che facciamo insieme è molto buono, qui il clima non mi soddisfa affatto, mi manca averti vicino per tenerti sotto controllo e impedirmi di vagare. Non vedo l’ora di riprendere il nostro nuovo lavoro comune». Nel 1901 Albert mi scriveva: «Come sarò felice e orgoglioso quando avremo terminato con successo il nostro lavoro sul moto relativo! Quando osservo le altre persone, apprezzo sempre di più le tue qualità!»
E nel 1903: «Ho bisogno di mia moglie. Lei risolve tutti i miei problemi matematici».
Mi vedeva come forte e indipendente e mi confidava sogni, progetti, speranze e disillusioni. Sono state tappe, spesso sofferte, di una maturazione emotiva e intellettuale che portarono alle grandi scoperte del 1905, vere rivoluzioni concettuali del nostro secolo.
Io, lungi dall’essere una pallida sua ombra, non restavo di certo estranea alla sua straordinaria progressione creativa. Ho condiviso molti interessi scientifici aiutandolo, come lui stesso ammise, a risolvere i suoi problemi matematici. Nelle sue lettere, dal 1897 al 1903, poco dopo il nostro matrimonio, c’era sempre l’amore dichiarato per me, mi chiamava con i nomi più diversi, più strani, più curiosi, più affettuosi. Mi diceva sempre che avrebbe voluto stare soltanto con me perché meglio si sarebbe sentito a differenza di come stava a casa, con i suoi e che, appena trovato un lavoro, ci saremmo sposati. Parlava pure dei suoi genitori, della sua vita in famiglia, dell’ostilità di sua madre nei riguardi del nostro fidanzamento e in ogni lettera mi pregava di salutare mio padre e mia madre.
Albert si laureò nel 1900, io aspettai l’anno dopo, ma non riuscii. Ho avuto l’impressione che i professori mi volessero ostacolare, benché io avessi buoni voti di presentazione: per una donna la preparazione non era mai soddisfacente; infatti il 90% delle donne abbandonava gli studi. Ritentai nel luglio del 1901, con una tesi sulla conduzione del calore, quando da poco avevo scoperto di essere incinta, ma fu ancora un fallimento. Ero affranta, vedevo i miei sogni sfumare; senza laurea non avrei potuto mai insegnare fisica e matematica come avevo sognato. Albert ventenne era innamorato, premuroso, garbato, galante, ma viveva anche i conflitti con gli altri scienziati, aveva costanti preoccupazioni per la ricerca di un posto di lavoro e ora anche le difficoltà per la gravidanza che doveva restare nascosta.
Io dovetti tornare a casa per far nascere la bambina, Lieserl, nel gennaio 1902; fu un parto difficile a Novi Sad, in Vojvodina, che mi incrinò l’anca. Lasciai la bambina ai miei genitori e tornai a Zurigo. Albert aveva trovato un lavoro come impiegato nell’ufficio brevetti di Berna. Era un lavoro noioso, ma, dopo la morte di suo padre, e nonostante che la madre di lui fosse contraria perché non ero né ebrea né tedesca, ci consentì di sposarci, il 6 gennaio 1903, e di sistemarci in un appartamento a Berna.

Venni a sapere a settembre di quell’anno che la piccola Lieserl era morta di scarlattina. Io mi occupavo della casa e del bambino, Hans Albert, nato nel maggio del 1904 e seguivo i progetti di Albert. Nel poco tempo libero dall’ufficio, Albert mi proponeva l’ennesima riflessione da lui fatta su un fenomeno fisico o mi chiedeva il parere su un esperimento o mi sottoponeva un’equazione. Leggeva le opere dei suoi professori universitari riguardo alle più recenti acquisizioni della Fisica, visto che il Centro Europa ribolliva, alla fine del diciannovesimo secolo, di simili studi. Einstein, con il mio aiuto, stava maturando alcune rivoluzionarie teorie: ne sarà lo scopritore in tre diverse aree della Fisica che cambieranno per sempre quanto fino allora era giunto dal passato e apriranno immense prospettive al futuro.
Di giorno io portavo avanti i calcoli che poi di notte insieme rivedevamo per poi scrivere gli articoli scientifici. Era il 1905, un anno intensissimo, l’annus mirabilis, nel quale lui lavorava ininterrottamente e ciò condusse alle scoperte circa il concetto di “quanto di luce”, della teoria del “moto browniano” e della teoria della “relatività ristretta” che sarebbe poi diventata della relatività “generale”.

