Ricorre il cento decimo anniversario della guerra di Libia; in realtà, sarebbe più appropriato e corretto definirla conquista della Libia. La recente storiografia, in particolare le ricerche di Angelo Del Boca, recentemente scomparso, ha definitivamente smascherato il mito autoconsolatorio degli “italiani brava gente” e portato a conoscenza delle atrocità e infamie commesse in Italia e all’estero, dai Balcani alla Libia, dalla Cina all’Etiopia.
Quella combattuta per quasi trent’anni in Libia è una guerra asimmetrica, come tutte le guerre imperialiste di conquista coloniale. Oggi la Libia comprende le due colonie italiane della Tripolitania e della Cirenaica, con i territori della Sirtica, della Marmarica e del Fezzan. La Cirenaica è di tradizione e lingua greca, mentre la Tripolitania è prima cartaginese e poi romana, dunque di lingua latina. Il nome Libia è un tardivo recupero dalla tradizione classica, che sembra derivare fin dal III millennio a.C. dal popolo dei Libi-Lebu, un gruppo di tribù cirenaiche stanziate a ridosso della vallata del Nilo; mentre la Libye dei Greci e dei Romani comprende tutto il Nord Africa, Egitto escluso e corrisponde al settore mediterraneo del continente collocato tra l’Oceano Atlantico ed il confine nilotico della Cirenaica. Dal 1551 la Tripolitania è soggetta all’impero ottomano. Secondo il censimento imperiale del 1911 conta 523.000 abitanti, escludendo la regione interna del Fezzan. La popolazione è decisamente eterogenea: accanto a nomadi e seminomadi, vi è un’ampia fetta sedentarizzata e, dal punto di vista etnico, convivono con una maggioranza araba le etnie berbera e cologhla, frutto dei matrimoni misti fra giannizzeri dell’esercito imperiale e donne arabe e berbere. La diffusa tolleranza reciproca ne fa una provincia piuttosto tranquilla, tanto che sono sufficienti circa tremila uomini di truppa a garantire l’ordine.

Questa regione è presentata dalla stampa italiana degli inizi del Novecento come estremamente arretrata; la realtà, tuttavia, è un po’ differente. Nel 1878 è stata introdotta l’istruzione obbligatoria e a cavallo tra il XIX e il XX secolo è in atto una grande rinascita culturale, in particolare nelle città costiere. A Tripoli è aperta nel 1907 la prima scuola per ciechi e sordomuti, sovvenzionata dalla missione francescana francese, e nel 1909 sono presenti numerose scuole straniere: 20 scuole ebraiche, 5 scuole elementari italiane, finanziate dal governo della Penisola, una scuola inglese e due francesi. Anche la stampa di informazione conosce un grande sviluppo: a Tripoli sono editi otto fra quotidiani e settimanali, in arabo, turco, italiano ed ebraico. Nel 1908 sono concesse le libertà di riunione e associazione e l’invio di una rappresentanza locale al parlamento di Costantinopoli. L’azione rivoluzionaria del movimento dei Giovani turchi nella capitale dell’impero e l’ingerenza delle nazioni europee nella regione contribuiscono alla nascita di una piccola classe di commercianti urbanizzati, benché permanga il potere della vecchia classe di notabili in una società che presenta alcuni tratti ancora tribali.
