«L’obiettivo ha sempre rappresentato un’estensione del mio corpo, il battito disordinato del mio cuore, la vibrazione del mio pensiero, una parte viva di me».
Leggo un comunicato recente che riguarda l’inizio delle riprese di una serie televisiva, con regia di Roberto Andò, sulla vita di Letizia Battaglia. Non è la prima volta che la sua vicenda è oggetto di documentari e film ma una serie promette un impatto e una divulgazione ampia, tra un pubblico molto diversificato; questa notizia mi ha spinto a rileggere Mi prendo il mondo ovunque sia (Einaudi, 2020). Il libro è composto da due parti: nella prima Letizia Battaglia, come un torrente in piena, racconta senza censure la propria vita di donna, fotoreporter, fotografa, persona impegnata in politica e nel sociale. Nella seconda, Sabrina Pisu, coautrice del volume, ricostruisce con lucidità e amore il contesto politico e giudiziario della Sicilia e dell’Italia in cui Battaglia ha operato; ma è sulla prima parte che mi sono soffermata.

«La guardo e penso che la sua vita sia un romanzo che racconta in maniera unica ed esemplare il Novecento italiano» così Sabrina Pisu sintetizza la necessità di una biografia di Letizia Battaglia e lei stessa, poche pagine dopo, chiarisce così: «Ho urgenza di fare ordine, i ricordi si assommano, caotici come me, e alcuni premono più forti di altri. È faticoso cercare di mettere a posto le emozioni […] È necessario, però, che io attraversi questa memoria, che è mia, ma anche e soprattutto collettiva, e che affronti il dovere di ricordare anche se a tratti mi farà male, molto male, guardare al passato». Credo che in queste espressioni si riassuma il senso di una vita e le ragioni di un’autobiografia che si offre, potente strumento di chiarificazione capace di “fare ordine”, alla protagonista e a tutte/i noi. Vita di una donna che conquista la propria autonomia e che con assoluta onestà ce lo racconta. Linguaggio spontaneo, diretto, di cui mi piace riportare − come esempio − un paio di espressioni meravigliosamente sintetiche ed efficaci: «mi crollava il cuore» (a proposito del fallimento del suo matrimonio) o il tragico «il mio archivio si riempì di sangue» riguardo alla guerra di mafia.
Letizia si racconta, Letizia si confessa: come scrive Maria Zambrano in L’agonia dell’Europa per “diventare trasparenti” a sé stessi, per ricominciare ogni volta che un ostacolo ci ferma, ci tira indietro, ci “spezza”, bisogna scendere nell’interiorità, in quella sorgente profonda che ci permette di rinnovarci e di ripartire con forza. Ma la confessione ha bisogno di ascolto: siamo noi qui a svolgere questo compito che riguarda anche noi, ci coinvolge quasi in un corpo a corpo e ci costringe verso un processo analogo. Letizia racconta della sua infanzia, dei suoi amati genitori, della nonna e delle zie, ricorda delicati particolari della quotidianità: è un quadro lieve, «dolce e rassicurante» anche se il periodo storico non è affatto facile: «non c’è la mafia ma la guerra», i bombardamenti, la fame, i combattimenti del 1945 tra tedeschi e partigiani jugoslavi. Racconta poi il suo matrimonio − precocissimo, a sedici anni − scelto con la speranza di trovare una sua strada e spazi di libertà. Racconta un’esperienza simile a quella di molte donne: vita di famiglia, relazioni sociali ma il marito non crede che lei possa avere un “pensiero suo”, non la considera “una persona”. Lentamente e faticosamente (passando per una decisiva esperienza di analisi) troverà la forza di rompere quel legame.
Letizia si racconta, ancora. Inizia a lavorare al quotidiano L’Ora − «scuola di giornalismo civile» − come cronista e lì si troverà a dover sostituire fotoreporter assenti. Diventata fotografa per caso, dunque, e per la necessità di mantenersi, sarà un’innovatrice. Letizia racconta. Sono gli anni delle guerre di mafia: le documenta come essere umano, cittadina, giornalista che parla con le immagini. Le sue sono fotografie che inchiodano; ottenute con rabbia, con determinazione, con violenza quasi; deve combattere contro una doppia marginalizzazione: donna in un periodo in cui i giornalisti sono quasi tutti maschi e fotografa, in un mondo in cui le immagini sono subordinate alle parole. Riuscirà a imporre l’autorialità delle foto e a farsi largo per documentare le scene orribili dei morti ammazzati, scenari che le forze dell’ordine non vogliono farle vedere − quasi a proteggerla – «non sono scene da donna, queste». Sarà il capo della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, che lei ricorda con affetto, a rompere questo muro, a riconoscere e far riconoscere l’importanza del suo lavoro. Sono foto importanti le sue, che hanno fatto la storia, «sincere, drammatiche, coraggiose» come la sua vita; «scatti pieni di confusione e di significato», come quelli − per citare solo un caso − dell’omicidio di Piersanti Mattarella (in foto).