In particolare scrivemmo un articolo sul moto browniano con cui si dimostra in maniera definitiva l’esistenza di atomi e molecole; un altro sull’effetto fotoelettrico e i quanti di luce, che costituisce una delle pietre fondamentali che fanno di Einstein il padre fondatore della meccanica quantistica; il terzo riguarda la relatività ristretta, con cui si dimostra l’equivalenza tra materia ed energia e con cui vengono mandati a casa i concetti di spazio e di tempo assoluto.
Quando finì i lavori Albert dormì per due settimane da quanto era stanco. Era una rivoluzione totale, investiva epoche intere, le cambiava, ma è ancor più sorprendente sapere che vi eravamo giunti con naturalezza, con la forza intuitiva dei giovani. Io non volli firmare gli articoli e fu un errore, ma allora temevo di rendere un pessimo servizio ad Albert firmando, perché le donne non erano ben viste in ambito scientifico. Io desideravo solo potermi occupare di fisica e sostenere il suo successo scientifico perché io e Albert siamo entrambi una sola pietra (ein stein), così dicevamo agli amici nelle discussioni al Caffè Metropole.
Andammo in Serbia quell’estate e tutti i miei parenti videro quanto noi due collaboravamo. Nel 1908 abbiamo costruito insieme un voltmetro ultrasensibile. «Il mio grande Albert è diventato un fisico famoso, molto rispettato e ammirato nel mondo scientifico. Lavora instancabilmente ai suoi problemi e si può dire che viva soltanto per essi».
Nel 1910 nacque Eduard e fino all’anno successivo io continuai a ricevere cartoline affettuose, ma dal 1912 non più: cosa stava succedendo?»

Terza scena: la crisi.
Mileva: «Non arrivavano più i saluti di Albert. A Berlino aveva rivisto sua cugina Eva Lowenthal e per due anni avevano mantenuto una corrispondenza. Poi ebbe un incarico a Praga e poi a Berlino, per stare vicino a Eva. Sentivo che ci stava trascurando. Lo seguii, con i bambini a Berlino nel 1914, quando Einstein divenne direttore presso l’Istituto di fisica Kaiser Wilhelm, ma vi rimasi solo pochi mesi poiché mi sentivo a disagio.
Nel 1914 mi chiese il divorzio. Sapevo che mi tradiva da tempo e facevo, ogni tanto, scenate di gelosia, ma quando lui mi chiese di divorziare mi sentii spiazzata, tagliata fuori e non volli accettare. Così arrivò quella terribile e umiliante lettera fattami consegnare da un amico in cui metteva per punti le sue condizioni per non divorziare. L’intenzione di Einstein sembrava fosse quella di preservare il nostro matrimonio in crisi per tutelare i figli, ma l’elenco suonava più come una minaccia. Prevedeva, tra le altre richieste, che io mi assicurassi di fornirgli abiti sempre puliti; tre pasti giornalieri nel suo studio che dovevo anche mantenere pulito e infine che «mi impegnassi a non sminuirlo davanti ai figli, con parole o comportamenti inadeguati».
Per quanto riguarda quello che io mi sarei potuta aspettare in cambio da lui, in una sezione si legge che avrei dovuto «rinunciare a tutti i rapporti personali con lui nella misura in cui non fossero necessari per ragioni sociali». Avrei dovuto rinunciare anche a «stare seduta a casa con lui, uscire o viaggiare insieme e non aspettarsi alcun tipo di intimità». Non dovevo neanche parlargli e avrei dovuto lasciare la stanza se lui lo richiedeva. Non potevo proprio accettare una simile umiliazione, una perdita di ruolo, e una freddezza assoluta.
Me ne andai a Zurigo con i bambini. Lunghe furono le trattative per il divorzio che avvenne nel 1919. Seppi che lui e Eva si sposarono solo quindici giorni dopo. Il dolore per la perdita dell’uomo che avevo amato rimase enorme. Mi sono confidata con una amica serba, ma i suoi legali mi hanno impedito, negli anni successivi, di rilasciare interviste che potevano sminuire il prestigio del grande premio Nobel! Mi aveva garantito i soldi del premio, se ne avesse preso uno, ma fu una gran fatica ottenere quella somma! Ho appreso che Einstein in una delle sue frasi più celebri ebbe a dire «il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti». Non voleva rivelare quanto l’anima creativa che aveva avuto accanto gli fosse stata utile.
Io che avevo il mito di Marie Curie, in casa avevo spesso la madre di Einstein, Pauline, che diceva cose tremende contro di me, diceva che ero pazza e che non sapevo tenere la casa in ordine. Io credo che si debba stare attenti quando si sente dire «abbiamo sempre fatto così» perché vuol dire che hanno sempre sbagliato.
Teatro filosofico: Mileva Maric, nata a Titel in Serbia, il 19 luglio 1875, morta a Zurigo il 4 agosto 1948. Tutte le storie che hanno a che fare con la Fisica sono straordinarie perché parlano di qualcosa – un’idea, un’invenzione – che prima non c’era e poi ci sarà.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.
Che squallore di uomo il geniale Einstein!
Non si meritava una donna così preziosa e unica come Mileva.
Le ingiustizie contro le donne sono infinite!
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