Dall’occupazione francese della Tunisia, in cui la presenza italiana supera numericamente quella d’Oltralpe, nel 1881, i movimenti nazionalisti e la maggior parte della stampa d’informazione italiana sostengono sia necessario occupare Tripolitania e Cirenaica, per ristabilire un equilibrio nel Mediterraneo. Risalgono al 1884 i primi preparativi militari per l’invasione della regione, definita nella pubblicistica “quarta sponda” dell’Italia, e al 1902 le intese con la Francia per la spartizione delle aree di influenza coloniale dell’Africa mediterranea. I nazionalisti cominciano nel 1903 a invocare la guerra, iniziando una campagna martellante sostenuta dalla grande stampa, che raggiunge il suo apice nel 1910. Tripolitania e Cirenaica sono presentate come una fertile terra promessa, idonea, secondo Enrico Corradini, a divenire sia colonia di sfruttamento, sia colonia di popolamento; la sua occupazione consentirebbe inoltre, secondo il leader nazionalista, di risolvere la questione meridionale, facendo emigrare le masse contadine del sud in un territorio anticamente colonizzato da Roma imperiale. Poche sono le voci contrarie; Luigi Einaudi sottolinea i pericoli e gli oneri economici dell’impresa, Arcangelo Ghisleri, geografo e storico che ha lungamente esplorato e studiato il territorio, reputa impossibile che possa diventare una colonia di popolamento e, infine, Gaetano Salvemini lo definisce «una enorme voragine di sabbia».
Alla campagna propagandistica alla luce del sole si accompagna un’attività segreta italiana, consistente nel raccogliere informazioni militari, prendere contatto con i capi arabi, sfruttando a proprio vantaggio le loro divisioni, e stabilire influenza attraverso un’azione di penetrazione economica, di cui dal 1907 è incaricato il Banco di Roma. L’istituto bancario italiano in breve tempo apre succursali e agenzie commerciali in ben diciassette città della regione e avvia numerose e diversificate attività: dalle linee di navigazione agli oleifici, dalle fabbriche di ghiaccio alle cave di pietra, dalle aziende agricole alle tipografie. Il Banco cerca di sostituirsi a tutte le attività economiche locali e assorbe il piccolo commercio e le piccole imprese, anche italiane. Questo suo frenetico attivismo, peraltro sostenuto dai consolati italiani, genera sospetti nella popolazione locale.

Inizialmente contrario, pure Giolitti si fa coinvolgere nell’avventura imperialista della conquista della Libia, convinto che la guerra si risolverà in una passeggiata militare e l’Europa si troverà davanti al fatto compiuto. Lo statista piemontese basa le proprie convinzioni sulle informazioni, che saranno successivamente smentite dai fatti, del console generale a Tripoli, Carlo Galli. Il diplomatico minimizza i rischi dello sbarco, esclude ogni possibilità di collusione tra arabi e turchi, anzi ritiene che i primi accoglieranno gli italiani come liberatori dal giogo ottomano. Il 26 settembre 1911 l’Italia manda un provocatorio ultimatum alla Turchia, che convenzionalmente segna l’inizio della guerra, e alla sua scadenza, il 3 ottobre, la marina italiana si avvicina alla costa libica con più di venti navi e apre il fuoco sui vecchi forti di Tripoli, dotati di armi obsolete. Il 5 ottobre le truppe italiane sbarcano in città, senza particolari incidenti, e due settimane dopo il corpo di spedizione – composto da 34.000 uomini e 72 cannoni – comandato dal generale Carlo Caneva si impadronisce di Tripoli e Homs in Tripolitania, Bengasi, Derna e Tobruq in Cirenaica. A Derna, Bengasi e Homs l’esercito italiano incontra una fiera resistenza e a Derna arabi e turchi combattono uniti contro gli invasori. Il 23 ottobre un attacco congiunto arabo-turco, condotto con molta brutalità, annienta due compagnie di bersaglieri a Sciara Sciat. Fa seguito una durissima rappresaglia: 4000 arabi sono uccisi per avere “tradito”, secondo i giornali italiani che non hanno il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: ribellione. A Tripoli si scatena la caccia all’arabo e nella piazza del Pane sono appesi alla forca, uno dei tristi simboli di questa invasione, e lasciati esposti 14 arabi. In Italia e a Tripoli si tesse l’elogio della forca e ci si lamenta della repressione troppo blanda. Scrive Filippo Tommaso Marinetti: «Abbiamo subito la sanzione fatale del nostro stupido umanitarismo coloniale». Il 24 ottobre Giolitti ordina con un telegramma al generale Caneva di inviare i rivoltosi arrestati e non fucilati al domicilio coatto alle Tremiti.