Non sono perfette ma lei vuole dare voce ai tanti morti, anche a quelli anonimi che «morivano come erano nati senza che nessuno se ne accorgesse»; sono foto con le quali provare a scrivere una storia diversa della Sicilia: «non potevamo permettere che vincesse la parte corrotta della società». Ma come si può essere testimoni di tante morti, come si può sopportare tanto dolore? Come ci si sente dopo aver fotografato un figlio cui hanno ammazzato un padre, una madre cui hanno ammazzato un figlio? Come può farlo lei? Se ne esce − si prova ad uscirne − con la bellezza, col suo valore catartico. Ed ecco il progetto: rielaborare alcune foto, aggiungere a queste immagini di dolore, miseria e morte elementi di vita, di speranza, che − senza far dimenticare l’orrore − spostino il punctum, il centro dell’attenzione.
Fotografa affermata, nel 1985 vince (prima donna europea) ex aequo con Donna Ferraro il Premio Eugene Smith, e successivamente molti altri, non si ferma. Indomita, ribelle e generosa sperimenta altre strade: il teatro innanzitutto, partecipando attivamente alla scuola di Michela Perriera e portando nel 1978 il teatro nella “Real Casa dei Matti”, con un laboratorio dal valore liberatorio che favorisce l’interazione con la società delle persone ricoverate (ricordiamo che la legge Basaglia sarà approvata pochi mesi dopo)

E poi c’è, importantissima, l’esperienza politica nella sua Palermo, città dalla quale non è mai riuscita a staccarsi se non per brevi periodi e alla quale la lega «un sentimento di rabbia e di dolcissima disperazione». Sente la responsabilità di combattere per dare una speranza alla sua terra: non le basta fotografare, vuole impegnarsi di più. Nel 1986 entra in Consiglio Comunale e poi diventa assessora nel 1987; quello che colpisce, ancora una volta, è il modo con cui si tuffa in questa esperienza, ascoltando la gente – bambini e bambine soprattutto −, facendo «azioni concrete di bellezza» (anche spostare panchine); intercettando i bisogni e i desideri delle persone; praticando una politica vissuta con un’umiltà e una sincerità che finiscono per convincere e coinvolgere.
Ma, a mio parere, due sono gli ambiti in cui Letizia Battaglia − che non vuole e non può essere rinchiusa in una sola definizione, in un solo mestiere, in una sola etichetta − ha dato e dà il contributo più significativo: la fotografia e il dare voce al femminile con la sua vita e la sua azione. La sua storia personale è esemplare della condizione della donna e mostra che è possibile farcela: educata in una famiglia tradizionale, soffre i lacci e i vincoli di un matrimonio borghese, la somatizzazione e il dolore, cerca un suo spazio pagando un prezzo che è sempre più alto ed emotivamente ricattatorio per le donne che per gli uomini. Riesce però a tirare fuori sé stessa, a trovare la sua autonomia, ascoltando il suo “ io profondo”. Forte della propria esperienza, mette spesso le donne al centro del suo lavoro, lo rivendica come una scelta creativa che nasce da un “sentimento di solidarietà”, attribuisce loro un ruolo purificatore. Quando le fotografa nude, ad esempio, lo fa con un’intenzione ʽpolitica’: la rivendicazione del diritto di essere come siamo, fragili, impulsive, coraggiose, giovani, vecchie e così via. E spessissimo fotografa bambine, quasi adolescenti, bambine che hanno lo sguardo serio, pulito, pieno di curiosità e speranza di chi indaga il mondo per la prima volta. E non basta. È tra le fondatrici di Mezzocielo, rivista bimestrale fatta da donne per far sentire la loro voce, per «opporci alla tendenza schiacciante della politica di ingabbiare le donne, il femminismo, solo come un problema di parità. Vogliamo invece continuare a far emergere la nostra differenza. Ci rivolgiamo a donne e uomini che vogliono vivere il mondo con originalità personale capace di diventare politica, ossia cambiamento del mondo e di sé».

