Quanto segue è la seconda e ultima parte della sintesi del lavoro di approfondimento e riflessione che, come IFE Italia, abbiamo iniziato nel 2010 con la giornata di studio su Differenti ma non diseguali. Lavoro, welfare, eguaglianza (qui la prima parte).
Dentro la Pandemia: tutto cambia perché nulla cambi?
Il modello di “welfare mercantile” ha dimostrato tutte le sue fragilità nella pandemia prodotta dal diffondersi dei contagi da covid-19. Al tempo stesso è apparso evidente che sono solo i sistemi sanitari, socio-sanitari e sociali pubblici gli unici in grado di dare risposte adeguate. E ha dimostrato altresì quanto è costato in termine di vite umane l’aver promosso in campo sanitario e per fini puramente economici, una visione “ospedalocentrica” e mercantile, mortificando la prevenzione e i servizi territoriali.
La pandemia ha svelato che è l’”economia della cura”, per dirla con Nancy Fraser, ad aver garantito e curato la vita e non l’economia del profitto, che invece questa vita mette a rischio. La cura di sé, delle persone, del vivente e del mondo è l’unico futuro possibile. Una cura però, lo ribadiamo, da intendersi come un nuovo paradigma di senso e di pratica, che presuppone un riorientamento radicale di pensiero insieme all’esigenza di un modo diverso di stare al mondo.
La pandemia ha svelato la fragilità e l’interdipendenza dei nostri corpi e dunque si sarebbe potuto ragionare su come prendersene cura nelle differenti fasi dell’esistenza, come ci hanno insegnato diverse elaborazioni femministe in particolare quelle che colgono le intersezioni fra genere/classe/provenienza.
Niente di tutto ciò si ritrova nel Piano nazionale di resilienza e ripresa (Pnrr) del governo Draghi a dimostrazione del fatto che le riforme strutturali auspicate dall’UE e la momentanea sospensione del debito a favore di politiche espansive non hanno alcuna intenzione di mettere in discussione l’attuale modello sociale ed economico. Basta leggere, come abbiamo fatto, il Pnrr del governo Draghi per avere conferma che tutto cambia perché nulla cambi.
Il Piano afferma di conoscere la fragilità del tessuto sociale, ulteriormente accentuata dalla pandemia in corso, ma conferma, nei fatti, le politiche economiche e sociali che hanno portato al collasso. La sospensione dei patti di stabilità, cioè del debito pubblico, ha fatto solo credere che si aprisse una fase espansiva del sistema capitalista con investimenti consistenti sul sistema di welfare pubblico a favore della salute e del benessere delle e dei cittadini. Non sarà così, le risorse disponibili verranno in gran parte destinate alle imprese e i costi della crisi verranno fatti pagare dai ceti popolari sotto forma di licenziamenti, ulteriore precarietà, rincaro dei costi.
Il Pnrr a parole, assume come centrale l’obiettivo di implementare le infrastrutture sociali. Nei fatti però non si indicano quante risorse verranno destinate per aumentare i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) o quante risorse verranno messe a disposizione delle singole Regioni, e da qui ai Comuni, per programmare processi di empowerment territoriale sul piano sociale. Nei fatti vengono riconfermati i presupposti che hanno fondato le politiche neo-liberiste degli ultimi decenni: si ribadisce che la centralità del mercato va salvaguardata seppure in una dimensione europea di interdipendenza. Così come si riconferma l’importanza delle imprese private, considerate al pari dello Stato nella capacità di affrontare i problemi posti dalla pandemia.
Insomma nonostante lo shock pandemico abbia messo in luce quanto sia l’”economia della cura” l’unica capace di salvare la vita, il Pnrr ribadisce le ricette classiche dell’economia capitalista e del modello sociale che ne consegue: proprietà privata, concorrenza, competitività, coesione (cioè assenza di conflitto).
La sospensione del debito, poi, è un’operazione da “fumo negli occhi”. Il debito tornerà a essere uno dei vincoli (letali) delle prossime politiche economiche e sociali, come del resto afferma lo stesso Draghi, preceduto da Carlo Cottarelli, che pochi mesi fa dalle pagine di Repubblica scriveva che «si sta discutendo di quanto stretti siano i vincoli, non del fatto che i vincoli debbano esistere».
Pillole di futuro. «Dove manca, inventa» (Monique Witting)
Dobbiamo rassegnarsi al pessimismo o alla frustrazione? Crediamo di no.