Tra il 25 e il 30 ottobre 4000 arabi sono caoticamente imbarcati per le Tremiti – che non ne possono ricevere più di 400 – Ustica, Ponza, Caserta, Gaeta e Favignana. La maggior parte dei deportati, tra cui numerosi sono i ragazzini e gli uomini anziani, è arrestata per strada o in casa senza che vi sia alcun indizio di colpevolezza, come riconosce perfino il rapporto della Commissione dei prigionieri al ministro per la guerra. La traversata è terribile e chi non sopravvive è gettato a mare nei porti di arrivo, chi sopravvive è inviato in colonie penali, nelle quali molti deportati muoiono. Sono migliaia coloro che non tornano più alle loro case. Fadil Hasin ash-Salmani, poeta di Misurata, condannato a 25 anni – poi ridotti a sette – per accuse non provate e detenuto a Favignana, scrive: «Siamo in piccole celle, pressati senza la luce del sole, chiuse le porte di ferro serrate. E ovunque io guardi, non vedo che Italiani».
Il 18 ottobre 1912 a Ouchy, in Svizzera, l’Italia firma il trattato di pace con la Turchia; sotto controllo italiano sono solamente le zone costiere, il restante 90% del territorio è ancora da conquistare, a tutti i costi e con ogni mezzo. Il 5 dicembre 1913 l’Avanti, quotidiano socialista, pubblica una serie di fotografie che mostrano soldati italiani impiccare arabi e il 18 dicembre Filippo Turati denuncia questa infamia in parlamento. Il 1913 e la maggior parte del 1914 sono di relativa pace in Tripolitania, fino all’attacco alla Gahra di Sebha, che distrugge la guarnigione italiana e segna l’inizio della “grande rivolta araba”, respingendo nuovamente gli italiani sulla costa. L’insurrezione è favorita dallo scoppio della Grande guerra, che porta a dislocare le truppe su altri fronti, e dalle continue violenze e le promesse non mantenute degli italiani. Ingenti sono le perdite umane – 10.000 soldati nel 1915, più che a Adua – e materiali: con le armi sottratte all’esercito occupante la resistenza libica combatte fino al 1932. Tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916, la Turchia, che fino ad allora aveva rifornito segretamente di armi e munizioni gli insorti, comincia a farlo alla luce del sole, non considerandosi più vincolata al trattato di pace. Nel 1917 l’esercito italiano inaugura la politica della “terra bruciata”, lanciando materiale incendiario sui terreni coltivati per distruggere i raccolti e ridurre la popolazione locale alla fame.

Il 15 novembre 1918 è proclamata la Repubblica di Tripolitania e agli inizi dell’anno successivo sbarcano a Tripoli decine di migliaia di soldati italiani potentemente armati, ma la controffensiva si rivela un fallimento. Si decide pertanto di rinviare l’offensiva militare e aprire trattative con i libici, consapevoli che la guerra sarà tutt’altro che una passeggiata, anzi sarà lunga e difficile, e che non è possibile spezzare la compagine della repubblica di Tripolitania, prodotto del nazionalismo arabo. Le trattative cominciano il 9 marzo 1919 e si concludono il successivo 17 aprile con la pace di Khallet ez-Zeiten (la valle dell’olivo). Segue il 1° giugno 1919 la concessione dello Statuto – o Patto fondamentale – i cui quaranta articoli prevedono l’abolizione della cittadinanza coloniale e il riconoscimento della “cittadinanza italiana della Tripolitania”; la sostituzione del servizio militare obbligatorio nell’esercito italiano con il servizio volontario nelle milizie locali; l’istituzione di un parlamento locale, con membri elettivi e di diritto; il riconoscimento di un eguale status alle lingue araba e italiana; le libertà di stampa e di riunione; il medesimo regime fiscale in vigore nell’impero ottomano, meno gravoso per i contribuenti; la libertà d’insegnamento privato, sottoposta alla vigilanza del governo; la possibilità per i tripolitani di essere eletti nel consiglio di governo e nei consigli regionali, circondariali, distrettuali e municipali. Il Patto fondamentale non è un istituto davvero democratico poiché garantisce ai libici una limitata compartecipazione al potere ed è, inoltre, sabotato, pure da parte libica, tanto che il parlamento e le altre istituzioni previste non entreranno mai in vigore.