Alla fotografia, «disperata passione», dedica molte riflessioni: leggendole, mi sono chiesta se ci sia un modo di fotografare tipicamente femminile. Non so rispondere ma certamente Letizia Battaglia porta nel suo mestiere caratteristiche peculiari della sua storia e del suo essere donna. Racconta del proprio modo di essere fotoreporter: non è interessata alla perfezione tecnica («sbaglio ancora l’esposizione», scrive) ma alla capacità di cogliere il senso delle situazioni, usa il grandangolo, inquadra da vicino, sempre con rispetto per la dignità della persona; quando fotografa un mafioso, un uomo in manette, vuole che lui sappia di essere ripreso; è una sfida la sua, ma leale, e anche pericolosa; riceve molte minacce e per un periodo è sotto scorta. Mestiere solitario il suo (a differenza del cinema in cui pure si è cimentata), nello scatto mette tutto il suo mondo: «in quel secondo il fotografo si porta dietro quello che sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato, meditato. In quel secondo converge tutto»; tutto è nello sguardo e il suo è crudo e insieme lirico. Letizia sa bene che la fotografia esprime l’anima di chi scatta ma che “ruba” anche quella di chi è ritratto e per questo ragiona, con competenza, modestia e spirito di ricerca, sui limiti etici e deontologici di questo mestiere e del rapporto che si instaura tra immagine e realtà. È anche organizzatrice culturale: dalla creazione di “Informazione Fotografia”, galleria fondata nel 1977, alle mostre contro la mafia, che furono un atto forte di lotta politica, perché mostrare insieme tante foto di mafia, nei paesi dove non si poteva neanche pronunciare questo nome, è – ancora oggi − un atto politico, rivoluzionario e coraggioso. E infine il Centro Internazionale di fotografia di Palermo: «un miracolo per Palermo», intensamente voluto e inaugurato nel 2017.

Letizia scrive che questo centro è «una vittoria di tutta la citta: un sogno civile, collettivo. È una “cattedrale” dell’arte degna di grandi città come Tokyo o New York» e questa frase mi fa pensare, per contiguità, a quanto scrive Renzo Piano a proposito dell’ospedale da lui progettato e realizzato in Uganda per Emergency «Gino mi ha sempre chiesto di disegnare un ospedale “scandalosamente bello” […] perché per certe persone è uno scandalo offrire bellezza ed eccellenza a tutti, in particolare ai più svantaggiati ed emarginati». Un’iniziativa ʽscandalosamente’ importante, dunque, un luogo di incontro di formazione, di educazione, «presidio di resistenza» contro la mafia nella quotidianità, perché l’antidoto alla mafia è «fare il proprio dovere». Spazio in cui Letizia insegna alle giovani generazioni la ricerca della bellezza e della felicità e dove passa loro il testimone.
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Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia. Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.