All’interno della pandemia sono nate, o si sono rafforzate, in contesti molto differenti fra loro, azioni, esperienze, pratiche che potrebbero divenire esempi virtuosi e indicare percorsi alternativi al mercato:
– le esperienze concrete di neo-mutualismo che abbiamo presentato durante il ciclo La cura in pillole non vanno intese, come ha spiegato chi le agisce, come risposta assistenzialistica ai bisogni delle persone di un dato territorio, ma come pratiche politiche per costruire legami sociali, condivisione, solidarietà. coscienza di sé e del mondo;
– nel seminario Trame di comunità. Animare il respiro dei Territori iniziato a Padova nel 2020 e qui conclusosi nell’aprile 2021, sono state presentate azioni trasformative messe in atto da cooperative di comunità, associazioni di volontariato e anche municipalità consapevoli, che si sono poste l’obiettivo primario di “ricostruire tessuto sociale” cioè i rapporti fra le persone e con l’ambiente di vita che l’incuria neo-liberista ha frantumato. Durante l’ultima sessione del seminario la sociologa Franca Olivetti Manoukian ha sostenuto che «La società non esiste dei per sé, ma si costruisce nelle relazioni, nelle esperienze concrete che vanno concettualizzate per trarne indicazioni metodologiche capaci di produrre evoluzioni/transizioni/passaggi, che mettano al centro le persone e la cura di esse e del territorio»:
– nel Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Care Collective, cioè l’insieme delle attiviste e degli attivisti che hanno scritto il Manifesto, propone quattro cardini fondamentali per dare vita a comunità di cura: il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità. Facendo tesoro delle buone pratiche dei movimenti femministi e ambientalisti, teorizza una cura reciproca, non paternalista né assistenzialista ma “promiscua”, che non discrimina nessuna/o e sia fuori dalle logiche di mercato. L’obiettivo è arrivare a un vero e proprio «stato di cura» che non solo crea infrastrutture di welfare «dalla culla alla tomba», ma genera una nuova idea di democrazia orientata ai bisogni collettivi. Dimostrando che la cura è il concetto e la pratica più radicale che abbiamo oggi a disposizione. A patto che la si intenda nel modo indicato dai movimenti femministi.
Qualche suggestione per un welfare come bene comune
A partire da quanto abbiamo analizzato, approfondito, ascoltato, ragionato, anche grazie al contributo delle altre soggettività collettive che abbiamo invitato a discutere con noi (Medicina Democratica, Attac, Casa del popolo di Lucca, la Limonaia di Pisa, Je so’ pazzo di Napoli, Ri-make di Milano,le esperienze piacentine di Confederalità Sociale,) proviamo a indicare alcuni principi di base che potrebbero aiutare il passaggio da un “welfare mercantile” a un “welfare bene comune”:
– universalità per rendere esigibile quanto indicato nell’articolo 3 della nostra Carta Costituzionale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso , di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»;
– sicurezza e protezione sociali come elementi di una progettualità territoriale che abbia “passo corto” nel dare risposte adeguate a bisogni concreti, ma “visione lunga” in modo che le risposte non siano frammentarie, episodiche o emergenziali;
– eguaglianzada intendersi sia come processo individuale e collettivo che sovverte le strutture, personali e sociali, che hanno determinato diseguaglianza sia come capacità di cogliere le intersezioni fra genere/classe/provenienza che attraversano i soggetti;
– equità per dare a ciascuna/o secondo i propri bisogni e le proprie necessità;
– autodeterminazione per rendere le persone non oggetto di assistenza, né semplici fruitrici di servizi, ma protagoniste di percorsi trasformativi;
– dimensione pubblica che rompa sia con l’idea mercantile di sussidiarietà orizzontale funzionale, esclusivamente, al finanziamento del privato con risorse pubbliche, sia con quella gerarchicamente agita da strutture statali. Il concetto di “pubblico” dovrebbe indicare una partecipazione personale e collettiva al “bene comune” che superi l’orizzonte sociale e antropologico della “proprietà” per intrattenere rapporti sociali liberati dal possesso e dal consumo e orientati alla cura di sé, delle persone e del mondo.
Restano aperte alcune questioni di fondo sulle quali vorremmo continuare a costruire altre occasioni di incontro e confronto, auspicabilmente con tutte le realtà disponibili e interessate:
– come costruire convergenza fra realtà diverse che propongono e praticano modelli di mercato;
– quale alternativa al welfare di mercato;
– quale ruolo dovrebbe assumere lo Stato e quale significato dare al concetto di “servizio pubblico”;
– quali e quante risorse economiche sono necessarie.
Infine la questione delle questioni: come concettualizzare collettivamente e dare quindi dimensione politica alle esperienze e alle pratiche per superare la frammentazione e proporre un’alternativa concreta al modello capitalista capace di agire conflitto?
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Articolo di Nicoletta Pirotta

Attiva in campo associativo, sindacale e politico: il filo rosso che ha legato questi ambiti è stato ed è l’impegno femminista. Sono stata fra le fondatrici dell’Assemblea Permanente delle donne della Funzione Pubblica CGIL di Como e, in Italia, della Marcia Mondiale delle donne. Con il Prc sono stata eletta per due mandati consecutivi nella Commissione Pari Opportunità di Regione Lombardia. Dal 2008 sono attivista di IFE Italia e nella rete europea di “Feminists for Another Europe”.