Nel 1920 si riaccende la mai sopita contesa arabo-berbera, che si conclude tra ottobre e novembre dello stesso anno con il convegno di riconciliazione dei principali capi libici. I leader si accordano sulle richieste di un’ampia revisione dello Statuto, non ancora applicato, e della costituzione di un governo autonomo della Tripolitania, sotto il protettorato italiano. Le trattative si svolgono a Roma nell’aprile 1921, concludendosi con un nulla di fatto. Ad agosto suscita aspettative e qualche speranza la nomina del nuovo governatore, l’uomo d’affari Giuseppe Volpi, che vorrebbe attuare una politica di attrazione economica. Volpi, tuttavia, non riconosce gli errori italiani e vuole ristabilire un effettivo dominio dell’Italia sulla colonia ribelle. Al convegno di Sirte del gennaio 1922 i capi libici decidono l’unificazione della Tripolitania e della Cirenaica sotto il governo dell’emiro della Cirenaica, già riconosciuto dal governo italiano, e siglano il Patto di unità nazionale, che getta le basi di un autentico stato sovrano. La risposta italiana non si fa attendere: il 26 dello stesso mese truppe italiane di rinforzo sbarcano a Tripoli e la rivolta riesplode. Nel febbraio è nominato ministro delle colonie Giovanni Amendola, che conferma gli statuti libici, pone fine alla politica di aizzare l’uno contro l’altro i capi libici, ma rifiuta di trattare su un piano di parità con gli insorti. Tra marzo e aprile 1922 si tengono trattative italo-libiche, che sortiscono come esito solamente una tregua militare, rotta dai libici nello stesso mese di aprile. Le truppe italiane, guidate da Rodolfo Graziani, riconquistano la regione costiera e passano per le armi chiunque opponga resistenza. La strategia di Graziani ha come obiettivo la distruzione dell’avversario anziché la mera occupazione del territorio e punta alla valorizzazione di tutte le tecnologie più recenti: radio, aerei da ricognizione e da bombardamento, autocarri armati, autoblindomitragliatrici. L’estate del 1922 trascorre in Libia con relativa tranquillità, ma l’ascesa al potere del fascismo in Italia imprime alla guerra in corso un tono più sostenuto. Non solo cambia la dinamica delle operazioni militari, muta anche la mentalità degli invasori italiani, che si convincono della propria superiorità morale, oltre che tecnologica, sui libici. Oltre a bombardare la popolazione civile con l’aviazione, causando ingenti perdite, gli italiani bruciano le case dei capi della rivolta e allestiscono campi di concentramento. Il 23 novembre 1924 l’Italia riprende il controllo di Sirte. In due anni, dal 1922 al 1924, le organizzazioni ribelli libiche perdono seimila combattenti, ma la loro resistenza continua, anche dopo la confisca dei beni mobili e immobili di tredici dei loro capi. Nel giugno 1925 è nominato nuovo governatore italiano della regione Emilio De Bono, generale, fascista della prima ora e quadrumviro della cosiddetta “marcia su Roma”. Nel 1927 l’Italia sferra un imponente attacco a sud, con massicci bombardamenti aerei e uso di gas asfissianti, che producono effetti devastanti in chi ne è colpito. È l’applicazione quasi immediata della teoria del bombardamento strategico esposta dal generale italiano Giulio Douhet nel trattato Il dominio dell’aria (1921), secondo cui bisogna bombardare sia le truppe e gli obiettivi militari, sia la popolazione civile, per far crollare il morale del nemico, piegare la resistenza di chi combatte e influenzare le scelte dei politici. L’attacco, però, contravviene alla Convenzione dell’Aia del 1907, che vieta di «attaccare o bombardare, con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifici che non siano difesi» (art. 25) e stabilisce che «Il comandante delle truppe d’assalto, prima di intraprendere il bombardamento dovrà, nei limiti del possibile, fare tutto quanto sta in lui per avvertire le autorità» (art. 26). Nel 1928, nonostante il successo dell’attacco dell’anno precedente, continuano a essere presenti sacche di resistenza. Per stroncarle definitivamente, Mussolini nomina Pietro Badoglio governatore unico di Tripolitania e Cirenaica il 18 dicembre 1928. Il 14 gennaio 1929 Badoglio arriva a Tripoli e fa emanare due proclami: uno, rivolto agli italiani, in cui li rassicura che la colonia è una realtà, e un altro, rivolto ai libici, nel quale dichiara che il governo italiano è implacabile contro chi si ribella. Tra tutti i governatori italiani della colonia, Badoglio è il più spietato: fa deportare 100.000 persone dalla Cirenaica, fa costruire tredici campi di concentramento, in cui muoiono 40.000 libici e fa impiccare Omar al-Mukhtar, il capo della resistenza in Cirenaica.

Tra marzo e maggio 1929 i libici sferrano una serie di attacchi simultanei, ma sono sconfitti e costretti al disarmo totale, il ritiro nella regione interna del Fezzan e all’esilio in Sudan, Algeria e Tunisia. Dopo aver attirato i capi della resistenza con il pretesto di intavolare trattative di pace, Graziani e Badoglio marciano sul Fezzan e lo assoggettano. Nel giugno 1930 Badoglio scrive a Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale, largo e ben preciso, tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Nel 1930 ha sostanzialmente fine la lotta armata e nel 1930-31 si svolge una massacrante marcia nel deserto per raggiungere l’Algeria o, addirittura, la Tunisia: le truppe italiane bombardano costantemente i profughi in fuga, all’incirca cinque-seimila persone, tra cui numerosi civili. La conquista italiana è completata nel 1932 a prezzo dell’annientamento di un ottavo, cioè il 12,5% della popolazione libica, in combattimento e nei campi di sterminio.
Durante la Seconda guerra mondiale, le truppe del generale Montgomery entrano a Tripoli e finisce la dominazione italiana. Dopo il trattato di pace del 1947, la Gran Bretagna amministra la Tripolitania e la Cirenaica e la Francia il Fezzan. Nonostante le richieste italiane di un protettorato, il 24 dicembre 1951 la Libia dichiara l’indipendenza come Regno unito di Libia, una monarchia ereditaria e costituzionale sotto il re Idris al-Sanusi, deposto il 1° settembre 1969 da un gruppo di ufficiali, che proclamano la Repubblica araba di Libia. Seimila italiani partono subito. Gli altri 20.000 sono costretti a partire dopo il decreto del 21 luglio 1970 con cui il governo confisca le loro proprietà terriere più le proprietà immobiliari.
Il 30 agosto 2008 Gheddafi e Berlusconi firmano a Bengasi un trattato di amicizia e cooperazione, che prevede che l’Italia versi alla Libia in vent’anni cinque miliardi di dollari in aiuti, in cambio del pattugliamento costante della costa per impedire ai migranti di partire. Non si tratta dunque di un risarcimento, sia pure tardivo, delle atrocità commesse dall’Italia durante la colonizzazione, né il trattato vi fa riferimento in alcun modo.
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Articolo di Claudia Speziali

Nata a Brescia, si è laureata con lode in Storia contemporanea all’Università di Bologna e ha studiato Translation Studies all’Università di Canberra (Australia). Ha insegnato lingua e letteratura italiana, storia, filosofia nella scuola superiore, lingua e cultura italiana alle Università di Canberra e di Heidelberg; attualmente insegna lettere in un liceo artistico a Brescia.